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Walt Whitman Original public domain image from Smithsonian
di Wolfgang H.Ullrich
Lo sviluppo e l’emancipazione sono due concetti chiave che appartengono a una determinata visione antropologica dell’auto-comprensione degli esseri umani moderni. Alla domanda su che cosa significa essere umano risponde il poeta Walt Whitman con una bellissima poesia:
Io sono il poeta del Corpo, io sono il poeta dell’Anima,
I piaceri del cielo sono con me e le sofferenze dell’inferno sono con me,
I primi li innesto e li faccio crescere su me stesso, questi ultimi li traduco una nuova lingua…
Io canto la canzone dell’espansione e dell’orgoglio,
abbiamo avuto abbastanza inchini e deprecazioni,
io mostro che la grandezza è soltanto sviluppo.
Hai superato tutti gli altri? Sei il presidente?
È una sciocchezza, si arriverà anche più in là, si andrà oltre.
(Whitman, 2021)
Per l’Individuo sviluppo significa emancipazione da condizionamenti e da costrizioni, vuol dire poter scegliere chi si vuole essere e chi si vuole diventare. Lo stesso pensiero lo esprime Italo Calvino nelle sue Lezioni americane quando sottolinea l’opposizione fra la “levitazione desiderata”, la leggerezza, e la “privazione sofferta”, cioè il peso: due valori opposti ma complementari. La leggerezza non esiste senza la gravità, perché non sarebbe possibile saltare in alto, così come non esiste l’emancipazione senza che vi siano anche fattori limitanti e restrittivi nel mondo della vita delle persone. Dunque, da una parte l’uomo moderno è avviluppato nelle sue pratiche di vita, nel suo mondo di vita che condivide con gli altri e nell’orizzonte comune della propria lingua. Il mondo della vita delle persone è composto da tradizioni, istituzioni, pratiche di socializzazione, che hanno nel loro tessuto aspetti che favoriscono lo sviluppo dell’individuo e quelli che lo ostacolano. Dall’altra parte, la persona, nell’orizzonte della propria biografia, può scegliere quale di questi elementi vuole usare per proporre il proprio unico modello di buona vita. Queste scelte l’individuo le elabora in un faticoso dialogo con le persone significative che condividono la sua prassi di vita; tale dialogo io lo chiamo “una conversazione etica esistenziale”.
La psicoterapia si può tratteggiare come una conversazione etica esistenziale che possiede una sua forma specifica del dialogo. Anche il paziente, nel contesto di una psicoterapia, è alla ricerca del suo modello di buona vita.
Il compito della filosofia consiste, da una parte, nel chiarire i tratti generali di questo tipo di autoriflessione etica e, dall’altra parte, nel disegnare il profilo più adatto della comunicazione per realizzare un dialogo terapeutico. I tratti generali della autoriflessione etica li ho descritti in modo dettagliato in un altro luogo (Ullrich, 2023, p.65-91). Una forma efficace di comunicazione invece che si presta a essere applicata in un dialogo terapeutico la possiamo trovare nel medium del gioco. Il gioco non è vincolato a scopi di utilità nella vita quotidiana delle persone: il suo scopo si trova in sé stesso; esso rappresenta un campo di divertimento, in cui le persone giocano sé stesse in prima persona, si “mettono in gioco”. Il gioco non comporta una creazione, ma consiste in un processo di attuazione, d’imprevedibilità e d’invenzione: è un percorso nel suo divenire, così come il dialogo. Nel gioco le persone si autorealizzano esprimendosi come potrebbero essere o come sono. Il gioco è fondamentalmente composto da due aspetti: il primo è la mimesi, il secondo l’espressività autentica della persona.
La mimesi è un processo di esperienza dell’individuo, che gli permette di scoprire degli elementi essenziali e profondi della propria vita, imitando situazioni vissute o immaginate; il gioco mimedinamico – come io lo chiamo – non consiste in una semplice imitazione di situazioni reali o immaginate, ma è una messinscena condensata che esprime l’essenziale di queste esperienze. Nella mimesi la persona vive la gioia di riconoscere qualcosa di familiare nel suo modo di essere, di rilevare nella propria esperienza elementi profondi di sé stessa che finora forse non avevano un nome, e dunque non entravano nel suo raggio di consapevolezza; in tale modo si allarga l’auto-comprensione del paziente, i tanti colori della sua biografia trovano un ordine e, di conseguenza, egli elabora un significativo approfondimento del senso della sua vita.
