A cura di Gianluca Ganda e Walter Troielli
Un ricordo di Gianfranco Cecchin
di Vincenzo De Bustis Ficarola
Sono stato recentemente stimolato a proporre un ricordo di Gianfranco Cecchin in occasione di un congresso della scuola di psicoterapia di Bassoli e Mariotti a Modena sul pensiero e il contributo di Cecchin al mondo della terapia familiare. Ero a conoscenza di quanto a distanza di vent’anni dalla sua morte, più volte molti colleghi sentono ancora vive le sue idee e tentano in vari modi di riflettere sullo stile e l’approccio al mondo della sofferenza mentale di Gianfranco.
Devo confessarvi che è stato un privilegio parteciparvi come direttore del Centro Milanese di Terapia Familiare istituto fondato da lui e da Boscolo e ascoltare giovani colleghi che studiano il pensiero di Cecchin. Privilegio inatteso è stato dialogare insieme a quelli che furono i primissimi allievi del cmtf, c’erano oltre a Bassoli, Mariotti, Cirillo e Sorrentino, abbiamo avuto modo di ricordare anche molti altri colleghi che provenienti da una medesima traccia abbiano poi a loro volta proseguito in modo originale ed autonomo senza mai dimenticare i maestri.
Io ho contribuito raccontando come un sodalizio professionale ed umano di Luigi e Gianfranco abbia consentito loro di sviluppare concetti terapeutici distinti ma uniti nella ricerca di vie nuove per incontrare il sollievo del disagio dell’altro, modalità che hanno incontrato un favorevole successo in molti mondi per certi versi inatteso da loro stessi ma in cui hanno creduto e nel quale hanno dedicato la totalità della loro esistenza. Ho raccontato anche con qualche aneddoto personale che Cecchin aveva nella vita e in terapia una innata capacità e velocità di riuscire a utilizzare tutto, compiendo una esclusione ed inclusione di parti delle conversazioni terapeutiche che qualcuno ha paragonato al suonatore di jazz.
Ho ricordato che Gianfranco ebbe una predilezione giovanile per la musica che lo accompagnò per tutta la vita e che probabilmente fu all’origine dell’incontro con Boscolo. Mi è sembrato quasi naturale a conclusione del mio contributo dedicargli l’ascolto di un brano di Battiato “la prospettiva Nevskij” nel quale l’autore racconta come il suo maestro gli abbia consentito di cercare l’alba dentro all’imbrunire.
Pensando a Gianfranco
di Cinzia Giordano
Ciao Gianfranco, ho fatto questo lavoro 10 anni fa, allora eri mancato da 10 anni e mi trovavo a riflettere insieme ai miei colleghi sul tuo concetto di polifonia, e su come questo aveva influenzato il mio lavoro.
Ho pensato di ricordalo ora, a distanza di 20 anni, perché sono cambiate tante cose: è mancato anche Luigi, c’è stata una pandemia, incombono guerre intorno a noi, si parla di intelligenza artificiale, cambia il modo di pensare, ma questi tuoi pensieri rimangono tutt’ora attuali.
Tu intendevi la polifonia come attenzione alla molteplicità di storie possibili, come attenzione alla complessità intrinseca nel sistema famiglia, mettevi il focus sulla complessità dell’interazione, sulle differenti punteggiature con le quali si possono osservare i comportamenti.
L’atteggiamento polifonico centrato tanto sulla struttura in essere quanto sulle strutture che si ipotizzano come potenzialmente possibili.
In terapia, così come nella vita, per fare questo è necessario mantenersi curiosi, una curiosità estetica, ossia attenta e sensibile alla complessità intrinseca del sistema e alle differenze che emergono nella descrizione delle molteplici storie narrate o potenzialmente narrabili.
Per te i membri della famiglia erano “narratori di storie”.
I tuoi interventi in terapia apparivano semplici, ma era chiaro che dietro c’era pensiero, intuizione, sapere, complessità. Questo mi ha permesso di lavorare con alla base un’idea: “la strada per la semplicità passa attraverso la complessità”.
Avevi sviluppato la capacità di mantenere una visione sistemica e questo ti permetteva di sviluppare una molteplicità di alternative possibili nell’osservare le storie delle persone che si sedevano con te nella stanza di terapia, con la tua irriverenza che non metteva mai in discussione il rispetto per le persone e le loro storie.
Sapevi ascoltare la molteplicità delle “voci su diverse altezze sonore che a volte procedevano anche in direzioni opposte” per poi portarle verso l’armonizzazione e la sinfonia.
Una tua frase che mi piace ricordare è: “stare bene è essere liberi e irriverenti” intendendo con irriverenza la possibilità di mettere in discussione le teorie e di conseguenza permettere costantemente lo sviluppo di pensiero, ossia l’apertura verso una curiosità estetica.
La polifonia in questo senso genera descrizioni possibili grazie alla posizione di curiosità.
Semplicemente grazie
Cinzia