di Antonio Nurra e Pier Giorgio Semboloni
A. Nurra: Psicologo, Psicoterapeuta
P. G. Semboloni: Psichiatra Psicoterapeuta, Codirettore del Centro Genovese di Terapia della famiglia.
L’articolo è stato pubblicato in lingua spagnola sulla rivista Redes
“Qual è il movente di un crimine? In che momento ne germina l’idea:
poco prima di commetterlo o anteriormente di molti anni,
quando eravamo angeli e stavamo formando il nostro carattere
e l’universo delle nostre relazioni?”
Beatriz Rodriguez, Cuando éramos ángeles.
Nel nostro lavoro abbiamo cercato di analizzare, utilizzando un approccio sistemico relazionale, un crimine ben noto e ampiamente discusso nei media italiani. Si tratta della madre di due bambini che ha ucciso il più giovane apparentemente senza alcuna motivazione, è stata riconosciuta colpevole e incarcerata fino ad oggi, ma non ha mai accettato di riconoscere il crimine, anche se i rapporti giudiziari peritali hanno negato fosse incapace di intendere. Il crimine è avvenuto ad Aosta, una città piccola e tranquilla dell’Italia settentrionale dove viveva con il marito e i due figli dopo essersi trasferita da un’altra regione d’Italia a Monteacuto, dove viveva la sua famiglia d’origine. Il marito e la famiglia l’hanno sempre difesa nonostante non vi fosse alcuna ipotesi alternativa per il crimine. Durante il lungo iter giudiziario volle un’altra gravidanza che generasse un altro figlio maschio. Fino ad oggi i giudici, pur dopo tanti anni, non le hanno permesso di andare a scontare la pena in un contesto più vicino ai due figli, ipotizzando che potesse ripetere il delitto.
Le informazioni che utilizziamo per questo lavoro provengono da perizie giudiziarie e quindi sono lineari e obbediscono a una lettura psicopatologica individuale come richiesto dal contesto giudiziario italiano. Abbiamo cercato di realizzare una revisione sistemica di ciò che viene presentato nelle perizie giudiziarie, evidenziando gli elementi che ci hanno portato a ipotizzare un collegamento tra il concetto di mito familiare e il contesto di sofferenza compatibile con quanto accaduto. Abbiamo costruito la simulazione di un’intervista terapeutica “impossibile” alla coppia genitoriale (che non è mai avvenuta) utilizzando le dichiarazioni dei due che si trovano nella perizia originale. Da tutto ciò è emerso, attraverso nuovi elementi di descrizione relativi a una ipotizzazione sistemica e al concetto di mito familiare, una valutazione che può permettere di comprendere come “coerenza di sistema” ciò che è accaduto.
Ciò che ci apprestiamo ad analizzare è il contenuto di una perizia nell’ambito di un processo penale. Ci muoviamo quindi in un contesto, che è quello del mondo giudiziario, fortemente caratterizzato da un’ottica lineare, dove la finalità dei Magistrati è quella di utilizzare la logica della ragione/torto, del giusto/ingiusto della determinazione di colpevolezza/innocenza. Quindi i professionisti che vengono incaricati di redigere una consulenza tecnica o una perizia, debbono, per esigenza di contesto (che tra l’altro vieta la perizia psicologica ma ammette quella psichiatrica) e aspettative dei Magistrati, rispondere a dei quesiti seguendo un’ottica lineare e psicopatologica individuale.
In questa sede ci occupiamo della perizia psichiatrica di primo grado del processo ad Anna Maria Franzoni, l’unica alla quale la donna ha collaborato presenziando ai colloqui.
Nel caso in esame, i periti dovevano rispondere ai seguenti quesiti:
- se Annamaria Franzoni fosse capace di intendere e di volere al momento del fatto;
- in caso di risposta negativa al quesito precedente, specifichino il grado e l’entità dell’incapacità riscontrata;
- se Annamaria Franzoni sia persona socialmente pericolosa;
- se Annamaria Franzoni sia in grado di partecipare in modo cosciente al procedimento, così come richiesto dall’art. 70 C.p.p..
