di Fany Triantafillou (*) e Kelly Patrikou (**)
(*) Psichiatra, pscoterapeuta, triantafilloufany@gmail.com
(**) Psicologa, terapeuta familiare, kalliopi_pat@yahoo.com
Trad. Enrico Valtellina
Questo “dialogo-costruzione” è riprodotto dal vecchio numero stampato di Metalogos, n. 17, pp. 48-56 (2010). Si basa sul discorso di apertura di Gianfranco Cecchin: The Irreverent Therapist as a Social Constructionist, (1° Congresso Internazionale EFTA, Sorrento, Italia, 1992).
Voce A: Sai come va, vero, quando iniziamo a rovistare nei cassetti e ci imbattiamo in esperienze ed eventi passati? Ebbene, è così che ho scoperto quella vecchia fotocopia del Congresso di Sorrento [1] – e mi sono soffermata…
Voce B: Come mai? Non c’era un Congresso più recente su cui soffermarsi?!
Voce A: Hmmm… Questa è una bella domanda! Congressi, in particolare quelli sistemici! Per non parlare del fatto che ci sono stati uno o due Congressi, o Simposi recenti, o eventi scientifici o come si potrebbe volerli chiamare… che mi hanno fatto iniziare ad avere dei ripensamenti sui congressi…
Voce Β: Cosa intendi dire?
Voce A: Che ho iniziato a mettere in discussione la loro forma, stile e contenuto – la loro “utilità” o la loro aura di creatività… Principalmente, però, sono rimasta sorpresa dal discorso, dal linguaggio che producono e riproducono, sempre di nuovo…
Voce B: C’è per caso una sorta di combattività e uno spirito critico arrogante?
Voce A: Posso ricordarti che le distinzioni “appartengono” all’osservatore che le fa?! Veramente quello che ho provato maggiormente nei nostri Congressi mi sembra sia più delusione, a volte anche noia, e una sorta di disillusione! La sconfitta delle mie aspettative? In quel senso, questa vecchia fotocopia del discorso di Cecchin è emersa inaspettata come un’oasi!
Voce B: Mmm. Sembra la nostalgia di un veterano!…
Voce A: Potrebbe essere… Come un vecchio viandante sulla stessa strada, provo decisamente nostalgia per l’inizio, mentre “l’ancora una volta” delle cose, i passi progressivi… Ma d’altra parte, la parola “veterani” si riferisce alla guerra!!! Non ho mai visto questo percorso come una guerra, nonostante le numerose battaglie a seconda del contesto! Per non parlare del fatto che non sono ancora andata in pensione! O credi che sia come Mamma Dalton che rifiuta di lasciare la vedetta? Forse dovrei vedere il mio percorso come una discussione che si sviluppa?
Voce B: Mamma Dalton teneva in mano un fucile carico e stava sulla sua sedia a rotelle! Una metafora particolare!
Voce A: Le metafore riguardano un’altra discussione! O centrano adesso?! Comunque, mi sento molto fortunata per quei vecchi tempi! Come se tante coincidenze tramassero per darmi l’ispirazione per farmi ripercorrere i nostri itinerari [2]… Lo so, si! Quel Congresso di Sorrento è stato uno dei primi, rari e lontani tra loro, che ha dato vita a temi nuovi e diversi – idee, intendo!!!
Voce B: Allora, cosa ricordi più vividamente di Sorrento?
Voce A: La bellezza! L’estetica e… la passione nell’aria! Le nostre teste e le nostre interrelazioni, dentro e fuori gli auditorium! Con tutti quei grandi pensatori del tempo, nel fiore degli anni! Che gioia poterli ascoltare, partecipare e riflettere su molti temi! Questa fotocopia mi ha ricordato un discorso che rimanda a quanto ho detto, un discorso su cui nutrivo pregiudizi favorevoli già prima di ascoltarlo!
Voce B: Non credi che sarebbe ora di decostruire il Cecchin idealizzato che c’è in te?!
