Gabriela Gaspari, un ricordo, un’amicizia profonda, un insegnamento
di Pietro Barbetta
Scompare nella notte tra il 2 e il 3 luglio, abbracciata alla figlia Silvia, che la trova fredda e le dice: “ti sei scoperta”, prima di rendersi conto del trapasso. Oltre a figlie e nipoti, Gabriela aveva formato generazioni di terapeute e terapeuti, a partire da quando si era formata lei stessa in psicoanalisi con il gruppo di Diego Napolitani, prima ancora di scoprire l’approccio sistemico, ancora prima di quando Selvini, Boscolo, Cecchin e Prata si separassero. Negli ultimi tempi, quando si presentava, ci teneva a ricordare i suoi esordi di gruppo analista, forse sentiva che al Centro Milanese di Terapia della Famiglia sentivamo, in molti, di riconciliarci con le origini: Ackerman, Arieti, Erba, Rusconi, Napolitani, Lai, Fachinelli. Quella psicoanalisi che si sporcava le mani con il sociale, con il territorio.
Quando la conobbi, a Merate, Centro di psicologia della relazione, mi aggregai a una piccola equipe con Franco Lombroso, suo compagno di terapia, Laura Formenti, Fulvio Rota. Li si guardava, lei e Franco, condurre le terapie. Presto ci fece entrare. Le equipe terapeutiche subivano continue metamorfosi e nomadismi: Merate, Milano, Como, Lecco, Bergamo, Brunate. Le famiglie e i pazienti si muovevano con noi: ricordo una coppia che ci seguì da Bergamo a Merate, poi Como, forse anche qualche volta a Miano e di nuovo a Bergamo. Era usuale.
Vedevamo casi umani particolarmente strani, per citare un testo di Enrico Valtellina: una coppia che si era riconosciuta dopo una reincarnazione nel Cinquecento, ci chiedeva di aiutarla a ricordare; una coppia convinta di essere indemoniata, che ci portava in terapia i nidi di piume che scovavano dentro i cuscini del letto; un uomo che sognava che dal suo pene uscisse un cagnolino domestico.
Poi casi di schizofrenia, come il “Giacobbe Liberati” che appare nel libro Lo schizofrenico della famiglia o la “Mary per sempre”, una donna, anoressica da oltre 20 anni, che venne da noi in sedia a rotelle accompagnata da due sorelle infermiere, e se ne andò sola, un paio d’anni dopo con un bastone da passeggio. La donna era stata inviata da un endocrinologo all’uscita dal coma, forse non era il primo e sembrava essere risorta, anche la sua voce, al primo incontro, sembrava venire dall’oltretomba.
Non era un caso che Gabriela scriveva sull’isteria e sull’isterodemonopatia. Aveva scritto “Che fine ha fatto l’isteria?” in un libro, Dall’individuo al sistema, curato da Marisa Malagoli Togliatti e Umberta Telfener, per Boringhieri, poi, con Teresa Arcelloni, un altro testo “Isteria, isterodemonopatia, possessioni”, in un libro curato da me Le radici culturali della diagnosi, per Meltemi. Si trattava del caso di una piccola comunità di Verzegnis, in Carnia, dove Gabriela aveva vissuto l’infanzia. L’episodio era accaduto nel 1860 circa (Laura Borsatti, Le indemoniate, Bologna, Castelvecchi, 2022), ma negli anni Cinquanta del secolo scorso, se ne parlava ancora e lei, bambina, se n’era interessata.
Questo suo lato rivolto al mistero mi ha sempre attratto, io che mi sentivo un intellettuale illuminista, ricevetti da Gabriela la prima grande lezione di Shakespeare: “ Ci son più cose in cielo in terra Orazio di quante non ne sogni la tua filosofia”. Gabriela aveva una grande qualità: frequentava chiunque la invitasse, era sempre calma e gioviale, anche quando qualcuno magari ne approfittava, non si scomponeva mai. Insieme abbiamo coltivato anche le nostre passioni etno-cliniche, in un numero della rivista Connessioni del 1997 abbiamo scritto “Comunicazione interculturale in contesti di consulenza”, poi altri testi insieme, a volte con altri che giravano nelle differenti equipe terapeutiche. Si trattava sempre di studi su casi clinici, spunti emergenti dalle pratiche cliniche. Quando trovai accoglienza alla Nostra Famiglia, presso la sede di Lecco, dove mi offrirono lavoro clinico, agli inizi degli anni Novanta. Qualcuno mi disse: “a Lecco vai nella bocca del leone, là ci sono gli psicoanalisti!”, intimorito chiesi a Gabriela che lavorava presso la sede di Como dello stesso istituto. Mi disse: “Vai, poi mi racconti!”. Con il gruppo degli psicoanalisti, condotto da Puccio Benincasa, mi trovai benissimo e incominciammo a collaborare nel lavoro clinico. Ci prepararono uno spazio con il vetro unidirezionale dove io e Fulvio Rota, allievo di Anna Maria Sorrentino, ci alternavamo in seduta con un gruppo di tirocinanti. Gabriela e Anna Maria erano le nostre ispiratrici, io pensavo a Gabriela, Fulvio ad Anna Maria. Poi ci raggiunse anche Enzo De Bustis.