Le risposte dei periti, al termine delle operazioni peritali, sono state le seguenti:
L’indagine peritale da noi espletata, non ha consentito di acquisire elementi di giudizio atti a dedurre, sul piano diagnostico, concrete ipotesi di patologia mentale o di infermità tale da incidere sulla capacità di intendere e/o di volere di Anna Maria Franzoni al momento del supposto fatto.
Anche il malessere che ha preceduto di qualche ora l’evento delittuoso, cosi come l’atteggiamento un po’ “costruito” assunto dalla perizianda dopo lo stesso (giustificato dalla stessa per fini difensivi soprattutto anche nei confronti dei media, e comunque presto dismesso nella relazione con i Periti) non sembrano elementi di giudizio sufficienti a documentare, al momento del supposto fatto, una infermità tale da sostenere un vizio totale o parziale di mente.
In conclusione, è possibile rispondere ai quesiti proposti nei seguenti termini:
- Anna Maria Franzoni, al momento del fatto di cui al processo, aveva piene capacità di intendere e di volere. Il riferimento, come più volte ribadito, è esclusivamente di tipo cronologico, non potendo prendere compiutamente in considerazione la relazione col fatto;
- Stante la risposta al primo quesito, il secondo decade.
- Anna Maria Franzoni è dotata di piena capacità processuale.
Non possiamo qui, per esigenze di spazio, fornire un dettagliato resoconto delle informazioni presenti nella perizia. Passiamo quindi a descrivere la nostra ipotesi del “mito familiare” come “terreno” divenuto insostenibile per Anna Maria Franzoni, emersa sia da una lettura sistemica delle informazioni presenti nella perizia, che dalla ipotizzazione di una intervista terapeutica “impossibile” simulata con la coppia, ossia da una ricostruzione del dialogo dell’intervista a partire dal materiale peritale originale.
Anna Maria Franzoni è chiaramente molto legata alla propria famiglia di origine, vissuta da sempre come sostegno e come “medicina” da “essere presa” nei momenti di difficoltà. Una medicina contro la solitudine? Una medicina contro uno stile di vita diverso da quello a cui era sempre stata abituata? In vari passi della perizia, la Franzoni precisa di sentire che anche Stefano fa parte della sua famiglia, riferendosi evidentemente alla famiglia di origine, come se la sua famiglia nucleare attuale di fatto non si fosse mai completamente svincolata da quella di origine. Una “grande famiglia” che comprende entrambe le sue famiglie ed “esclude”, così sembra, quella di origine del marito Stefano Lorenzi. La Franzoni descrive i propri genitori con connotazioni decisamente positive. Non emerge mai una critica, mai un aspetto da migliorare, come se l’idea da preservare agli occhi dell’esterno sia quella di “una famiglia perfetta”. In particolare, il padre della donna, viene descritto come uno che ha iniziato dal niente, e poi si è fatto pian piano… Un pioniere in pratica (ruolo del padre forte e lavoratore). La madre invece viene descritta come una donna sempre in azione, piena di attività culturali. Stiamo parlando di una famiglia con undici figli. Evidentemente si tratta di una madre con risorse illimitate perché, oltre a doversi occupare di undici figli, trovava il tempo per tutte queste altre attività (ruolo della madre con risorse illimitate).
In casa Franzoni si può ipotizzare che l’“ozio” fosse bandito. Si tratta di una famiglia caratterizzata anche da una sottocultura cattolica, presumibilmente improntata alla necessità di “sapersi sacrificare” per il prossimo. Ricorda come il padre e la madre siano sempre andati d’accordo. Emerge anche qui la polarità semantica “bontà”, evidentemente tramandata in senso trigenerazionale. Si può ipotizzare una tendenza a “negare i conflitti” e a fornire verso l’esterno sempre un’immagine di accordo e perfezione, difendendo anche verso l’interno una delle caratteristiche del mito familiare: – noi Franzoni andiamo tutti d’accordo, ci vogliamo tutti bene e ci aiutiamo a vicenda.