Voce A: Come se fosse tutto così facile (o addirittura necessario, dopotutto) decostruire costantemente le nostre teorie, i nostri con-versatori (dia-loganti), le nostre co-costruzioni, le sfaccettature dei nostri sé multi-variabili e multi-labirintici! Inoltre, mi chiedo se la “decostruzione” si componga solo della demolizione completa di una qualsiasi “costruzione” per procedere poi alla costruzione di un’altra, nuova struttura. Potrebbe essere che il rispetto della struttura venga prima, e poi segua la destabilizzazione, la decostruzione, la ricostruzione e infine co-costruzione?
Voce B: Beh, non tutti i “postmodernisti” sono dei demolitori radicali! Ma se abbiamo a che fare con una sindrome insegnante-studente (con la sua eterna passione e lealtà!) a questo punto non dovresti farti esaminare la testa?
Voce A: Credi? Anche tu ricorri alla terminologia diagnostica! Proprio come tendono a fare i nostri congressi moderni! Ma in quale epoca pensi che siamo?
Voce B: Che domanda! Pensi che il Congresso di Sorrento si sia svolto in un’altra epoca?
Voce A: Certamente! Lo si poteva sentire dal linguaggio che si usava! Vedi, ai tempi di Sorrento era come se parlassero in un’altra lingua! Anche quando litigavano, difendendo le loro idee, il loro discorso era a più livelli – proprio come piace a me! Oserei dire che allora sembrava essere stato più denso, molto più… relazionale e ancora… fuori dal mondo!
Voce B: Ok! Ok! Comunque era un momento in cui, per certi versi, molti terapeuti familiari iniziavano a mettere da parte le loro “tecniche meccaniche”, i loro cacciaviti, per riparare i meccanismi difettosi. È stato un periodo di messa in naftalina dei canoni utilizzati per lo sterminio dei demoni della felicità familiare (!) Anche le “costruzioni” di interesse avevano a che fare di più con gli spartiti musicali e la poesia!
Voce A: Sì, stavano cercando di lasciarsi trasportare dalle onde della conversazione… Il tempo delle farfalle era arrivato – insieme ai vortici della complessità, dell’incertezza e del caos…
Voce B: Da cui stava emergendo il con-versante, il co-discussant terapeuta!…
Voce A: Sì! considera che Anderson e Goolishian (1988) avevano già detto che la discussione terapeutica era un modo per connettersi con la famiglia.
Voce B: Ma la loro idea era pionieristica all’epoca? Perché a mio avviso, sembra compatibile con le idee psicoterapeutiche più datate e tradizionali!
Voce A: Beh, il periodo era “pionieristico”, se vuoi, per quanto riguarda le applicazioni – perché, come ho già detto, i cacciaviti, gli strumenti e le armi erano stati messi fuori servizio.
Voce B: E il tuo Cecchin che hai messo su un trono, cosa stava dicendo? Era diventato un terapeuta co-discussant? Dopotutto, aveva anche i suoi “strumenti” – di portata diversa, comunque!
Voce A: Ah! Come al solito, ha presentato un’altra proposta! Secondo me, suonava molto più “dialogico”, “costruttivista” e “profetico” per i giorni a venire. Lo sto canonizzando di nuovo?
Voce B: Vedremo a riguardo! Qual era comunque la sua proposta?
Cecchin: Penso che come terapeuti, diventiamo “attori-partecipi” di una storia terapeutica [3]…
Voce B: Mmm. Penso che mi piaccia! Dimmi di più!
Voce A: Lascia che ti ricordi che all’epoca, Sluzki (1992), suggeriva che il terapeuta dialogante cerca di “districare” le limitazioni logiche che conservano ogni “blocco” del sistema. Vedi come la terminologia, tra le altre, può essere un “marcatore” dell’epoca e della “posizione” del terapeuta?
Voce B: Vero! Un po’ prima, Palazzoli (1980) (l’altro mostro sacro della nostra ispirazione) ha proposto “le domande circolari” per affrontare il “disintreccio [disentanglement]”!
Voce A: Oh, sì! Ognuno con il proprio cacciavite! Ma non avevamo cominciato a non parlare di “grovigli”, “blocchi” e “disintrecciamenti”?!
Voce B: Beh, non tutti! Un bel po’ di terapeuti erano bloccati in questi concetti!
