di Pietro Barbetta
Antropocene, quando la conoscenza prende il posto della vita. Prima forma auto-ricorsiva.
Antopocene è un termine coniato probabilmente dagli scienziati naturali Crutzen e Stoemer (2000), significa che noi, che abitiamo la terra, siamo in un’era geologica in cui le attività umane (antropo) hanno un impatto sul pianeta. Penso sia chiaro ciò che significa: il riscaldamento globale non è solo “cambiamento climatico” perché è causato dall’attività umana; la decrescita della natalità nelle società “performative” capitaliste e post-comuniste è connessa al cambiamento fisiologico e della mentalità in questi paesi, ha a che fare con le relazioni di coppia e con le relazioni tra le persone; il ritorno dell’autoritarismo e del nazionalismo in politica non è una semplice ripetizione di quanto accaduto nel passato – tutto ciò ha a che fare con un cambiamento antropologico.
L’ipotesi che sto proponendo, della quale non vorrei innamorami troppo, altrimenti sono guai, è che Antopocene potrebbe segnare la fine del Sistema Antropogenico, la condizione che ha permesso a homo sapiens sapiens di essere ospite della Terra. Shanster (1973) aveva usato il lemma “Periodo del Sistema Antropogenico” per descrivere l’ipotesi di quando, intorno all’era post-glaciale si rese possibile la vita dei grandi mammiferi.
Quindi l’Era Antropogenica – descritta da Edgar Morin nel Paradigma perduto, scritto nel 1973 – e l’era Antropocenica, non sono la stessa cosa. La prima segna l’ontologia umana: la condizione che rende possibile la sua esistenza sulla terra; la seconda segna la fine dell’ontologia umana: la condizione dell’impossibilità del proseguimento della sua esistenza. I due suffissi son diversi: gene (da generare), cene (da kainos, ovvero “nuovo”). Antropocene è dunque una nuova era, l’era epistemica: quando la conoscenza si impossessa della vita.
Se si considera Antropocene dal punto di vista dell’inconscio, Antropocene non è solo la conseguenza del bisogno “maschile” di dominio sul mondo, se fosse così basterebbe un po’ di razionalità in più per ridurre questo impatto devastante dell’uomo sull’ambiente. No, Antropocene ha una seconda connessione che corrisponde al desiderio di morte, qualcosa che la ragione umana non può cogliere. Freud (1920) se ne accorse tardi, quando introdusse la pulsione di morte nel suo modello esplicativo, fu in quel momento che Freud (1921) pensò al soggetto collettivo, quando l’Europa aveva visto la guerra.
Tra il bisogno di sfruttamento della terra e il desiderio di morte c’è un circuito bizzarro. È dentro questo circuito che si inserisce il virus: sostanza non vivente – porzione di RNA o DNA – che entra in una sostanza vivente – la cellula – per portare la morte. Per capire la questione farò un esempio assai semplice: mettiamo che io entri in un supermercato e riempia il carrello di una quantità esagerata di cose, poi però mi accorga di non poter pagare tutti gli approvvigionamenti, peraltro esagerati, che ho infilato nel carrello. A questo punto, cerco di farla franca, provo a fuggire dal supermercato senza pagare, ma il peso degli approvvigionamenti non mi permette di fuggire, così vengo fermato e incarcerato. Se ciò accade quotidianamente, vengo patologizzato.
Ebbene, il comportamento umano di fronte alla Terra è una patologia dell’epistemologia. Quale prezzo stiamo pagando per avere rapinato il pianeta? In termini sistemici, Antropocene sembra essere quella età in cui l’essere umano retroagisce sul sistema terrestre e crea le condizioni di un cambiamento catastrofico. La teoria degli equilibri punteggiati ci insegna che dopo lunghi periodi di relativa stabilità, dove i cambiamenti sono continui, si possono avere improvvisi mutamenti. Sul piano della paleontologia questa teoria sembra ormai accreditata da una enorme quantità di osservazioni empiriche (Eldredge,1999, Gould, 2008).