Di seguito vedremo che anche quando parla dei figli Davide e Samuele, la Franzoni, parlando di come cercavano di evitare le “gelosie” tra i fratelli, afferma che “fra di noi non c’è mai stata gelosia” riferendosi evidentemente alla famiglia di origine e/o alle dinamiche della relazione col marito. Al di là del fatto che Anna Maria Franzoni sia colpevole o innocente, si può ipotizzare che la sua situazione familiare avesse forti connotati di insostenibilità. Quindi quanto il ruolo di “madre e moglie perfetta e buona”, con tutte le connotazioni tramandate attraverso un “mito familiare” era sostenibile da Anna Maria Franzoni nella sua situazione contestuale di Cogne, nel periodo del delitto. Quali conflitti portava a dover sperimentare? Quali doppi legami? (“Devi essere forte, ce la devi fare anche da sola” VS “se non sei con noi sei perduta”).
Se si ipotizza la presenza di un mito familiare, questo si estende dalla famiglia a tutti coloro che vengono a contatto con questa e questo emerge infatti dalla lettura delle testimonianze raccolte all’esterno del nucleo familiare dei Lorenzi dai periti. Il concetto di mito familiare si riferisce a modelli di distorsione della realtà condivisi da tutti i componenti della famiglia e perfino da osservatori esterni. Mi pare di poter dire che ci troviamo in presenza delle caratteristiche che Ferreira identifica quali costitutive del mito familiare.
Nella prima generazione, raggiungibile dalla nostra indagine, siamo all’epilogo di una credenza condivisa ancora vitale, in quanto connessa alla realtà di una sottocultura propria della famiglia Franzoni. La famiglia di origine di Anna Maria Franzoni garantisce sopravvivenza, sicurezza, dignità dei singoli ai suoi componenti, ben undici figli (sei maschi e cinque femmine). Vi è una chiara individuazione dei ruoli (tutti i figli maschi sono geometri e aiutano il padre nell’azienda che ha tirato su “con le sue mani”. Le femmine devono essere in grado di “farcela” e di assumere il ruolo di mamma dedicandosi nel contempo ad altre numerose attività anche culturalmente di livello, come del resto ha sempre fatto la mamma di Anna Maria Franzoni che, oltre ad aver insegnato, dipinto, scritto poesie ed allevato undici figli, è stata capace di creare e gestire un agriturismo.
Seguendo Propp, sappiamo che i ruoli spesso sono legati a debiti e a crediti intergenerazionali. Tutti, entro certi limiti, ripagano debiti (mitici) alla loro famiglia, in modo più o meno occulto (Andolfi e Angelo, 1987). Questa famiglia “da forza” a chi ne fa parte. Lo dice la stessa Anna Maria Franzoni ai periti. Sembra di trovarsi di fronte a una perfezione assoluta. Ma quali potrebbero essere stati i risvolti della separazione di Anna Maria Franzoni da questa famiglia? Fino a quando la Franzoni resta in seno alla famiglia di origine tutto va bene. Ma nel momento della separazione sperimenta disagio. Cosa ha significato per la Franzoni coltivare l’indipendenza? La donna rivendica una certa indipendenza dalla madre, al cui modello si sente però particolarmente legata: (“…io ragiono con la mia testa, anche se prendo esempio da lei…”).
Ai periti Anna Maria Franzoni parla di “autonomia” come di una qualità molto importante, definendo la scelta a trasferirsi a Cogne appunto come “scelta di autonomia”. La donna comunque dice che voleva andare a Cogne altrimenti non ci sarebbe andata. Resta da capire se “voleva” perché doveva dimostrare “forza” e “autonomia” oppure se voleva perché quella scelta la sentiva come adeguata al suo benessere. Infatti, gli stessi periti scrivono che emerge una componente di testardaggine: (per esempio, nonostante stesse male, durante il primo soggiorno a Cogne, non vuole tornare indietro “…mi ero presa l’impegno e volevo finire…”). Più volte dice che la vita che si era costruita era proprio quella che voleva. Sembra che vi sia una certa impossibilità di accettare che qualcosa provochi disagio se quella cosa “è la cosa giusta da fare”, se è un comportamento o un modo di pensare che proviene dal “mito familiare”.