L’altro elemento utile del gioco consiste nella ricerca dell’espressività della persona: esso permette di giocare con la propria espressività, ovvero inventare e provare delle forme di azioni, gesti, espressioni del volto e modulazioni della voce che esprimono la propria autenticità. Il gioco è sempre costruzione, interpretazione e contemporaneamente esperienza, sentire: entrambi gli elementi si penetrano l’uno nell’altro, ovvero quello più passivo del sentire e dello sperimentare e quello attivo del costruire e dell’anticipare le possibili esperienze.
Il giocare presenta per l’essere umano la gioia di vivere la propria vitalità nel muoversi. Il gioco è soprattutto il divertimento dell’agire, basato sull’esperienza corporea.
Il movimento nel gioco è un’azione intenzionale, ovvero consiste in un comportamento che è regolato da norme e/o orientato a regole il cui significato è riconosciuto e condiviso da tutti i partecipanti della comunicazione. L’individuo, per fare un’azione, deve prendere un’iniziativa e per prendere un’iniziativa deve identificarsi con il suo corpo secondo il precetto: “non abbiamo un corpo, invece siamo noi il nostro corpo”. Il filosofo canadese Evan Thompson (2010, pp. 246-247) enfatizza questa idea affermando:
“I am the body, (it) does not mean that I as a subject am simply my body considered as an object. Rather, I am my body is a way not unlike the way an artwork is what it expresses. My body is an expressive being and what it expresses is my subjectivity […] the link between these senses in which I am a body and I have a body is precisely the expressive relation between my bodily being and my subjectivity”.
Il movimento, “l’action”, rappresenta il flusso della sperimentazione corporea e plasma la base per dare forma alla soggettività dell’essere umano. La conseguenza di questa visione è che l’esperienza umana rivela una spazialità primordiale nella quale “essere corpo significa essere legato a un certo mondo, il nostro corpo non è, originariamente, nello spazio, ma inerisce allo spazio […] la spazialità del corpo è il dispiegarsi nel suo essere di corpo, Il modo in cui esso si realizza come corpo” (Merleau-Ponty, 2003). Dunque, il corpo ha un potere di significazione.
L’esperienza corporea è strettamente connessa, è “ingarbugliata” nella vita quotidiana delle persone, nel loro mondo di vita condivisa, nel loro vissuto di spazio e tempo, nell’orizzonte dei loro desideri, emozioni e azioni che formano la cornice del loro apprendimento, cioè del loro sviluppo. Ogni movimento intenzionale è composto da segni ed espressioni simboliche che indicano, secondo la loro natura, un possibile loro uso comunicativo. Anche le azioni non verbali agite dalle persone si muovono in un campo intersoggettivo di significati condivisi, in un orizzonte del common sense che mostra a loro stesse e agli altri la loro esperienza corporea.
Alla comunicazione che si svolge nelle rappresentazioni giocose, cioè nel gioco, ho dato una struttura in “quattro impalcature”:
1. la consapevolezza delle sensazioni (“io sento in questo momento…”),
2. l’identificazione (“Io posso”),
3. la drammatizzazione (“io mi esprimo, agisco”),
4. il dialogo (io comunico per sviluppare una autentica intesa”) (Ullrich, 2023, p. 143).
L’inizio di questo “sentiero della creazione”, come lo chiamo, è caratterizzato da un ri-gioco, in cui il paziente mette in scena esperienze passate o presenti o immaginate, attraverso il suo corpo mimante. Il ri-gioco dà al paziente la possibilità di percepire, sentire e dare forma con le parole ai suoi movimenti interni. Questo percorso rappresenta una sensibilizzazione del corpo del paziente agli spazi ai quali appartiene, cioè azione/movimento danno modo alla persona di creare la propria spazialità, un modo per scoprire e manifestare l’intenzione che abitano dentro i movimenti interni, finora non espressi.