La domanda che, come psicoterapeuti, ci dobbiamo porre – il nostro contributo specifico a questa teoria – è se il desiderio di distruttività umana, individuato da Freud durante la Prima Guerra Mondiale, sia rilevante nell’accelerare questo processo. Gregory Bateson (1968), nel 1967, aveva messo in guardia l’umanità in un intervento, tenuto a Londra, dal titolo Finalità cosciente versus Natura. In questo intervento Bateson sostiene che la finalità cosciente è anti-ecologica. Insomma, l’invito di Bateson è quello di sondare la natura, di mettersi in relazione a essa, prima che sia troppo tardi. Cinquant’anni dopo rileviamo questo ritardo: un pezzo della natura, i virus – non mi riferisco solo al covid-19, ma anche al sempre più frequente avvento di nuovi virus – ci segnalano questo grave ritardo.
Gli esseri umani sono ancora bloccati nella ricerca di nuove competenze tecniche per manipolare il mondo: homo faber, l’animale che crea utensili, per creare utensili in una reiterazione indefinita domina l’umanità. Si tratta di dominare il tempo, di renderlo sfruttabile, utilizzabile. Lo si frammenta in parti, lo si rende performabile: lavoro, politica, mutui, ammortamenti ecc., come momenti di flusso di denaro continui; poi guerre, dittature, e, oggi, virus come cambiamenti catastrofici, vere e proprie mutazioni: alla pulsione cieca a dominare la terra, si aggiunge la pulsione a distruggere la specie.
La sfida sistemica che ci troviamo ora a gestire è riuscire a raddoppiare questa prima riflessività: se homo faber costruisce utensili per costruire utensili, in maniera riflessiva, per dominare la terra, sarà capace, homo socius di fermare questo processo retroagendo a sua volta sulle macchine per piegarle e contenerle nella piega generativa? A non fare esplodere il mondo?
Qualcuno sostiene che qualcosa ci sia sfuggito di mano, che il soggetto oggi non è più l’individuo che sceglie liberamente, ma una rete della quale l’individuo è solo una componente, neppure la più importante. La prima forma di auto-ricorsività è data dunque dall’acquisizione di una tecnologia che cambia le connotazioni del soggetto. Il soggetto non è più agente morale di se stesso, ma è immerso in una rete che produce agenzia morale (decisioni) indipendentemente dal singolo individuo. Il soggetto è un collettivo, la disposizione della rete fa sì che il soggetto individuale non possa sottrarsi a eventi che vengono sempre decisi altrove (Latour, 2019).
L’esempio di Tebe e quello di Atene. Seconda forma auto-ricorsiva
Gli antichi lo sapevano bene e lo raccontavano con le loro storie, avevano i mezzi per fermare il codice storico inconscio degli umani, gli antichi conoscevano questo codice autodistruttivo molto meglio dei moderni e lo raccontano. Nella Genesi, il Signore raccomanda di non mangiare dall’albero della conoscenza, ma solo dall’albero della vita; è il momento dell’uscita dall’Eden. Gli antichi, con la saggezza, erano in grado di rallentare Antropocene. Di onorare la loro sottomissione a una potenza maggiore, in qualsiasi modo venga questa concepita. Non possiamo dire che gli antichi non avessero temuto e previsto Antropocene: ecco due esempi, quello raccontato e quello di dove viene raccontato. Gli studiosi di letteratura distinguono il soggetto dell’enunciato, ciò di cui si parla, dal soggetto dell’enunciazione, chi ne parla. Ebbene, se Tebe è il soggetto dell’enunciato, Atene è il soggetto dell’enunciazione, Tebe è il luogo di Antropocene, Atene quello dell’autoriflessione.