Oltre alla separazione geografica dalla famiglia di origine, possiamo ipotizzare, che su Anna Maria Franzoni abbia pesato la paura si “separarsi” dal “mito familiare”, tradendo quelle che erano le aspettative della sua famiglia su di lei. E se si separava dal mito familiare era perduta. Ma essendo costretta a rimanervi attaccata era perduta lo stesso (doppio legame?).
La forza della famiglia Franzoni mi ricorda quella della famiglia Casanti in Paradosso e controparadosso. Infatti, la loro forza è sempre quella antica: sgobbare e stare tutti uniti. E per starci, devono costruire un mito, un prodotto collettivo, la cui insorgenza, persistenza e riattivazione mira al rafforzamento omeostatico del gruppo contro ogni sollecitazione dirompente. Il motto potrebbe essere “Noi restiamo una famiglia modello, dove tutti stanno insieme e si vogliono bene”.
Come ogni mito, il mito familiare è caratterizzato da convinzioni condivise che riguardano sia i membri della famiglia, che le loro relazioni. Queste devono essere accettate a priori, a dispetto di flagranti falsificazioni. Nel “mito” sono stabiliti ruoli e attributi dei membri della famiglia. Il processo di cui stiamo parlando è stato definito in modi diversi: mito familiare, paradigma familiare, leggenda o copione familiare, rispettivamente da Ferreira (1963) e Selvini Palazzoli, Boscolo e altri (mito), Reiss (1981) (paradigma) e Byng-Hall (1988) (leggenda e copione). Anche se questi ruoli e queste attribuzioni, così come il loro modo di relazionarsi fossero falsi e illusori, vengono necessariamente ed inevitabilmente accettati e fatti propri dai membri e divengono “cosa sacra e tabù” che nessuno deve osare mettere in discussione né verbalmente né negli atteggiamenti e nei comportamenti di vita.
La cultura familiare, o storia condivisa, si è rappresa e consolidata fino a cristallizzarsi: come qualcosa di già avvenuto fuori dal tempo e quindi di immutabile, incorreggibile, non reiscrivibile. Per questo assomiglia tanto a un mito. Il mito direbbe più o meno: “Prima di tutto viene l’unità della famiglia: la famiglia d’origine”. Siamo innanzi ad una vera e propria regola familiare impossibile da trasgredire, una lente attraverso la quale si può avere una sola visione del mondo. Come ha indicato Ferreira:
Un membro individuale può sapere, e talvolta anche sa, che molto di quell’immagine è falso, qualcosa di simile alla linea politica di partito. Ma tale consapevolezza, anche quando esiste, è tenuta per sé e nascosta al punto che l’individuo, e persino quello che più soffre del mito, di fatto si opporrà con tutte le proprie forze alla sua evidenziazione, così che, rifiutando persino di riconoscerne l’esistenza, farà del suo meglio per mantenere intatto il mito familiare. Giacchè il mito spiega i comportamenti degli individui nella famiglia ma ne cela i motivi.
Il mito, conclude Ferreira:
non è un prodotto diadico, ma collettivo, o meglio è un fenomeno sistemico, pietra angolare del mantenimento dell’omeostasi del gruppo che l’ha prodotto. Esso agisce come una sorta di termostato che entra in funzione ogni volta che le relazioni familiari entrano in pericolo di rottura, disintegrazione, caos. Inoltre il mito, nel suo contenuto, rappresenta un distacco di gruppo dalla realtà, distacco che potremmo già chiamare “patologia”. Ma contemporaneamente esso costituisce, con la sua esistenza stessa, un frammento di vita, un pezzo della realtà che fronteggia e in tal modo modella anche i figli nati in esso. (Ferreira, 1963)
Se c’è un vero e proprio distacco dalla realtà, è possibile che un’intera famiglia, nella sua estensione lungo le generazioni, abbia avuto l’inevitabile necessità di sostenere narrazioni alternative a quella della “verità processuale”, non “mentendo” in senso classico, ma difendendo strenuamente a tutti i costi un mito familiare. C’era il rischio che le relazioni familiari andassero verso rottura, disintegrazione, caos?