Ma torniamo alla proposta di Cecchin! Consideriamo il terapeuta come qualcuno che partecipa e, allo stesso tempo, agisce all’interno del processo terapeutico.
Ovvero, come passare dal “partecipante-osservatore” maturaniano al terapeuta “partecipante-agente” di Cecchin?
Voce A: Sì, in fondo, insieme ai cacciaviti stava passando l’epoca dei dipoli e dei disgiuntivi. Partecipazione vs Azione, per esempio.
Voce B: Ma davvero, si può mai essere solo un partecipante, un osservatore, un attore? Non esistono tutti simultaneamente in correlazione?
Voce A: Beh, sì! Questi sono i miei pensieri, per il momento, comunque. Vedremo domani!
Voce B: Quindi, se consideriamo il terapeuta come “attore partecipante”…
Cecchin: Allora, naturalmente questo terapeuta sfrutterà il suo ruolo speciale, così come emerge e si forma costantemente nel contesto interattivo, dove lui/lei coesiste come terapeuta con i clienti.
Voce B: Certo. Eppure, d’altra parte, se il terapeuta crede troppo nella “recitazione”, potrebbe intraprendere azioni forzate! – I cacciaviti, di cui abbiamo parlato! Potrebbe, per esempio, non solo iniziare a porre domande circolari con passione, ma anche dare ordini, “ricette” e istruzioni, col rischio di finire per essere un controllore sociale o addirittura un giudice moralista! Non sarebbe un passo indietro?
Voce A: Forse! Eppure, ogni percorso non va avanti e indietro?
Continui a dimenticare, però, la parte “partecipante”! Se il tuo terapeuta, come dici tu, finisce per essere un controllore sociale o un giudice moralista o qualsiasi altra cosa, questo sarà dovuto al particolare contesto interattivo, che invita l’emergere di un tale ruolo, e lo “mette” in una tale posizione…
Voce B: Mmm… Ci risiamo! Sulla responsabilità dei terapeuti, il testo sacro!!!
Cecchin: Anche all’interno dell’interazione, le persone hanno sempre delle scelte e delle responsabilità. Naturalmente, in una situazione del genere, perché il terapeuta riesca ad agire come controllore sociale e allo stesso tempo a rimanere fedele all’epistemologia sistemica, deve tenere a mente due principi controversi.
Voce B: Quali sono?
Cecchin: In primo luogo, poche relazioni differenti contribuiscono alla costruzione del terapeuta come un moralista o un controllore sociale…
Voce B: Un momento! Vuoi dire che se hai una famiglia con il problema, diciamo, di incesto, e il tuo terapeuta partecipante-agente adotta una posizione moralistica nei confronti della famiglia, cosa pensi che stia succedendo?
Cecchin: Questo terapeuta agirà in modo moralistico solo nella misura in cui vari altri contesti e relazioni gli daranno la possibilità di assumere una tale posizione; permettono di creare una tale costruzione.
Voce A: Sì! Ecco! Costruzione e possibilità! Ma la discussione terapeutica non è forse una situazione del genere, anzi una situazione “centrale”?
Cecchin: Certamente. Allo stesso tempo, partecipano anche le circostanze e le condizioni – istituzionali, culturali, storiche – che esistono in quel particolare momento terapeutico.
Voce B: Non vorrai dire, suppongo, che questi contesti vengono solo dalla parte dei clienti!
Voce A: Certo che no! Ascolta quello che dice! (E quando lo dice, per favore!)
Cecchin: Tutto si crea ed emerge all’interno di circoli di partecipazione e di interazione. Naturalmente, quindi, anche l’orientamento del terapeuta partecipa. Lo sguardo del terapeuta, la posizione che scaturisce dalla sua storia personale, le teorie, i modelli di pensiero/azione, tutti contribuiscono…
Gli “interessi” dei terapeuti, quindi, le loro proprie punteggiature sulle relazioni si combinano e si correlano con le storie personali e le punteggiature dei loro clienti…
Voce A: In un momento molto più tardo, altre persone note del campo si concentreranno sulle “risonanze” (co-sounding). Inoltre, parleranno dell’apposizione/“posizionamento” del terapeuta – appoggiandosi un po’ a spiegazioni psicoanalitiche…
Voce B: Allora, questo terapeuta deve ricordare che il suo posizionamento, così come si forma in ogni momento complesso e interattivo, è una co-costruzione!
