di Umberta Telfener
Il 5 e il 6 dicembre 2024 a Lione, all’IFATC, Istituto membro dell’EFTA che sta organizzando con noi il Convegno EFTA-RELATES 2025, si è svolto un congresso che è diventato una battaglia tra epistemologie. Tra i contendenti l’Istituto che ci ospitava, Marcelo Ceberio, presidente di Relates, gli ospiti stranieri e lo stesso Carlos Sluzki, ospite d’onore. Alcuni allievi ed io.
Il titolo del Convegno era aperto a interpretazioni multiple: False pretese e verosimiglianze, a proposito delle verità multiple e della complessità. La sezione dove ho parlato io assieme a Marcelo Ceberio, argentino, e Yasna Badilla Briones, cilena, ci chiedeva di ragionare su Maschere e specchi, i giochi di apparenza negli incontri.
I contenuti sono stati appassionati e dibattuti. Il padrone di casa, Reynaldo Perrone, in un dialogo con Carlos Sluzki ha iniziato domandandosi cosa fosse la realtà. Personalmente ho tentato di ridefinire la questione: come terapeuti ci dobbiamo occupare piuttosto di come conosciamo. Per noi non esiste una conoscenza indipendente dal soggetto, senza inserirla nella cornice della conoscenza della conoscenza, in cui l’oggetto emerge dall’atto del conoscere.
Ho poi esplicitato i posizionamenti necessari per definirsi costruttivisti: 1. Appunto il rapporto partecipato con la conoscenza, per cui sia il cliente che il terapeuta emergono dal processo del conoscere. 2. L’attenzione ai sistemi osservanti e non solamente al sistema osservato. 3. I problemi considerati indecidibili e le situazioni indeterminabili, quindi senza una soluzione a priori. 4. Le metafore della danza e dell’incontro, del dialogo e dello scambio. 5. Il rapporto mondo, corpo e mente per una conoscenza incorpata che includa l’intuizione; 6. Il passaggio dell’attenzione dalla comunicazione alla relazione e – 7 – la perdita del ruolo di risolutori di problemi: definiamo i problemi in molti modi, nel tentativo di decostruirli. Con queste premesse né le maschere né gli specchi ci interessano particolarmente in quanto proponiamo in terapia la trasparenza e la sincerità più che una strategia finalizzata al cambiamento a ogni costo.
Carlos nel suo intervento ha parlato della teoria dei tipi logici e mi è sembrato guardasse con sospetto alla cibernetica di secondo ordine. L’ha definita una posizione post hoc, che non si può assumere a priori (assolutamente non il mio posizionamento, dal momento che la insegno con passione). Raul Medina, messicano, ha fatto un intervento interessante sull’indagine sociale che si può condurre in terapia. Lo ha definito “Terapia di terzo ordine” non proponendo un ulteriore salto epistemologico (Cibernetica di terzo ordine, che forse non è necessaria) quanto piuttosto il tentativo di affrontare il tema sociale quale sistema dei sistemi, affrontando le mitologie culturali e i condizionamenti economici (che per Bateson, che in questo caso mi sembra parli dei contenuti della conoscenza, vengono appunto al terzo livello dopo i modelli comunicativi e i ruoli, le regole e le gerarchie).
In mezzo a questa definizione sul posizionamento epistemologico ci sono stati degli interventi degni di nota. Un gruppo di studenti ha disquisito sul sorriso (“Dal sorriso alle lacrime, disvelamento di sé in terapia), facendo una vera e propria performance a più livelli: immagini, frasi e interazioni. Un altro gruppo ha presentato due punti di vista sullo stesso caso clinico (“Sguardi incrociati e realtà ricomposte”), chiedendo ai partecipanti cosa avrebbero fatto concretamente in terapia. Personalmente, rispetto al caso presentato, ho portato avanti una riflessione sul terapeuta e sulla possibilità da parte del clinico di utilizzare se stesso/a per amplificare il sintomo della paziente in modo da lasciarla libera di sperimentarsi e rafforzarsi personalmente. Gli altri si sono occupati tutti unicamente del sistema osservato.
Perché vi sto raccontando tutto questo? Perché io stessa sono rimasta stupita di come in questo incontro di formatori europei e latino americani i posizionamenti fossero molto diversi e ugualmente i successi terapeutici riportati fossero trasversali alle premesse, malgrado epistemologie e prassi così diverse tra loro.
Quali sono le caratteristiche che rendono una terapia – a qualunque modello si riferisca – efficace? L’alleanza terapeutica, le attese positive, le qualità del terapeuta, la responsabilizzazione del cliente e il quadro terapeutico, che viene per ultimo. Ce lo ha ricordato Yara Doumit-Naufal, parlando del Dodo Effect. Quindi basta crederci? Non vorrei passare questa idea, che mi sembra semplicistica e superficiale. Posso però fare un’ultima riflessione conclusiva: ogni volta che vado a un convegno all’estero, in quest’epoca in cui si presta troppa attenzione alle tecniche e alle strategie, sono felice di aver imparato bene la cornice epistemologica dentro la quale posso inserire ogni questione che mi si pone.