In aderenza ai principi di Ferreira, possiamo ipotizzare che membri individuali della famiglia Franzoni e della famiglia Lorenzi potessero sapere ed aver capito perfettamente quello che era avvenuto, ma che tale consapevolezza sia stata tenuta per sé e nascosta al punto che i membri, come Anna Maria Franzoni, che più ha sofferto del mito, di fatto si sono opposti con tutte le proprie forze alla sua “emersione”, così che, rifiutando persino di riconoscere le prove più schiaccianti, abbiano fatto del loro meglio per mantenere intatto il mito familiare, costruendo una narrazione adeguata al mito stesso.
Diverse metafore sono state utilizzate in letteratura per rappresentare la famiglia, dalla piccola comunità, ad un’unità biologica e nessuna migliore delle altre. Ma un modo di vedere la famiglia che in questo caso particolare sembra essere adeguato e quello di vedere la famiglia come una cultura riprendendo l’idea di David Reiss (1981), che ha parlato della famiglia come luogo dove si costruisce una (la) realtà. Seguendo questo approccio possiamo considerare la famiglia come un insieme di storie e di miti che si trasmettono lungo le generazioni e che si vanno più o meno ad adattare, evidenziando maggiore o minore elasticità, quando vengono a contatto con la cultura dominante. Con questo approccio, meno statico e più evolutivo, nella trasmissione di storie e miti entrano anche quelle che sono le aspettative, i desideri e le necessità di ciascuna generazione. Tutti i genitori vogliono in genere lasciare un’eredità ai figli e spesso l’eredità più durevole che lasciano è la cultura che trasmettono loro. La trasmissione di storie e miti lungo le generazioni sembrerebbe essere un desiderio umano universale.
È da sottolineare un rapporto di causalità circolare tra miti e regole, tale che come i miti spesso contribuiscono a creare regole, così le regole creano i miti. Questo è un aspetto che calato nella realtà processuale di cui ci stiamo occupando, può farci ipotizzare che più la narrativa accettata dalla famiglia di Anna Maria Franzoni veniva raccontata all’interno e all’esterno (un esterno molto allargato che ha compreso anche la realtà dei mass media), più venivano create regole anche in aderenza al mondo giudiziario, più il mito si è rafforzato divenendo impenetrabile.
È bene ricordare che è troppo banale limitarsi al rapporto tra mito e regola. In letteratura infatti, è ormai assodato che il mito familiare è qualcosa di assai più complesso. David Reiss inquadra il mito in un concetto più generale:
I miti familiari non sono che uno dei molti componenti dei costrutti condivisi familiari. Tra queste esperienze coperte ma intensamente cariche sono compresi i segreti familiari vergognosi, gli assunti morali, le esperienze di padronanza o vittimizzazione in relazione al contesto sociale della famiglia, e la concezione condivisa del futuro. Io e i miei colleghi ci siamo riferiti a questa congerie di esperienze condivise ma ineffabili come al “paradigma” familiare. Ogni famiglia ha il proprio unico paradigma familiare. Ogni famiglia ha il proprio, unico paradigma, che serve da guida a molte delle sue transazioni. (Reiss, 1981)
Il “paradigma familiare” di Reiss è qualcosa di assai simile al mito (alla storia condivisa), ma viene precisato che la memoria di una famiglia è di più di una storia, ed è anche di più dell’insieme delle storie raccontate. La memoria della famiglia si rivela nella sua vita quotidiana, nei piccoli rituali che compongono la vita familiare, che le danno un senso di continuità. Per questi motivi, più una famiglia mantiene i suoi rituali, più è percepita dai suoi componenti come accogliente, funzionante, sensata.
In realtà il mito familiare non è di per sé negativo o positivo, ma la sua funzionalità dipende dai contesti coi quali entra o non entra in contatto e alla sua capacità o meno di evolversi.
