Pietro Barbetta e Andrea Mosconi ricordano Osvaldo Galvano

Pietro Barbetta e Andrea Mosconi ricordano Osvaldo Galvano

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Osvaldo Galvano, el gordo triste

di Pietro Barbetta

Osvaldo era un pedazo (un pezzo) di Buenos Aires, nell’aire italico. Questa orazione funebre, forse, la capiranno in pochi, il mio amore per l’Argentina era il contesto della mia amicizia con Osvaldo Galvano.

Era sempre sereno, anche se dietro questa serenità si potevano osservare le inquietudini di un hombre porteño. Con quella faccia un po’ così, che, come noi che abbiamo visto l’Argentina, ben sicuri mai non siamo se quel posto dove andiamo non c’inghiotta e non torniamo più.

Benché trasferitosi in Italia giovane, iscritto a medicina alla UBA, si laurea a Genova, la Buenos Aires italiana. Osvaldo l’italiano non aveva perduto nulla dell’Osvaldo argentino: aveva il corpo porteño, il portamento, lo sguardo, per parafrasare Ivano Fossati, Osvaldo era un argentino in Italia. Teneva dentro sé quel modo di vedere le cose un po’ sempre come un canto del cigno, come la testata allo sterno da parte di Zidane a quel giocatore italiano, di cui nessuno ricorda il nome, che probabilmente lo molestava con insulti razzisti: il canto del cigno di un grande campione. Vestigia di un tango che permea la vita della gente che vive tra Buenos Aires e Montevideo.

Morto prima dei settanta, prematuramente.

Di lui ricordo le discussioni intorno al mio libro Lo schizofrenico della famiglia, che giudicava spregiudicato, privo di pregiudizi, mentre io sostenevo che di pregiudizi io, sulla schizofrenia ne avevo tanti; per esempio che le contenzioni psichiatriche peggioravano le condizioni cliniche dei pazienti, li rendevano paranoici.

I suoi interventi erano sempre mirati e lucidi, venivano da lontano, e si vedeva. Quando andai a Trieste a fare un seminario, presso la nostra Scuola, gli allievi mi raccontarono di come lui, con gli assistenti alla didattica, facesse a mezzogiorno le ordinazioni in un magnifico ristorante per telefono, di modo che, quando si arrivava là, i piatti fossero già pronti. Il ristorante era ottimo, ma stava un po’ distante dalla Scuola, dunque si mangiava benissimo, ma si arrivava sempre in orario per il rientro.

Strategia porteña in una città del Nord Italia, dove il ritardo è disdicevole. Ottima metodologia di rientro di quella mezz’ora che ti fa guadagnare tempo, mentre a Buenos Aires sarebbe stato scortese arrivare in orario, per il comfort di chi mi aspetta quella mezz’ora è stile, maniera, educazione.

Osvaldo, regolare membro esterno di Commissione alle tesi finali della scuola di Milano, con le sue osservazioni puntuali, precise aveva sempre un peso culturale e clinico importante. Sempre gentile, sorridente con quel suo accento Lunfardo che ti invita, se hai visto Buenos Aires, a parlare il Castigliano, che non è lo Spagnolo che parlano a Madrid, ma quello di Valladolid, con l’aggiunta di parole portoghesi, polacche, russe, italiane, francesi, ebraiche, yiddish, ladine, gaeliche e di chissà quali altre parti del mondo: il Lunfardo, appunto. Parole eguali, ma con significati che slittano, come “camorra”, che non significa “organizzazione criminale”, ma una tipo “attaccabrighe”, ecc.

Eppure lui, sempre pacifico, sembrava avare una beatitudine pingue e gioiosa, come quella di un famoso bandoneonista del suo grande paese: Hannibal Troilo.

La sua perdita merita questa poesia di Horacio Ferrer, musicata da Astor Piazzolla, cantata da Roberto Goyeneche.

 

In ricordo di Osvaldo Galvano

di Andrea Mosconi

28 maggio 2022, un giorno come un altro? Pareva di sì: impegni, terapie, un workshop al Cptf, tutto sembrava essere come sempre; alle 18 circa, però, mi raggiunge un messaggio di Luisanna: “mi ha scritto Gloria: una malattia dal nome dolce: Mieloma, ha deciso che Osvaldo doveva partire per un lungo viaggio. Mi piace pensare che adesso sia in volo per l’Argentina”. Mi si stringe il cuore e la sua immagine mi si presenta netta alla mente. Osvaldo, il nostro Osvaldo era partito. Non ce lo si aspettava o almeno non così presto. Sapevamo, ce l’aveva detto, che c’erano stati nuovi problemi di salute, ma che evolvessero così in fretta era davvero imprevisto. Voglio/vogliamo allora ricordarlo per noi stessi, per quanti l’hanno conosciuto e apprezzato e per Lui! Voglio, inoltre, parlare al plurale perché sono sicuro di parlare anche a nome di tutti i colleghi del Cptf e anche perché è insieme a Pio che ti ho conosciuto e con cui ora penso Tu possa essere.