Tutta la mia storia comincia molto prima del covid, quando il suo avvento era ancora non immaginabile, una specie di telestesia. Prima della tragedia del virus, avevo prenotato un posto al teatro di Siracusa per andare a vedere Le Baccanti di Euripide. Vale la pena di fare un breve racconto della tragedia: il dio Dioniso si reca a Tebe, si presenta come dio, ma nessuno gli crede, anzi Penteo, che è suo figlio, anche se non lo sa, lo vuole incarcerare, infine Dioniso lo invita a vedere le Baccanti, donne fuori di sé che, sulla montagna sono in preda a riti orgiastici terribili, avendo perso la loro identità, commettono atti cannibalici e infanticidi, proprio come se fossero in preda a un virus.
Quando mi trovai al pronto soccorso ebbi la stessa sensazione, il dio mi aveva preso e tolto la possibilità di controllo, per esempio, del mio respiro e, di conseguenza, della mia propriocezione, come per esempio la possibilità di stare in equilibrio sulle mie gambe, oppure di parlare con la mia voce. La mia voce baritonale si era trasformata in un falsetto. Ero solo, nessuno dei miei conoscenti mi poteva venire a trovare, ma in mezzo a una folla. La comunità del pronto soccorso era diventata come Tebe, un luogo di peste.
Come una baccante anch’io subivo l’incanto di essere dentro a un rituale orgiastico, anch’io perdevo la mia identità, diventavo parte di una moltitudine coinvolta in un rituale mortale. Qui, come là, nessuna clemenza, nessuna redenzione possibile, a Tebe come a Bergamo.
Ma vediamo se il confronto regge fino in fondo: fondata da Cadmo, Tebe fu governata da Labdaco e da Laio, prima dell’avvento di Edipo, il posto dove Antigone, figlia e sorella di Edipo, fu sepolta viva, dove due fratelli Eteocle e Polinice si sono reciprocamente uccisi; Tebe è il luogo dell’inganno dove i patti non vengono rispettati.
In questo senso Tebe somiglia al virus, o meglio, alla condotta che ci ha portato al virus, il paradigma della stupidità umana, il luogo dove gli dei non sono onorati, gli uomini non si rispettano, dove comandano i boss – non solo i mafiosi, anche i grandi industriali che controllano le fabbriche e gli ospedali, che intimidiscono i politici – che, per queste ragioni porta catastrofiche conseguenze alla comunità. Tebe è Bergamo, Madrid, Londra: il posto dove i potenti sono consapevoli e si presentano come portatori di progresso, gli antichi avevano un nome per questa gente: spudaioi, coloro che avevano una mente illuminata.
Prediamo la figura di Edipo, non per proporre il triangolino psicoanalitico e familistico mamma-papà-figlio, ma per capire che cos’è la necessità, il destino. Come comincia la tragedia di Sofocle? I sacerdoti bendati vanno dal Re, un Re giusto e onesto, illuminato, ma la peste che incombe su Tebe non si arresta e i sacerdoti chiedono al Re: che fare? Edipo risponde loro che ha inviato Creonte, con il veggente Tiresia, a Delfi, dall’oracolo e che sta aspettando il suo rientro. Chi è Creonte per il Re? Nella consapevolezza di ognuno Creonte è suo cognato, il fratello di sua moglie, Giocasta. Nell’inconscio però Creonte è lo zio materno, il fratello di sua madre, Giocasta. C’è qualcosa che non torna, ma è solo un elemento di una catena, che nasce da una maledizione ricevuta tempo prima da Laio, poi accade che Edipo uccida Laio, sposi Giocasta e abbia da lei quattro figli. Quando scopre l’imbroglio si strappa gli occhi e si ostracizza dalla città, ma ormai è tardi. In quel momento una grande macchia copre la città governata così saggiamente dal suo Re.
Il virus rivela che il peso di azioni passate grava sul presente, le cose che noi abbiamo fatto con le nostre finalità coscienti. La macchia, quando si disvela, mostra che le cose che abbiamo fatto con finalità cosciente rivelano le ragioni della peste: dall’allevamento intensivo degli animali (di cui parla il Guardian), fino alla sottovalutazione della portata dell’epidemia, per arrivare ai discorsi sui sacrifici umani di certi economisti neoliberisti, gli stessi discorsi che hanno permesso a politici compiacenti di smantellare la sanità pubblica di base per produrre le cattedrali nel deserto dell’eccellenza nella mia regione, la Lombardia.