Il mito familiare può avere in effetti aspetti positivi per la famiglia, può essere un fattore di coesione e durata. I miti fondativi sono indispensabili allo sviluppo di ogni cultura; allo stesso modo, lo sono per l’evolversi di una famiglia. “Mitico” però non è sinonimo di “fantastico”: il mito è, casomai, una certa versione della realtà, o una realtà letta in una certa chiave. Ogni relazione si crea i suoi miti, proprio perché ogni relazione è caratterizzata anche da vuoti e ambiguità, ossia da una parte inespressa. I miti familiari sono potenti: sono storie che la famiglia racconta di sé a sé e agli altri, sono allegorie che prescrivono ai membri di quella famiglia come devono vivere, sono anche regole che possono diventare fisse e immutabili (Andolfi e Angelo, 1987).
Quella del mito come necessariamente rigido, come era inteso inizialmente dai primi terapeuti familiari, è una visione troppo negativa del mito, come se questo fosse inevitabilmente legato a qualcosa che in qualche modo è “patologico”. Gli storici delle tradizioni orali hanno invece notato che molto spesso il mito è un potente mezzo di trasmissione di fattori positivi lungo le generazioni: nelle famiglie dei piccoli imprenditori e degli artigiani inglesi è spesso rintracciabile un antenato mitico, l’iniziatore dell’impresa, cui tutti i membri della famiglia si rifanno pur nel passare degli anni. Il problema sorge quando il mito s’intreccia a certe necessità (sentite come vitali). Lyman Wynne ha osservato che i miti nascono facilmente in famiglie con un particolare bisogno di vicinanza e di coesione. Il mito rinsalda la coesione, ma dev’essere preservato a spese delle eventuali scelte o autonomie individuali. A questo punto il mito diventa un problema; non tanto per la famiglia, quanto per alcuni dei suoi membri. Ed in questo modo potrebbe essere diventato un problema per Anna Maria Franzoni.
Dopo aver commentato il materiale processuale come la sentenza di cassazione e la perizia di primo grado, necessariamente inserite in una linearità di processo, tentiamo ora, lasciando tutta questa parte precedente alla sua coerenza interna data dai fatti e dalla documentazione, di sviluppare un’altra parte del lavoro più creativa ed immaginifica. Ci riferiamo ad una sorta di “intervista impossibile”, mutuando il termine dal famoso programma radiofonico dei primi anni settanta, in cui gli autori intervistavano personaggi celebri del passato quali Freud, Socrate, Napoleone etc.. Utilizzando il modello sistemico andremo ad ipotizzare un’intervista relazionale con la coppia Anna Maria Franzoni – Stefano Lorenzi. Naturalmente di risposte non ne conosciamo, ma possiamo provare a porre domande incrociate sui vari temi familiari, che potrebbero essere utili per far emergere informazioni mai acquisibili con la metodologia lineare. Si tratta di fare come in astrofisica, dove gli scienziati, nelle loro ricerche sul sistema solare, sanno che ci sono dei buchi da riempire in determinate zone prima ancora di scoprire da cosa siano occupati: sono le loro ipotesi che poi con strumenti adeguati prima o poi riescono a verificare.
Immagineremo una situazione nella quale il giudice ha prescritto una psicoterapia (lasciando libera scelta sull’approccio e sul/sui professionista/i). Per motivi di tempo non possiamo riprodurre l’intervista impossibile immaginata nel lavoro completo. La stessa però ci ha permesso di focalizzare l’attenzione su cosa sarebbe potuto emergere di più rispetto ad una intervista lineare, utilizzando la metodologia sistemica.
Certamente, l’opportunità di intervistare la coppia in simultanea sui vari aspetti, cosa che i periti non hanno fatto, ci avrebbe consentito come ci ha suggerito Bateson e ci viene ricordato più di recente nel libro Ricorsività in psicoterapia di Marco Bianciardi e Umberta Telfener, di assumere almeno una doppia descrizione, al fine di raggiungere profondità di campo. Si tratta di quello che vediamo con l’occhio destro e di quello che vediamo con quello sinistro e di mettere a fuoco la differenza tra due percezioni. Tali percezioni costituiscono informazioni differenti che provengono da sorgenti diverse e che ci conducono ad ottenere una visione delle cose che è diversa da una semplice somma.