Cecchin: Sì. Ecco il secondo dei due principi controversi.
Voce A: Di conseguenza, il terapeuta partecipante-agente è il principale responsabile del contesto che emerge all’interno del processo terapeutico.
Voce B: Questo vale anche per chi lavora con i gruppi terapeutici?
Voce A: Ah, i sistemi umani e le loro co-costruzioni! Che campo!
Cecchin: I gruppi sono molto interessanti! Nei gruppi terapeutici, tutti i partecipanti sono membri attivi (partecipanti-attori) nella discussione. Anche se non parlano, anche se sembrano passivi.
Tutti i partecipanti dovrebbero essere considerati per scegliere continuamente le loro specifiche azioni e interpretazioni della situazione a cui partecipano. Tuttavia, dovremmo tenere a mente che fare una scelta non garantisce necessariamente la fattibilità di qualsiasi costruzione.
Voce B: Poiché la fattibilità della costruzione dipende da tanti fattori!
Voce A: Parliamo allora della fattibilità della costruzione sistemica, dei fattori che vi partecipano e dei suoi aggiustamenti!
Voce B: Cosa?! No! Siamo a Sorrento adesso!!!
Cecchin: Affinché un’interpretazione o un’azione diventi praticabile, una posizione deve essere attribuita dal e nel contesto interattivo significativo. Questo richiede una forma di coreografia sociale.
Voce A: E naturalmente, ci sono dei limiti!
Cecchin: La scelta di qualsiasi interpretazione o comportamento da parte di un terapeuta –o di un cliente– è sempre limitata dalle possibilità che emergono nella situazione terapeutica stessa. Allo stesso modo, fare una scelta d’azione non assicura alcun risultato previsto, poiché le nostre attività si combinano continuamente con quelle degli altri e si modellano a vicenda.
Voce A: … ed è per questo che otteniamo conseguenze, che non erano nella nostra intenzione, ci ricorda Shotter[4] (1987)…
Voce B: Che colpo all’illusione del nostro controllo!
Cecchin: Supponiamo che un terapeuta finisca una seduta con il seguente commento: “Non posso smettere di pensare che molti dei problemi nella tua famiglia partono dal fatto che il tuo comportamento sembra essere governato da un modello patriarcale che tende ad opprimere le donne della famiglia. Alcune delle storie che mi hai raccontato sono riuscite a convincermi che questa è l’interpretazione corretta. Quindi, vi darò alcune istruzioni sperando che questo schema oppressivo venga interrotto. Eppure, alcuni dei miei colleghi dietro lo specchio, mi hanno avvertito che non è giusto intervenire nei modi in cui sono organizzate le famiglie. Non importa quanto inappropriata, secondo noi, sia la loro organizzazione.
Ho avuto una dura disputa con loro, e alla fine, abbiamo raggiunto la conclusione che seguirò le mie convinzioni, ma solo per cinque sedute. Come terapeuta, non posso astenermi dal fare ciò che considero la cosa giusta da fare, anche se i miei colleghi non sono d’accordo.
Voce B: Molto bene! Vedo che questo terapeuta si assume la responsabilità – prima di tutto, per le sue convinzioni…
Voce A: …e delle sue illusioni!
Voce B: …che colloca in un contesto culturale…
Cecchin: … e offre un’interpretazione alternativa (la fedeltà ai modelli patriarcali), assicurandosi di collocare le sue convinzioni in contesti temporali – cinque sessioni. Chiarisce anche che queste credenze non sono realmente indipendenti dall’osservatore e dal contesto; sono il risultato delle norme morali che scaturiscono dalla storia personale del terapeuta, dal suo orientamento culturale e teorico.
Voce A: Credenze, valori, pregiudizi, idee! Cose del tipo “la tua fede ti ha salvato”?!