Ogni movimento interno ha bisogno, per essere espresso, di un punto di appoggio fisico e di un punto di arrivo fisico. Faccio un esempio: il movimento interno di un paziente partiva dal suo desiderio, esplicitato, di essere più attivo nella propria vita. A questo punto esploravo insieme a lui, mentre parlava di questo desiderio, le sue sensazioni corporee, soprattutto nel suo modo di stare seduto. Questa esplorazione rilevava che egli sentiva una forte tensione nei suoi piedi, che si trasformava pian piano in un impulso ad alzarsi, ovvero a trovare un punto d’appoggio fisico reale. Indagavamo insieme anche sul possibile punto di arrivo di questo movimento, che secondo il paziente si trovava nello spazio davanti a lui, che immaginava come uno spazio vuoto, ma caldo, non minaccioso, pieno di possibili scoperte; dunque, il punto fisso di arrivo era visto come un punto in movimento nello spazio fisico, posto davanti alla persona. Acquisiti alla sua consapevolezza sia il punto di appoggio sia quello di arrivo, in seguito il paziente si assumeva la responsabilità di arrischiarsi ad eseguire il movimento ed esaminare la potenziale spazialità dell’azione, scoprendo nuovi modi di agire e di possibilità di movimento: si metteva a camminare con movimenti scattanti, vissuti piacevolmente; l’indagine successiva si concentrava allora sull’aspetto del movimento che scatta: che cosa nella vita reale del paziente sarebbe cambiato se lui avesse introdotto più azioni scattanti?
La mia esperienza di lavoro mi ha insegnato che tutti i movimenti interni, cioè sensazioni, emozioni, immagini, devono trovare la loro manifestazione nel corpo dell’individuo, attraverso movimenti/azioni, gesti e mimica, per poter essere riconosciuti del soggetto. Questi movimenti interni – una volta focalizzati dal paziente nella sua “awareness” – si raggruppano, si mettono in spirale, esplodono, calano, si presentano in una coreografia intima nel loro divenire, senza sosta, in un ballo tra parole e sensazioni/emozioni; senza le parole i movimenti interni non trovano le loro forme, il loro abito di potenziali intenzioni, la loro risonanza nel campo intersoggettivo; le parole sono come il letto di un fiume che conduce l’acqua delle sensazioni e delle emozioni che hanno bisogno di un alveo che dia loro la direzione e la forma.
Quando il movimento del paziente prende forma in un’azione, esso entra in un campo intersoggettivo; la spazialità del suo movimento si localizza sempre in una relazione con un altro individuo o con delle persone, si trova in uno spazio pubblico, mai in uno spazio solo privato.
Non c’è azione senza una reazione che si ripercuota sull’azione, la plasmi. Se in un rapporto interpersonale il paziente realizzasse la sua intenzione attraverso un’azione, immediatamente avrebbe delle reazioni che avrebbero un impatto sull’ecologia delle sue azioni in un determinato contesto. La quarta impalcatura del mio metodo sopracitato, quella della comunicazione, serve appunto a mettere in scena il campo intersoggettivo in cui il paziente inserisce le sue azioni e le modella, finché si trova a suo agio con esse.
Nel gioco non esiste solo la dimensione della mimesi ma anche quella della ricerca delle forme di espressività autentica, l’apertura a sempre nuovi modi di stare nel mondo, ad assaggiare il potere creativo della vita.