Comunque, procedendo nell’analisi della nostra “intervista impossibile”, troviamo le caratteristiche del mito familiare, all’interno del quale si dividono gioie e dolori e si soffre assieme per l’insuccesso altrui così come si gioisce per i successi altrui.
Come viene evidenziato in Paradosso e controparadosso a proposito della famiglia Casanti, la regola ferrea proibisce non solo di parlare, ma anche di percepire qualsiasi gesto o comunicazione altrui come dettati da invidia, rancore o spirito di competizione. Nel caso specifico, sembra che il “sapersi sacrificare” sia un valore imprescindibile all’interno del mito familiare. Tanto fondamentale da impedire al singolo di prendere coscienza delle proprie difficoltà e delle proprie sensazioni.
Vi è quindi una sostanziale continua negazione di tutto ciò che non si adatta al mito familiare, impedendo di fatto l’evoluzione del mito e quindi l’adattamento del sistema a nuovi contesti.
Il ruolo assunto sembra aver impedito ad Anna Maria di dire apertamente che a Cogne, in una splendida casa sperduta tra le montagne, non stava bene e non si sentiva “vista”. Inoltre, quando provava ad esprimere la gravità di quanto sentiva, il suo malessere veniva prontamente ridimensionato ed attribuito ad una dimensione prettamente somatica e di poca importanza. Era tanto impensabile poter esprimere dei sentimenti verbalmente che per poter essere “vista” la donna lo comunicava col corpo, avendo dei malori, che avevano come conseguenza la possibilità di fare ritorno al suo contesto naturale presso la famiglia di origine in Monteacuto. Ma dopo brevi periodi la routine quotidiana riprendeva in un contesto, quello di Cogne, che ipotizziamo essere stato di sofferenza non esplicitata. La sofferenza aumentava e insorgevano di nuovo i malori? Si ritornava per un periodo a Monteacuto? Forse un gesto estremo poteva interrompere questo circolo vizioso senza verbalizzare la sofferenza? E nonostante la drammaticità dell’evento, colpisce che la conseguenza immediata dello stesso sia stata quella di abbandonare per sempre la casa di Cogne. E colpisce che l’eventuale negazione della commissione del delitto sarebbe espressione di una modalità consolidata di “negare i propri sentimenti ritenuti inadeguati, adeguandosi al sistema e al mito familiare”. Confessare un eventuale delitto così tremendo avrebbe mandato in frantumi non solo l’identità individuale, ma l’intero mito familiare con gravi rischi per l’identità di tutti i componenti considerata la rigidità e la scarsa propensione ad evolversi del mito stesso e quindi del sistema?
Si può inoltre ipotizzare che la continua narrazione condivisa di una versione alternativa a quanto emerso nella realtà processuale, abbia contribuito a co-creare questa realtà condivisa rendendola sempre più forte e sempre più resistente ad altre evidenze esterne.
Bibliografia
Andolfi M, Angelo C. (1987), Tempo e mito nella psicoterapia familiare, Torino, Bollati Boringhieri.
Bianciardi M., Telfener U. (2014), Ricorsività in psicoterapia: Riflessioni sulla pratica clinica, Torino, Bollati Boringhieri.
Byng-Hall J. (1998), Le trame della famiglia, Milano, Raffaello Cortina.
Ferreira A. J. (1963), “Family Mith and Homeostasis”, Archives of General Psychiatry, col.9, pp.457-63.
Propp V. J. (1966), Morfologia della fiaba, Torino, Einaudi.
Reiss D. (1981), The Family Construction of Reality, Cambridge, Mass., Harvard University Press.
Selvini Palazzoli M., Boscolo L., Cecchin G., Prata G. (1975), Paradosso e controparadosso, Milano, Raffaello Cortina.
Wynne L. C., “Communication Disorders and the Quest for Relatedness in Families of Schizophrenics”, The American Journal of Psychoanalysis, vol. 30, 1970.