di Maria Puleo, ex allieva Centro Milanese di terapia della Famiglia
[Qui la prima parte del saggio]
Nella seconda parte del mio lavoro di tesi ho riportato una breve indagine esplorativa svolta durante la mia esperienza di tirocinio del quarto anno di Specializzazione con 14 membri di sei famiglie di utenti di un Servizio Dipendenze Patologiche dell’Asp Palermo, ai quali ho somministrato l’intervista Adult Attachment Interview. Le quattordici interviste somministrate le ho riportate sottoforma di storie. In ogni intervista ho cercato di cogliere la semantica ricorrente con la finalità di individuare la punteggiatura attraverso la quale ogni membro della famiglia ha narrato la propria storia di legami familiari cercando di operare una connessione storico-trigenerazionale che potesse favorire un’ipotesi coerente e plausibile che ri-connettesse la dipendenza del figlio al trauma relazionale da carenza di accudimento del tempo familiare.
L’A.A.I. seppur intervista semi-strutturata si presta a essere definita narrativa-conversativa poiché intervistatore ed intervistato si incontrano nello spazio terzo conversativo ed insieme possono individuare gli eventi più importanti della vita del nucleo familiare con una cronologia precisa dei fatti e cogliere eventuali coincidenze significative. Attraverso la costruzione di cronologie parallele è possibile cogliere le connessioni esistenti tra le evoluzioni del comportamento sintomatico e i fatti più salienti della vita familiare (Mosconi, Gonzo, Sorgato, Tirelli, Tomas 1999).
Relativamente al mio lavoro di intervistatrice ho posto l’attenzione alternativamente ai vari aspetti emersi dalle varie narrazioni rispetto al tema dell’accudimento, alle pratiche ad esso connesse e alla trasmissione trigenerazionale del trauma/carenza di accudimento nei legami familiari seguendo un andamento che va dalla prima alla terza generazione dei figli che hanno sviluppato una dipendenza patologica.
Il modo in cui le domande dell’A.A.I sono articolate richiamano il concetto sistemico di ricorsività passato-presente-futuro permettendo di cogliere in che rapporto si trovino questi tempi rispetto alla storia che emerge dal racconto di ogni membro della famiglia: un tempo fluido, confuso, condensato rigido, bloccato. Inoltre, permettono di cogliere la ripetizione di esperienze di separazione, lutti, abusi, trascuratezza emotiva, maltrattamenti ed esperienze di abbandono: il modo in cui le dimensioni del dare cure e del ricevere cure si sono declinate nelle storie familiari raccolte e il modo in cui ogni suo membro ha costruito la propria semantica in relazione ai modelli familiari interiorizzati; il modo in cui agiscono i miti familiari che hanno un’influenza sull’impossibilità di riconoscere le carenze/traumi dell’accudimento esperiti da parte del sistema familiare trigenerazionale.
Attraverso il confronto delle interviste ai membri della famiglia ho cercato di connettere la dipendenza del figlio intesa come forma teleologica prementalizzante di svincolo adolescenziale con le modalità attraverso le quali è avvenuto lo svincolo della coppia coniugale rispetto alle loro famiglie d’origine.
Dalle sei storie familiari trigenerazionali che ho ascoltato emergono narrazioni in cui sembra ripetersi il trauma della carenza di accudimento attraverso eventi quali lutti, impossibili e traumatici, abusi sessuali, trascuratezza emotiva connessa a un’educazione eccessivamente rigida, maltrattamento e violenza, aborti obbligati. La ripetizione di tali traumi sembra non essere accompagnata dal riconoscimento di tale carenza della cura facendo ricorso a meccanismi di difesa quali minimizzazioni, negazioni, idealizzazioni e svalutazioni polarizzanti che alternativamente hanno interessato i membri delle varie generazioni secondo una semantica condivisa a livello trigenerazionale. Tali processi, presenti nelle storie narrate, sembrano mantenuti e rinforzati dall’azione, in taluni casi massiccia, del mito della famiglia unita e di script familiari di cura carenti, ripetitivi rigidi che sembrano presentare una distribuzione ribaltata, a livello generazionale, dei ruoli tra chi accudisce e chi riceve le cure all’interno dei legami familiari. Tale ribaltamento sembra interessare il legame genitori-figli che vedrà i figli costretti a posizionarsi emotivamente nel ruolo di datori di cure nel tentativo fallimentare di curare ed accudire il legame genitoriale sperando di diventare un giorno destinatari di cure e di accudimenti. Bambini che nella storia trigenerazionale familiare sembrano non aver potuto interiorizzare un modello di famiglia come base sicura che comporta, in taluni casi, la lotta interna alla fratria per ricevere cure e attenzioni, la rabbia dell’invisibilità, l’atteggiamento continuamente sfidante al fine di ricevere un’attenzione che permette di mantenere un legame minacciato e minacciante. Si attivano modi di porsi nella relazione che esprimono il bisogno ripetuto e non realizzato di essere visti e confermati dall’altro significativo. In particolare in alcune storie sembra emergere un mito fondatore familiare rigido e ripetitivo di autoinganno (Byng Hall 1998), in cui ogni membro sembra mantenere un’immagine di ruolo consensuale che permette di essere confermati nel ruolo riconosciuto dalla famiglia: qualunque tentativo da parte dei membri familiari di sfidare tale mito porta chi sfida a essere messo in discussione da tutti i membri, perché vissuto come una minaccia al mantenimento del sistema familiare stesso. Sistemi familiari in cui l’azione rigida e ripetitiva del mito fondatore della “famiglia unita” storicamente stabilizzatosi a livello trigenerazionale determina un racconto familiare diverso da quello che la famiglia vive.