Per l’individuo moderno sperimentare il piacere di scegliere chi egli vuole essere e chi vuole diventare significa mettere in scena la poesia della propria vita senza una rete di sicurezza. In questa ricerca entra esplicitamente “il corpo poetico” delle persone, ovvero un potere creativo che io chiamo “il fondo poetico comune”. Questo concetto si basa su un’ispirazione ricavata dalle teorie di un grande regista e pedagogo, Jacques Lecoq (1997). Il fondo poetico comune rappresenta una dimensione astratta del nostro modo di fare esperienza: è fatto di spazi, colori, materiali, suoni e sapori, ritmi e figure, e descrive una modalità di percezione globale e astratta, caratterizzata dalla capacità della persona di captare le forme, il grado d’intensità e gli schemi delle azioni nel tempo; per dirlo sinteticamente, esso è composto dalle peculiarità globali della nostra esperienza. Le sue peculiarità le vediamo nelle coreografie dei nostri movimenti e nei nostri modi di esprimere le nostre emozioni; le vediamo nel come esprimiamo e viviamo un’emozione, il suo divenire; nel modo in cui mostra un certo ritmo, prende una determinata figura, ha un certo svolgimento dinamico: lento, crescente e poi calante o piano e poi esplosivo. E così via. Attraverso il fondo poetico comune noi mettiamo in relazione diversi eventi percepiti e questi assumono una qualità di esperienza emotiva soprattutto nella dimensione della percezione del nostro modo di sentire. Il fondo poetico comune è nutrito dagli impulsi e dai desideri creativi. Questa fonte di creatività la si trova in noi stessi grazie alla nostra esperienza di vita, alle sensazioni ed emozioni vissute. Secondo lo psicologo David Stern (1992) questa qualità creativa, questa prospettiva nel percepire il mondo, si trova già nei bambini piccoli, addirittura appena nati, quando leggono il loro ambiente nella dimensione degli affetti vitali, che per Stern non sono altro che la coreografia dei movimenti e delle emozioni delle persone circostanti. Secondo Stern questa qualità di sperimentazione, questa modalità di sentire il mondo da parte del bambino rappresenta la base della nostra esperienza di soggettività, la sorgente originaria della nostra esperienza creativa, che sta al punto di partenza di qualsiasi apprendimento ed agire creativo.
Il “fondo poetico comune” prende corpo soprattutto nell’impalcatura della drammatizzazione (Ullrich, cit., p.143-148). Quando abbiamo trovato insieme al paziente il punto di appoggio e il punto di arrivo di un movimento/azione possiamo incoraggiarlo a drammatizzare l’azione, per trovare una forma autentica di espressione. Il linguaggio del gesto o dell’azione diventa importante. Ma come si può sviluppare e inventare un linguaggio del gesto autentico sfruttando il fondo poetico comune?
Partiamo dal presupposto che “nell’espressione del sé ogni movimento è anche emozione, così come ogni emozione ha bisogno di esprimersi in un movimento per essere sperimentata pienamente. L’etimologia stessa della parola emozione (dal latino emovere ovvero ex, “fuori” e movere, “muovere”) letteralmente “portare fuori, scuotere, agitare”. Emozione e movimenti fanno dunque parte di un unico tessuto dell’esperienza. È grazie all’espressività dei suoi movimenti emotivi che la persona manifesta chiaramente agli altri cioè di cui ha bisogno” (Ullrich, 2019, p. 86-87).
Usare il fondo poetico comune vuol dire rendere visibili le emozioni nel loro movimento, le emozioni che la persona prova per esempio quando vede un oggetto, vede una scena, sente un pezzo di musica; il terapeuta incoraggia la persona a mettere in movimento quello che sente dentro di sé vivendo una certa esperienza. La lingua poetica ci offre lo strumento adatto per esprimere la qualità di un’esperienza che non dà importanza primariamente al contenuto del sentimento ma al modo di sentire, al suo profilo di attivazione. Nelle poesie troviamo infatti un frequente uso di espressioni come “l’esplosione di un sentimento”, “lo sbiadire di un amore”, “gli assalti della mia gelosia”, ecc.
La danza moderna e la musica sono esempi eccellenti di uso del fondo poetico: nella danza moderna il coreografo mette in scena il modo di sentire delle persone e non un sentimento specifico. Il fondo poetico comune dimostra la connessione stretta fra arte e vita, perché nell’arte il gioco del corpo poetico rappresenta il fondamento per qualsiasi creazione.
La differenza fra l’uso del gioco nell’arte e la sua applicazione nella terapia mette a confronto due prospettive diverse: nella terapia è sempre il paziente che si mette in gioco, con la sua vita, con le sue emozioni, con i suoi desideri; la personalità dell’individuo, strutturata nella sua socializzazione dalla lingua, si attualizza dunque nel gioco; il livello del coinvolgimento dell’individuo è in questo caso diverso. Il terapeuta nell’accompagnare il paziente deve dedicarsi alla continua costruzione dei luoghi sicuri che gli permettano di partecipare con un senso di sicurezza alla rappresentazione giocosa.