Nondimeno, la tragedia mostra tutte le catastrofi di Tebe, e di Antropocene. Edipo è uno spoudaios, un eccellente, gli uomini sono deina, meravigliosi, ma, nel coro si un’altra tragedia tebana, l’Antigone, il termine deinon si traduce “meraviglioso” finché Antropo rispetta le leggi e si traduce “mostruoso” quando l’ingegno si trasforma in imbroglio.
A Tebe, la tracotanza dell’uomo che vuole dominare la natura e il desiderio di distruttività si accompagnano segretamente e nascondono uno scarto, che emerge in forma di peste.
Ciò che accade ad Atene è l’opposto, ad Atene la tragedia è oggetto di riflessione, di autoriflessione, una seconda forma di auto-ricorsività, un’auto-ricorsività materna, accogliente. Ce lo racconta Sofocle quando presenta al pubblico dei suoi concittadini l’opera Edipo a Colono: a Colono (che è una zona di Atene) il vecchio Edipo, accompagnato dalla sorella/figlia Antigone, trova accoglienza e un luogo consacrato dove essere sepolto.
Atene racconta Tebe e insegna, inventando la tragedia, cosa non si deve fare. Non sottovalutare l’inconscio significa non essere spietati. Se Tebe è il luogo dove accadono le disgrazie – come abbiamo scritto sopra, il soggetto dell’enunciato – Atene è il luogo dove la tragedia diventa opera d’arte: terapia. Atene marca la differenza tra Edipo e Sofocle, quella tra Dioniso ed Euripide.
Atene ha un eponimo, prende il nome da una dea, Atena: la dea femminina che aiuta Ulisse a proteggersi dalle devastazioni, a ripararsi dalla distruttività delle potenze sovrumane. Finché l’uomo è fedele alla dea, l’uomo è politropo, colui che molto viaggia, nomade, capace di molteplici ripiegamenti. Grazie a Sofocle sappiamo cosa è accaduto ad Aiace, un guerriero che ha sempre rifiutato l’aiuto di Atena durante le battaglie per l’assedio di Troia. Aiace ha cercato di fare strage degli altri capi Atridi che gli avevano preferito Ulisse (Starobinski, 2019). Atena è figlia di Metis, e metis in greco antico, oltre a essere la madre di Atena, assume anche il significato di intelligenza pratica, ambivalenza, la virtù di sapere aspettare il momento giusto per agire di fronte ai pericoli.
Ulisse è in grado di salvare la propria integrità e la propria vita di fronte a innumerevoli pericoli grazie alla devozione ad Atena e al suo aiuto: dice a Polifemo di chiamarsi Oudeis, Nessuno, usando l’assonanza tra questa parola e Odisseus, evitando la vendetta dei ciclopi, si lega all’albero della nave per poter sentire il canto delle sirene senza perdersi. Inoltre, Atena aiuta Ulisse a travestirsi quando rientra a Itaca, a prendere le sembianze di un mendicante.
Atena protegge Ulisse perché Ulisse è sempre stato fedele e leale con lei. Allo stesso modo la tragedia messa in scena ad Atene protegge gli ateniesi dalle catastrofi accadute a Tebe, li ammonisce a essere rispettosi delle leggi. Quali leggi? Non quelle stabilite dagli uomini a loro vantaggio o per stupidità, Sofocle racconta la stupidità di Creonte, che vieta di seppellire il nemico in territorio consacrato, racconta del coraggio di Antigone, che distingue la legge stupida del tiranno dalla legge divina, la legge della Terra, la legge di Gaia. La tragedia ad Atene è terapia di comunità, Aristotele sostiene che crea catarsi: lo spettatore che assiste alla tragedia attraversa una purificazione degli affetti, la trasmissione culturale ad Atene passa attraverso gli affetti.