Cecchin: Certo! Diciamo che se credi fortemente nell’azione, potresti finire per essere un manipolatore. Se credi intensamente che dovresti solo “lasciare” che i sistemi “siano” potresti diventare completamente irresponsabile. Se credete fortemente nei lati oppressivi dei sistemi, potreste diventare un rivoluzionario. Se credi appassionatamente negli aspetti di controllo della terapia, potresti diventare un ingegnere sociale!
Voce B: Alla fine, è impossibile non prendere una posizione, un atteggiamento…
Cecchin: Vero! Tuttavia, poiché è impossibile non prendere posizione, è proprio questo circolo riflessivo di prendere posizione in un contesto più ampio che crea il “divenire” e non l’“essere” di un terapeuta.
Voce B: Il circolo riflessivo del prendere posizione?! Mi chiedo. Intende dire che “prendo una posizione” e ogni volta rifletto sulle sue conseguenze sul mio rapporto con il sistema?
Voce A: Forse. Mi sembra che cerchi di descrivere come il ruolo, la posizione, persino gli stessi “membri” di un sistema che conversa (il terapeuta ugualmente incluso), siano costruiti all’interno di un processo di conversazione.
Non è una descrizione costruttivista, “maturaniana”?
Voce B: Sì! Sottolineando anche il potere della descrizione e ciò che costruisce! Ah, il potere del “linguaggio”! Eppure, se uno crede appassionatamente nell’onnipotenza del linguaggio e che il linguaggio è/forma tutto, allora cosa?
Voce A: Diventerebbe un retore o un istruttore guida!
Cecchin: Mmm… Penso che la posizione che descrivo aiuti molto il terapeuta a raggiungere quella situazione “sana” di un certo distacco benigno – in primo luogo dalle proprie “verità”.
Voce A: Questa è una proposta di “irriverenza”! In primo luogo, verso le “verità” del terapeuta! Sta per concentrarsi sui pregiudizi del terapeuta!
Voce B: Irriverenza verso le nostre verità?! Indipendentemente da quanto piacevolmente e appassionatamente possano essere formattate?!
Voce A: Sì. Anche se è difficile per noi superarle (specialmente se ci crediamo appassionatamente) e poterle “usare”. (Come ha suggerito di fare più avanti).
Eppure, a questo punto, che ne dite di provare a riflettere sulle nostre “verità” e sulle posizioni che ci obbligano a prendere, dentro e fuori la discussione terapeutica?
Voce B: Questa sarebbe un’altra discussione, come direbbe Cecchin!
Bibliografia
Cecchin, G. (1992), The Irreverent Therapist as a Social Constructionist, 1st International Congress of Family Therapy, EFTA, Sorrento, Italy.
Maturana, H. R. (1988), “The Search for Objectivity or the Quest for a Compelling Argument”, The Irish Journal of Psychology, 91, σ. 25-82.
Cecchin, G.; Lane, G.; Ray, W. A. (1993), Irreverence: A Strategy for Therapists’ Survival, London, Karnac Books.
Cecchin, G.; Ray, W.A.; Lane, G. (1994), Cybernetics of Prejudices in the Practice of Psychotherapy, London, Karnac Books.
Shotter, J. (1987), The social construction of an ‘us’: Problems of accountability and narratology, in Burnett, R.; McGhee, P.; Clarke D. (Eds.), Accounting for relationships: Explanation, representation and knowledge (pp. 225-247), New York, NY, Methuen.
Von Foerster, H. (2003), Ethics and Second-Order Cybernetics, in Heinz von Foerster, Understanding Understanding, New York, Springer-Verlag.
Note
[1] Una fotocopia della presentazione venne consegnata ai partecipanti.
[2] Commento editoriale (2020): Il riferimento è alla creazione, fondazione ed evoluzione del “primo” Centro di Salute Mentale “sistemico”, NHS (di Salonicco occidentale) in Grecia, rispetto al cui sviluppo Gianfranco Cecchin ha avuto un ruolo centrale (insieme ad altri grandi ispiratori, come Lynn Hoffman, Harlene Anderson, Jaakko Seikkula e altri).