Ci sono diversi modi per usare il fondo poetico comune nel contesto del metodo della rappresentazione giocosa:
1. La figurazione mimata di un certo oggetto. Voglio dare ora un esempio concreto di questa variante d’applicazione. Un paziente, Mario, cinquant’anni, nella prima seduta con me parlava di una grande pesantezza che lo opprimeva e che sentiva localizzata nell’intestino. L’esplorazione delle possibili intenzioni nascoste ospitate in questa pesantezza non portava a nessuna scoperta. Il terapeuta chiedeva allora a Mario a trasformare, nella sua immaginazione, questa pesantezza in un oggetto che avrebbe dovuto tenere in mano. Mario descrisse un sasso nero della dimensione di una palla, liscio e pesante. Il passo successivo consistette nell’esplorare insieme a Mario i possibili movimenti/emozioni che abitavano dentro questo oggetto. In seguito, il terapeuta poneva una domanda a Mario: qual è l’effetto che suscita in lei il sasso, tenendolo in mano e guardandolo? Il paziente manifestava una tristezza che sfociava nell’impulso a gettare via il sasso. In seguito, Mario doveva esplorare questo movimento: alzava il braccio per buttare il sasso e mentre lo faceva percepiva un certo ritmo e una certa intensità del movimento; poi, per complementare l’esperienza, doveva dare un colore e un suono a questo movimento. All’improvviso Mario si ricordava la partenza imminente di suo figlio che andava a studiare in America. Attraverso l’attivazione del fondo poetico comune scoprivamo quindi come Mario viveva la dinamica dell’addio dal figlio; per Mario rappresentava l’addio una separazione fra due corpi, quello suo da quello di suo figlio, due corpi che prima sentiva molto connessi. L’altro corpo, il corpo di suo figlio, se ne andava e Mario provava a trattenerlo e mentre succedeva questo Mario conservava nel suo corpo una tristezza profonda, espressa dai suoni e dai colori della sua immaginazione; la sensazione del male nel suo corpo aiutava alla fine Mario ad accettare l’addio. Come espressione di questa dinamica emotiva Mario ha trovato “il suo vero gesto”, un gesto non codificato, non didascalico: era un gesto molto personale, il gesto dell’addio che il paziente voleva fare all’aeroporto per salutare suo figlio, che andava per un anno in America a studiare; era un gesto pieno di emozioni strazianti, che prima Mario non osava a manifestare neanche a sentire.
2. Movimenti astratti. Nel lavoro con i musicisti che soffrono di ansia da prestazione o di disturbi del movimento, ho scoperto un nuovo modo particolare nell’uso del “fondo poetico comune”. Io parto dal presupposto che la musica non è solo ascoltare i suoni e le melodie, ma consiste in una esperienza olistica, sia da parte del musicista sia da parte dell’ascoltatore. Il musicista, mentre suona, si muove in una “camera di risonanza”, ovvero fa vibrare le persone, le tocca quasi corporeamente, cioè crea dei movimenti emotivi che, ad esempio, “spingono” o “tirano” gli ascoltatori. Se il musicista suona, “vibra” con tutto il suo corpo, con i suoi organi e arti, mette in scena nella sua camera di risonanza dei colori, ritmi, odori e sapori, dei movimenti che esprimono diverse intensità dunque anche gli ascoltatori non sentono solo toni ma suoni, percepiscono colori, odori, immagini. In conclusione, per così dire, il musicista tocca con i suoi movimenti le persone e viene toccato da loro.