Divenire donna. Terza forma auto-ricorsiva
Interessante è che la parola catarsi, usata da Aristotele nella Poetica, sia usata dall’autore nelle opere di medicina, in particolare in relazione al ciclo mestruale femminile. In Aristotele assistiamo alla trasposizione della nozione di “catarsi” da qualcosa che accade al corpo femminile in qualcosa che affeziona la mente umana. Nella catarsi della poetica, “catarsi” è qualcosa che porta timore e compassione.
Ciclo mestruale, timore, compassione. Durante l’evoluzione della specie le donne sono inevitabilmente state costrette a essere quella parte di umanità che si prende cura di un’altra dimensione della vita, qualcosa che sta al di là del tempo: lo spazio. Ma un particolare aspetto dello spazio (Cazzaniga, 2019): il luogo della generazione, ciò che ha reso possibile la neotenia umana. Questo tipo di autoriflessività è ancora diverso, più sottile e articolato. Accanto al dominio mascolino, abbiamo un altro tipo di riflessività: l’etica della differenza sessuale (Irigaray, 1984). Gli esseri umani non sono solo distruttivi, possiedono anche un potere erotico e generativo: la parte femminina dell’umanità.
Homo faber e homo sapiens sono anche animali sociali e nomadici. Acquisiscono la possibilità di divenire nomadici quando le leggi dell’ospitalità prevalgono su quelle dell’ostilità, ciò che ha condannato Antigone a essere sepolta viva è stata l’ottusità di Creonte, sul versante opposto a Creonte, l’animale diventa sociale quando comprende la propria finitudine.
Dopo la capacità di usare il fuoco come utensile protettivo – il focolare domestico – e dopo tutti cambiamenti del corpo che si apprestano ad apparire, come per esempio la possibilità di cuocere il cibo per renderlo tenero, la conseguente riduzione del prognatismo, l’aumento dello spazio cranico e la possibilità della formazione di un’area corticale ampia, si crea il sentimento della tenerezza. Crudeltà e tenerezza, che derivano dal modo di nutrirsi – crudo e tenero – si trasformano in sentimenti contrastanti. Si creano così figure opposte: il cacciatore e il care-giver. Ma il cacciatore subisce una mutazione, la sua competenza a reiterare l’uso degli utensili si accompagna alla sua trasformazione da cacciatore in predatore (Burkert, 1983): homo necans. L’uomo è l’unica specie animale che dà la caccia a se stesso. La violenza intraspecie produce la distruttività umana.
Abbiamo un’altra possibilità per prolungare la sopravvivenza della specie sul pianeta. Il virus, in tutta la sua potenza naturale, ce la sta mostrando. Se il sistema Antropogenico consiste nel creare condizioni per l’esistenza umana, esso ha creato anche specie capaci di auto-riflessività psichica. Cerchiamo di decifrare, o meglio de-criptare, il messaggio del virus: è tempo di rivalutare la complessità del sistema inconscio, dobbiamo tornare a homo sapiens/demens, ad analizzare la nostra parte demens. Se antropo ha la capacità di superare se stesso, cosa intendeva Nietzsche quando scriveva “L’uomo è un cavo teso tra la bestia e l’oltre-uomo, e sotto di lui c’è un abisso?” Ebbene, oggi lo sappiamo, l’oltre-uomo è il divenire donna (Deleuze, Guattari, 2017). Le donne sono la parte dell’umanità che possiede un locus, il grembo, che dà ospitalità, che genera, che nutre. Io credo che il corpo femminile è costitutivamente abitato dal luogo dei luoghi, il locus, il vaso plastico che contiene e partorisce ogni altro corpo (Irigaray, 1984; Kristeva, 1987).
Ora, abbiamo un’urgenza, si tratta di considerare se la riflessività del femminino saprà temperare gli effetti collaterali della competenza maschile a creare utensili per creare utensili all’infinito, se femina nomas saprà sostituire homo necans. Gli dei, anche per chi, come me, non ci crede, ci hanno insegnato a non oltrepassare questo limite, il limite dello sfruttamento e della distruttività. Ora la natura ci sta scuotendo.