La mente corre agli anni passati quando ti abbiamo conosciuto come uno dei primi allievi e da subito c’era stato una spontanea simpatia. Quel tratto di nobiltà, i tuoi immancabili “cravattini a farfalla”, la spontanea gentilezza che si sposava perfettamente con il tuo italiano dall’accento marcatamente spagnolo che arrotondava le parole e le rendeva più musicali. Portavi con te lo spirito latino della tua Argentina. Ci raccontasti come te ne eri allontanato per sfuggire alle persecuzioni del regime politico di allora e ci eri sembrato un po’ un eroe con una punta di romanticismo. Ma non c’era solo questo, naturalmente, ci colpì anche la tua arguzia ed intelligenza. Venivi da una formazione in Ipnosi Ericksoniana ed ora ti inserivi nella formazione Sistemica che ben si sposava con essa e con la Psichiatria Sociale di cui eri un rappresentante e forte sostenitore. Già allora la tua presenza nei gruppi di formazione aggiungeva una nota in più. Una lettura delle situazioni cliniche connotata da un’arguzia che individuava subito l’aspetto paradossale presente nei comportamenti dei “pazienti designati”. Lo stile del paradosso e controparadosso terapeutico e una visione strategica della terapia ti veniva talmente spontaneo che sembrava tutt’uno con il tuo modo di essere. Doti che per alcuni aspetti assomigliavano a quelle di Gianfranco Cecchin e che rendevano leggero il tuo modo di fare terapia. In perfetto stile Ericksoniano spesso i tuoi interventi erano fatti di racconti, metafore, considerazioni paradossali. Davvero un piacere interagire con te e vederti lavorare. E sì che la tua pratica clinica non si svolgeva in un contesto leggero, anzi, eri e sei rimasto per tutto il tuo percorso professionale, nella Psichiatria pubblica ad affrontare le situazioni più difficili di cui doverosamente questo settore della clinica si fa carico. Sappiamo che anche in quell’ambito eri amato e stimato. Per tutte queste doti, quando iniziammo ad individuare chi potesse aiutarci nella didattica della Scuola di Specializzazione pensammo subito a Te. Iniziò allora un lungo periodo di intensa e proficua collaborazione. Apprezzato dagli allievi per le tue qualità di docente, per la chiarezza espositiva, la capacità di rendere concetti difficili con parole semplici ed il calore con cui li coinvolgevi. Sei stato una colonna della didattica fino dai primi anni della Scuola e lo sei stato fino alla fine. Eravamo sicuri di poter contare su di un collega esperto e didatta di grande capacità. Nei pareri degli allievi sia per la didattica Sistemica che per le altre materie come la Psicopatologia, i punteggi erano sempre altissimi.

E poi… e poi c’era il “fuori orario”.

Quando ai congressi spesso ti cercavamo per andare a cena non ti trovavamo, ma dove eri…? I racconti venivano la mattina dopo dagli allievi dei tuoi gruppi e da qualcuno di noi che era sparito insieme a Te. Dove eri andato? Avevi, sicuramente, sfoderato le tue doti di “uomo di mondo”, quale eri, e li avevi coinvolti in qualche cena in locali particolari che tu conoscevi dove la cucina era particolarmente buona ed il vino pure e magari anche con un giro di “tango argentino”. I vini ed i locali di Osvaldo: un altro “must”. Non lo facevi certo per esibire ma per il piacere di coinvolgere gli allievi ed i colleghi in momenti di convivialità che favorissero le relazioni nel gruppo. Una parte della tua generosità. La stessa che mostravi quando nelle occcasioni di festa del Centro arrivavi pronto per preparare il tuo “Asado” famosissimo. Arrivavi con un set di coltelli e strumenti vari degno di un chirurgo di alta specializzazione e poi esponevi tutti i pezzi di carne specialmente selezionati da te. Una sola volta ho provato, sentendomi in dovere di ricambiare, a procurare io la carne ed ho capito… che non c’era storia: l’Asado argentino di Galvano era un’altra cosa.

Tante, quindi, le storie che abbiamo condiviso e tutte belle. Ma un’altra cosa voglio ricordare che può sembrare che con la clinica non abbia a che fare, ma che, invece, credo sia di grande importanza.  In tutti questi anni in cui sei stato con noi e, poi, con me hai mostrato sempre la tua disponibilità e generosità nell’impegno anche quello più scomodo, ma soprattutto la tua modestia ed onestà. Non è cosa da poco e lo è ancora di più quando è costante e sincera negli anni. Avere qualcuno su cui davvero puoi contare è molto, moltissimo in ogni tipo di relazione: professionale, clinica, ma soprattutto amicale. Per tutto questo un grande GRAZIE a Te Osvaldo, per questi anni passati insieme e per come resterai sempre nei nostri cuori.