Dopo aver completato la loro formazione a Londra, tornati in Grecia, nel 1985, Fany Triantafillou (psichiatra, psicoterapeuta psicoanalitico) e Efrossini Moureli (psichiatra, analista di gruppo) intrapresero l’organizzazione del nuovo MHC, la selezione e la formazione specifica del suo staff iniziale, di base. Così, l’Equipe terapeutica iniziale, auto-formata in Sistemica, era: Fany Triantafillou (primo direttore del MHC), Efrossini Moureli, Ingeborg Schlaucher-Nikolaidou (psicologa clinica infantile, psicoterapeuta) Violeta Kaftantzi (secondo direttore del MHC, psichiatra, psicoterapeuta), Theodoros Sfikas (psichiatra), Andreas Tsafos (attuale direttore del MHC, psichiatra), Maria Pantelaki (infermiera psichiatrica), Elizabet Piperidou (infermiera psichiatrica), Katerina Papaminou (assistente sociale).
Poco dopo il suo inizio, questo MHC pioniere ha iniziato a fornire servizi psicoterapeutici sistemici a una vasta comunità multiproblematica, e vari programmi di formazione e supervisione a professionisti e tirocinanti della salute mentale, del benessere sociale e dell’istruzione del settore pubblico e privato.
[3] Commento editoriale (2020): Heinz von Foerster intorno al 1990 (Etica e cibernetica di secondo ordine) ha posto le seguenti due domande:
“Sono separato (apart) dall’universo?”. Nel senso che ogni volta che guardo, sto guardando come attraverso uno spioncino su un universo che si dispiega o “Sono parte (a part) dell’universo? Nel senso che ogni volta che agisco, sto cambiando me stesso e anche l’universo” (von Foerster 2003, 293).
Inoltre, Heinz von Foerster caratterizza queste due alternative come più profonde e come
“Un cambiamento fondamentale, non solo nel modo in cui facciamo scienza, ma anche come percepiamo l’insegnamento, l’apprendimento, il processo terapeutico, la gestione organizzativa e così via, e direi, di come percepiamo le relazioni nella nostra vita quotidiana. Si può vedere questo fondamentale cambiamento epistemologico se ci si considera innanzitutto un osservatore indipendente che guarda il mondo passare, oppure una persona che si considera un attore partecipante nel dramma dell’interazione reciproca del dare e avere nella circolarità delle relazioni umane” (von Foerster 2003, 289).
[4] Commento editoriale (2020): L’azione congiunta è un’attività tra persone, in cui non solo si producono risultati congiunti non voluti (piuttosto che risultati voluti dagli individui coinvolti), ma come parte di quel risultato, si crea una “situazione” in cui i partecipanti sperimentano di essere “al suo interno” (Shotter, 1984). Il regno dell’azione congiunta è, infatti, abbastanza comune, quasi la regola piuttosto che l’eccezione, perché in quasi tutte le attività faccia a faccia che coinvolgono l’azione sociale concertata, gli individui non possono produrre un risultato secondo un loro piano prestabilito. Non avrebbero senso le conversazioni, le negoziazioni, le madri che giocano con i loro figli, i giochi, la scrittura e la lettura di documenti accademici, ecc. se non ci fosse la possibilità di un risultato imprevisto, creativo ma contingente. Si richiede un risultato appropriato ad una “situazione” comune – una risposta intelligente ad essa mentre cambia momento per momento. E spesso, è chiaro che possiamo rispondere come richiesto. Eppure un tale processo è difficile da spiegare. Perché? L’azione congiunta ha due caratteristiche principali:
1. Poiché tutte le azioni umane, autonome o congiunte, hanno una qualità intenzionale, sembrano sempre “puntare a”, o “indicare”, o “essere in relazione con qualcosa di diverso o al di là di se stesse”; nell’azione congiunta, tuttavia, si crea qualcosa che non è “in” nessuna delle persone coinvolte, ma è apparentemente “nella” (o “della”) situazione costituita tra di loro [fine 227].
2. Poiché le persone devono coordinare la loro attività con quella degli altri, e sono costrette a ‘rispondere’ anche alle loro azioni, ciò che essi come individui potrebbero desiderare e ciò che effettivamente risulta nel loro scambio sono spesso due cose diverse; in breve, l’azione congiunta produce conseguenze imprevedibili e non volute. Così, i suoi risultati, sembrano essere indipendenti da ogni particolare individuo.