In una seduta di coaching effettuata con un pianista che soffriva di un serio blocco della sua espressività (non riusciva più suonare in pubblico), ho scelto un pezzo dal concerto che aveva in programma di eseguire a breve, un Impromptu di Debussy, e l’ho fatto entrare nello spazio della sua camera di risonanza e gli ho fatto visualizzare tutto ciò che non si vede nella musica come se fosse una materia; ho chiesto quale fosse l’impatto emotivo che aveva questa musica su di lui; partendo dai suoi movimenti interni emotivi l’ho invitato a trasformare questi movimenti, immaginando paesaggi colorati che si evolvevano secondo l’andamento della musica. In un momento seguente abbiamo analizzato la sua visualizzazione dei paesaggi, individuando le forme, il ritmo del cambiamento dei colori, la loro intensità e i movimenti delle linee del disegno nel tempo. Poi l’ho incoraggiato a trovare dei movimenti corporei; per realizzare questo l’ho invitato a immaginare di camminare in questi paesaggi immaginati, ovvero a diventare un corpo che vive quello spazio immaginario. L’ho incoraggiato quindi a osservare la dinamica della sua esperienza mentre camminava e a sentire le passioni/emozioni, dalla gelosia all’orgoglio, mentre attraversava quel paesaggio, con riferimento alle dinamiche dei colori, alla loro estensione e forza. Questa ideale esplorazione creava all’interno della sua camera di risonanza una sorta di recitazione, che avrebbe in seguito potuto mettere in pratica nel concerto, davanti il pubblico. La ricerca del “gesto musicale giusto” formava per il pianista un ideale palcoscenico per simulare, alla fine della seduta, il concerto vero e proprio e sperimentare la sua “camera di risonanza”, cioè la sua espressività autentica come musicista.
3. L’immagine mimata. Per drammatizzare un’esperienza vissuta da un paziente si può chiedergli di creare dentro di sé un’immagine simbolica, reale o anche astratta, fatta solo di colori o di forme geometriche, che rappresenti il vissuto, e visualizzarla su un foglio con dei colori. (Per fare un bilancio del lavoro terapeutico, qualche volta invito la persona, dopo una serie di sedute, a ricordare insieme, in una meditazione, il percorso della terapia e di creare un’immagine che rappresenti questa esperienza). Di un’immagine, una volta messa sul foglio, si possono analizzare l’intensità dei colori, i movimenti espressi, le figure, la composizione intera del quadro: spazi vuoti, spazi pieni ecc…
Di fronte all’immagine si scelgono, con il paziente, alcune delle figure rappresentate o alcune caratteristiche del quadro che si staccano dal suo sfondo; a questo punto, il terapeuta invita il paziente a trasformarli in movimenti fisici, espressioni corporee, allo scopo di esplorare la profondità del loro significato emotivo. Questo modo di lavorare consiste nell’usare il potere del corpo poetico per ricercare dinamiche interne, coglierle, e trovare delle manifestazioni immaginative, eventualmente anche dei suoni e dei sapori, per trasformali in manifestazioni fisiche d’azione.
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4. Gli animali mimati. Per comprendere questa variante nell’uso del fondo poetico comune è importante trovare prima una risposta alla seguente domanda: quale è il linguaggio più appropriato per lavorare con delle esperienze del fondo poetico? La leggerezza, secondo Calvino, è un approccio peculiare per guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica. La “leggerezza” rappresenta un metodo impiegato nella letteratura, un’infrastruttura linguistica. Se partiamo dal presupposto che solo nella comunicazione pubblica, nella lingua come medium condiviso tra le persone, nella lingua simbolica verbale e non verbale, l’individuo ha un accesso alla sua coscienza “privata”, ovvero alle sue esperienze intime, ai suoi pensieri, ne ricaviamo che la persona ha bisogno di comunicare in modo simbolico i suoi pensieri e sentimenti, per comprenderli e esprimerli al meglio. L’individuo può pensare solo attraverso le parole, i simboli; le parole/simboli si rivolgono a noi e ci dicono che cosa dobbiamo dire ed esprimere. A nostra volta possiamo dire e insegnare alle parole/simboli che cosa devono significare per noi. Le parole sono interpreti del nostro pensiero, dei nostri sentimenti e della nostra esperienza corporea: gli uomini e i simboli si educano reciprocamente. Se le parole educano noi e noi educhiamo le parole è importante decidere di puntare più sulle parole “leggere” che non su quelle del “peso”, dello spessore, della concretezza delle cose, dei corpi.