Conclusione
Questo saggio non è contro la scienza, è invece una preghiera perché si torni alla scienza. La scienza ha sempre proceduto per ipotesi, non ha mai dato sicurezze, la scienza è sempre stata un confronto tra paradigmi differenti, non ha mai avuto alcuna pretesa veritativa eterna.
Da pochi anni, la scienza è diventata una nuova religione e gli scienziati produttori di verità apodittiche. Perché? Perché è stata asservita ai poteri di chi la finanzia. Così la scienza psichiatrica si vende all’industria farmaceutica e quella psicologica all’industria dei test o delle piccole tecnologie diagnostiche per valutare l’ADHD, le Difficoltà di apprendimento, le diete per chi soffre di disturbi alimentari, i protocolli metacognitivi per togliere le fobie e le ossessioni. Tutte, famaci, test, interventi TCC, modelli infallibili per far “guarire” le persone.
Non sono contrario alla scienza, mi batto per una scienza che non sia al servizio della distruttività umana, al servizio di Big-Pharma, delle multinazionali, dell’allevamento intensivo degli animali nelle grandi compagnie agricole, dei fertilizzanti velenosi, dell’agricoltura estensiva, ecc.
Che cosa accade con il virus? Accade che le certezze sono scomparse, che la scienza sta tornando a essere una dotta ignoranza, si sono proposte una quantità di ipotesi e, al di là della certezza di che cosa sia un virus, ci vorrà tempo per capire come agisce questo virus. Molte ipotesi sono del tutto plausibili anche se ancora poco probabili. Per esempio c’è un’ipotesi cardiologica che sostiene come la reazione immunitaria al virus crei dei micro-trombi ai polmoni ed esiti in una malattia tutt’affatto diversa, la Coagulazione Intravascolare Disseminata. Le osservazioni empiriche sembrano rendere questa ipotesi meno probabile, ma è un’ipotesi sensata. Il New England Journal of Medicine ha pubblicato un saggio che sostiene che le persone asintomatiche sono il “tallone d’Achille” della diffusione del virus, lo ha fatto studiando i tassi di mortalità nelle residenze per anziani, ipotesi che, se fosse dimostrata, renderebbe ridicolo adottare ora provvedimenti di riapertura delle aziende, ecc. Insomma la ricerca scientifica sul virus mostra, attraverso ricerche e pratiche cliniche concerete, la nostra ignoranza. Ebbene, questo è il compito della scienza.
La scienza può lavorare anche al contrario, per fermare questo “progresso”. Se è ancora possibile una piega dissidente, allora è possibile creare un’estensione della vita umana sul pianeta, una vita rispettosa della natura. Il virus è la fine? Ne arriverà un altro dieci volte più devastante? Saremo capaci di contrastare la finalità cosciente che distrugge la natura (Bateson, 1968)?
È ancora vitale sostenere il principio di speranza (Bloch, 2019)?
Infine, quali sono gli effetti psicologici del virus? Ho ripreso da un paio di settimane, da quando ho iniziato a stare bene fisicamente, a fare incontri clinici online con alcune persone e proprio oggi ho incontrato una scrittrice che frequenta i nostri incontri terapeutici da una dozzina d’anni. Oggi ho imparato da lei che se il virus ha prodotto disagi psichici, ha anche prodotto condizioni di benessere. Mi parlava del suo cane, che non è mai stato così felice di avere la compagnia sua e del suo compagno tutto il giorno e immaginava la felicità dei figli, soprattutto dei bambini, a stare con i genitori per un tempo così lungo: “lavorare in remoto non è affatto male” diceva, e credo che, in molte circostanze, il lavoro in remoto renda addirittura meglio del doversi recare sul posto di lavoro.
Bibliografia
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Bloch, E. (2019), Il principio speranza, in 3 volumi, Milano, Mimesis.
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