Lunedì mattina mi sono recato a visitare le sue spoglie, ho incontrato la sua numerosa famiglia, ma la notte precedente l’ho sognata. Ero presso la sede del Centro Milanese di Terapia della Famiglia, in segreteria e parlavo con Antonella Boscolo, la segretaria. La porta era aperta e dentro c’era luce, ma alle spalle, oltre la porta, le luci erano spente. A metà del corridoio, c’era Gabriela seduta su un sedia da regista, come quelle che avevamo una ventina d’anni fa. Vestita di scuro, nell’ombra, mi guardava. L’ho preso come l’ultimo saluto di un’amicizia intensa, piena di amore. Addio Gabriela, non tornerai, ma anche noi, come la coppia dei nostri pazienti reincarnati, un giorno ci troveremo, al piano superiore di una casa dove questa volta sarai tu a domandarmi che significa la parola “metempsicosi” e io cercherò, senza riuscirci, a spiegarlo.
Un modo magico per continuare a danzare insieme
di Umberta Telfener
L’ho conosciuta quarant’anni fa, era il 1983, eravamo ambedue a un seminario di Mara Selvini Palazzoli a Cret Berard in Svizzera, un po’ sperdute ma con tanta energia e voglia di imparare. La sera del primo giorno – stanche e demoralizzate per il livello di incompetenza che ci sentivamo addosso – Gabri ha tirato fuori il mazzo dei Tarocchi e di colpo ci raccontavamo fatti personali e, insieme ad altre colleghe, parlavamo d’amore, di sogni e di difficoltà. Erano diventati immediatamente pettegolezzi di fronte alla famiglia, una frase che Mara Selvini stessa userà per descrivere a volte il processo terapeutico. Da quel giorno con Gabri c’è stato un doppio binario costante: avevamo due piste che ci coinvolgevano ambedue e ci portavano a cercarci, sia la vita privata che la sfida di pensare nuove tecniche e nuove strategie sistemiche. A Settembre quell’anno Gabri comincia a insegnare a via Leopardi.
Ci rispettavamo molto, insieme potevamo parlare per ore di ipotesi sui casi, di letture sistemiche, di come utilizzare la teoria dei quanti, come amplificare l’intuizione, come far fare agli allievi esperienze intense e come adoperare la metafora, l’abduzione, l’immaginazione per accedere all’emotività.
L’ultima volta che abbiamo passato tempo insieme è stato luglio 2019, assieme a Elena Tazzioli che l’ha accompagnata sono state un week end lungo da me in campagna. Come ogni volta, abbiamo riannodato i fili della nostra amicizia, come Maria Lai – l’artista sarda – faceva coi fili di lana per portare pace in un paese della sua Regione. In quella occasione mi ha proposto di adottare un “folletto amico” tirato fuori da una radice da un suo vecchio amico in Carnia che va per boschi: “li porta a casa, con molto rispetto interviene il minimo indispensabile per mettere in evidenza la loro vera complessa natura e li regala a chi sa capire.” Perché ambedue crediamo negli spiriti, nell’intuito, negli sciamani, negli incontri casuali con anime belle e nell’interdipendenza.
A lungo parlavamo della saggezza degli animali che ci circondavano, del gatto saccente, dell’oca che la sapeva lunga, dei segnali che gli animali intorno a noi ci inviano, alla sintonia che si può creare. Cercavamo l’armonia e la saggezza fuori di noi per strade non convenzionali, ampliando sempre la ricerca, percorrendo strade nuove. Gabriella conduceva, io la seguivo curiosa e fiduciosa, in un viaggio verso l’Amore come danza cosmica.
Poi è arrivato il Covid, secondo Gabri un esame di maturità che dovevamo tutti superare. In quell’occasione mi inviava le foto del suo prato fiorito, del cielo con nuvole a pecorelle o di un particolare buffo che l’aveva colpita nel quotidiano.
In ottobre 2021 Gabri ha coordinato la conferenza che insieme a Pietro Barbetta abbiamo fatto su Maturana al Centro. Quando invio un ‘inboccalupo’ prima di iniziare il collegamento mi risponde: “Adoro i lupi, mi piace correre con loro”. E abbiamo danzato tutti e tre come sempre bene insieme, passandoci la palla, supportando ciascuno dei tre il discorso degli altri due, con una tenerezza e una familiarità che ancora in questo momento mi commuovono. Un po’ speciale perché fatta di fiducia totale e di rispetto ognuno per l’altro.
Il 3 luglio 2022, all’alba, nel sonno, Gabri ci ha lasciato e sento molto forte il bisogno di trovare un modo magico per continuare a danzare insieme. Grazie amica cara per tutto quello che hai condiviso della vita con le tante persone che hai radunato attorno a te e anche con me!