Perché ciò? È il sentiero della levitazione desiderata e non quella della privazione sofferta che porta allo sviluppo delle persone e alla loro emancipazione da costrizioni e condizionamenti negativi. Nel suo libro Lezioni americane Italo Calvino propone una strategia che permette di esemplificare la leggerezza: “un alleggerimento del linguaggio, e quei significati vengono convogliati sul tessuto verbale come senza peso, fino a assumere la stessa rarefatta consistenza”. Un buon esempio di questa strategia Calvino la fornisce citando una poesia Emily Dickinson:
Un sepalo ed un petalo e una spina
in un comune mattino d’estate,
un fiasco di rugiada, un’ape o due, una brezza,
un frullo in mezzo agli alberi – Ed io sono una rosa.
La forma di questa poesia ci dimostra che si possono collegare delle frasi, o frammenti di frasi su una linea orizzontale con altri pezzi di frasi e metterli in relazione fra di loro per creare una tessitura significativa. L’organizzazione dell’esperienza corporea nell’individuo può anche essere concettualizzata in questo modo: come una struttura poetica, che permette di mettere in relazione elementi molteplici in un mondo orizzontale delle combinazioni infinite; l’esperienza corporea può diventare allora un mondo delle deviazioni imprevedibili dalla linea retta, per garantire la libertà agli esseri umani. La concretezza e compattezza della esperienza tangibile del corpo vengono dissolte da versi leggeri che si mettono in fila come si possono mettere in fila le espressioni corporee nel loro flusso dinamico: il corpo poetico, nel suo divenire, diventa visibile, ascoltabile e assaporabile. Lo stesso meccanismo lo troviamo nella costruzione delle metafore, nelle quali vengono messi in relazione aspetti della vita più astratta con aspetti della vita più concreta e i primi vengono sottoposti a una rilettura attraverso i secondi: per esempio nell’affermazione “Il mondo è come un teatro”. Se mettiamo in una struttura metaforica elementi leggeri che ci permettono di rileggere quelli più pesanti, alla fine tutti gli elementi acquisiscono leggerezza.
Prendiamo il caso di un paziente, Alfredo, il quale raccontava che nella sua vita si era comportato sempre molto passivamente; aveva scelto il lavoro paterno (avvocato) perché non voleva sbagliare agli occhi del padre; era stato scelto dalla moglie perché non voleva sbagliare, ma non la amava; si voleva sempre trovare in una sua zona confort, nella quale non doveva rischiare niente. Era da 20 anni con la moglie anche se lei, dopo la nascita del figlio, aveva deciso di non fare più l’amore con lui; aveva diverse amanti ma non si decideva mai a separarsi dalla moglie. La sua ultima amante era per lui un grande amore ma l’aveva persa perché non si decideva a lasciare la moglie fino al momento che lei non si fosse separata da lui.
Nel lavoro terapeutico, scopriamo che Alfredo possiede una parte di sé che vive dentro una zona d’ombra profonda; questa parte esprime però tanta voglia di uscire e giocare un ruolo attivo nella vita di Alfredo. Mi viene in mente una storia, che decido a raccontare ad Alfredo, una storia metaforica: c’era una volta un branco di leoni che viene ucciso dai cacciatori; solo un piccolo leoncino si è nascosto dentro a un cespuglio, sopravvive e viene trovato da un pastore. Il leoncino cresce dunque insieme ai cani del pastore e finisce per assumere la convinzione di essere lui stesso un cane-pastore. Un giorno il gregge viene attaccato e distrutto da un gruppo di leoni e il leone capobranco offre al leone-cane una pecora da sbranare. Il leone-cane nega però di essere un leone e rifiuta la preda, affermando che non poteva mangiare pecore perché era un cane-pastore; il capobranco, dopo alcuni tentativi di convincerlo del contrario, alla fine invita il leone-cane a provare a ruggire, per aiutarlo a scoprire la sua vera identità. Alla fine, il leone-cane emette un tonante ruggito (l’istinto prevale) e incomincia ad accettare la sua nuova “vecchia” identità.
Dopo aver raccontato la storia ad Alfredo gli dissi che avevo l’impressione che lui pensasse di essere cresciuto in una famiglia di pecore e cani-pastore; purtroppo per lui, questo era stato un grande malinteso della sua vita: in verità lui era sempre appartenuto a una razza di felini. Alfredo rispose istintivamente che lui si sentiva come se fosse un giaguaro. Allora invitai Alfredo a sperimentare il ruggito di un giaguaro che, dopo qualche tentativo, gli riuscì anche molto bene. Oltre a ciò, Alfredo sperimentava fisicamente altre caratteristiche di questo animale: il suo modo a muoversi nel terreno, di usare i suoi sensi, di applicare il suo istinto strategico ecc. Tutti questi comportamenti e qualità Alfredo li metteva in scena, in un gioco serio, come se lui fosse realmente un giaguaro. L’esperienza di mimare il giaguaro portò Alfredo a scoprire una gamma di caratteristiche che abitavano nel suo personaggio nascosto. Sperimentando il suo ‘essere giaguaro’ anche nella sua realtà quotidiana, provando questo abito innovativo, portò Alfredo a intraprendere grandi trasformazioni nella sua vita. Dunque, la poesia leggera della storia di Alfredo potrebbe essere la seguente:
Un piccolo cucciolo felino, un cespuglio, un nascondiglio
in un comune mattino d’estate
Un pastore e un gregge, un cane o due,
una fioritura piena
un vento forte che pettina l’erba,
un piatto profumato tipico
un ruggito di gioia
e io sono un giaguaro.
Tutte le quattro varianti sopra descritte fanno vedere come l’innesto dello sfondo poetico comune, lo sguardo del corpo, sulla pratica di quella che ho chiamato “mimidinamica”, porta le persone a compiere processi di apprendimento nei quali essi acquistano un nuovo sapere riguardo al sentire, all’agire e allo stare nella vita. Le azioni espressive possono essere messe in scena come un atto drammaturgico, come un monologo, e/o si possono svolgere in una relazione con altre persone, cioè diventano comportamenti sociali, avviluppati nella comunicazione, per trovare un orizzonte comune, per capirsi e costruire delle esperienze condivise. Quando le persone usano il loro fondo poetico comune, incontrandosi, creano con i loro sguardi, con l’intensità dei loro gesti, con il loro modo di muoversi, con la forza delle loro azioni, con la coreografia del tocco delle loro mani, un vissuto comune compartecipato. La maggior parte delle cose che sappiamo sul mondo e su di noi, le impariamo dagli altri e le scopriamo nelle relazioni, in un processo di dialogo che rappresenta un infinito divenire delle interpretazioni; vi sono delle idee o delle azioni che si oppongono tra di loro, vi sono delle contraddizioni poste a confronto tra gli individui e la disponibilità dei partecipanti a modificare le proprie prospettive porta alla costruzione di un orizzonte comune fra di loro. Le azioni e i movimenti non rappresentano un percorso lineare ma sono dinamiche: in essi, cioè, ciò che conta è come avviene lo spostamento, il suo ritmo, la sua coreografia nello spazio. La forza e l’intensità del movimento esprimono il flusso dell’interpretazione verbale e non verbale delle persone, le quali attraversano in questo modo momenti di equilibrio, disequilibrio, opposizione, alternanza e compensazione; il ballo fra azione e reazione rispecchia il nostro modo di stare nel mondo della nostra vita. In questo senso esiste una sorta di corpo collettivo, un corpo costituito dai tanti “mimi” nascosti in ciascuno di noi. Accade così anche nell’arte, in cui ogni artista è anche profondamente permeato dalla mimesis, dalla capacità cioè di interiorizzare immagini provenienti dal suo vissuto e poterle restituire nella forma artistica, senza neppure aver bisogno di averle davanti agli occhi fisicamente; Picasso dipingeva un toro dopo aver visto talmente tanti tori in azione al punto di avere profondamente dentro di sé l’idea stessa di toro, prima ancora che il toro prendesse forma sulla tela, con poche linee, grazie al suo gesto artistico. Questo processo descrive bene il potere della mimidinamica. Anche tutti noi, in questo senso, siamo artisti, così come lo intendeva Bertold Brecht, il quale affermava che l’arte più sviluppata e più alta è l’arte del vivere. Possiamo trovare i nostri gesti di espressività autentica, il nostro modello di buona vita, affidandoci alla nostra forza creativa e alla potenza del verbo “potere”, dell’affermazione “io posso”, che contiene la chiave di libertà e di possibilità infinite.
Bibliografia
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