È quello che sembra emergere nelle storie della famiglia P. e della famiglia D. nelle quali immagini consensuali di miti familiari sembrano determinare degli stili narrativi definiti dei fantasmi del passato e del rifiuto condiviso. In particolare nella storia trigenerazionale materna della famiglia P. sembra essersi costruito il mito “onora il padre e la madre” che pare avere orientato le aspettative di accudimento connesse principalmente alla cura nella malattia da parte dei figli nei confronti dei genitori attraverso le generazioni, determinandone la scena dei copioni familiari. I membri che nella storia familiare non hanno onorato tale mito, non rispondendo alle aspettative da esso derivanti, sono stati messi ai margini, accusati di non onorare il mandato familiare. Proprio Lucia, madre di Giorgio, attuando la fuga con il marito, sfida e si ribella al mito familiare tentando di operare una scelta: un atto di protesta che la collocherà al bivio tra la scelta per se stessa e la famiglia. Un bivio che sembra collocarla all’interno di un circuito riflessivo bizzarro nell’impossibilità di posizionarsi in maniera comoda e chiara rispetto al suo sistema familiare d’origine dovendo operare una scelta tra stare dentro o stare fuori. Ferma al bivio, Lucia vuole cambiare il mito e lo script familiare dell’accudimento per accedere alla dimensione della scelta: una trasgressione per proclamare una libertà di scelta che scelta non sarà e che non avverrà così come lei lo aveva immaginato in quanto le liti, le incomprensioni, la distanza dalla sua famiglia per non aver “onorato il padre quando era malato” la pone in un nostalgico tempo del passato. Se la moglie è ferma al bivio tra la famiglia d’origine e la sua famiglia attuale il marito, Paolo, appare fermo al bivio tra i valori del passato e l’educazione che ha impartito ai figli (ritenuta fallimentare). Il figlio nell’impossibilità di saper cogliere con chiarezza i messaggi contraddittori che riceve, decide di non posizionarsi (posizione autarchica), di tirarsi fuori da questa confusiva condizione familiare scegliendo l’isolamento estremo e attribuendo a se stesso la “colpa” dell’essere schizofrenico e drogato. Una famiglia che sembra vivere nel continuo ripetersi dei fantasmi del passato, fra ciò che oggi è, la delusione per ciò che avrebbe potuto essere, ciò che andrebbe ri-significato e l’obbligo di rispondere ad un mandato del passato che diviene continuo presente ambivalente nell’impossibilità di poter operare una soluzione. Nella storia della famiglia D., invece, sembra emergere il mito familiare della famiglia unita e felice al quale sembra aderire la coppia coniugale caratterizzata da un’immagine di ruolo consensuale che determina uno stile narrativo di rifiuto condiviso familiare: uno stile narrativo in cui emerge una massiccia azione di negazione che si porrà in maniera totalmente dissonante dalla storia narrata dalla figlia Sofia. Sembra, infatti, di ritrovarsi di fronte a storie di due famiglie diverse: la famiglia unita che narrano i genitori e la famiglia narrata dalla figlia con l’immagine di una barca che sta affondando, una casa dei dispiaceri. Sofia, attraverso l’incontro con la sostanza, sembra sfidare tale mito cercando di disoccultare i legami che caratterizzano la storia della sua famiglia, ma tale azione si rivelerà disfunzionale e determinerà il mantenimento dell’occultamento della famiglia mitica a scapito di quella reale, famiglie che non sembrano incontrarsi mai.
Nelle storie che ho incontrato gli script familiari di legami di accudimento/attaccamento, espressione delle aspettative di ruoli di accudimento del dare e ricevere cure, sembrano mostrare una trama di significati che ruota intorno al modo in cui vengono sperimentate da parte dei membri della famiglia le dimensioni di vicinanza e di allontanamento all’interno del sistema familiare, evidenziando in che modo la vicinanza fra i vari membri della famiglia escluda o alimenti la relazione con gli altri familiari. In tale contesto di significato sembra che l’azione intenzionale ed intenzionante dei bambini, (conferma del loro ruolo attivo nella costruzione dei legami), sia quello di assicurarsi la vicinanza a tutti costi alle figure di accudimento, seppur accudenti non si rivelino. È in questo modo che sembra costituirsi lo script di accudimento nelle famiglie presentate: uno script che si ripete nei legami tra le generazioni in maniera rigida e ripetitiva in cui non sembra esserci spazio per l’espressione da parte dei figli della propria individualità e unicità, totalmente assorbiti dalla scena che si ripete e che sembra minacciare continuamente la rottura dei legami familiari da preservare in qualsiasi modo. I figli sperimenteranno l’impossibilità di essere confermati nei loro bisogni identitari assumendo la posizione di “essere come tu mi vuoi”, abdicando all’essere visti per quello che sono.
Nella storia della famiglia C., in cui l’invisibilità esperita dalla madre di Roberta rispetto ai propri genitori in relazione agli avvicinamenti da parte di questi al fratello, si ripeterà nella relazione fra madre e figlia nella relazione tra la seconda e la terza genitore alla nascita del fratello, destinatario di attenzioni che comporterà un vissuto di invisibilità per Roberta. Nel suo risvolto di avvicinamento genitoriale paterno e materno Roberta diventerà bersaglio: unico modo che la renderà visibile. Anche nella storia della Famiglia A., emerge uno script familiare di violenza nella linea materna che si perpetra dalla prima alla seconda generazione da parte del maschile a danno del femminile che sembra influenzare il legame che Noa, madre di Pietro, costruirà con i propri genitori e con propri nonni: un’idealizzazione sacrificante del femminile e un bisogno di essere vista e protetta dal padre che la porterà a scegliere di porsi al suo fianco nell’accudimento dei nonni paterni. Un padre che si dimostrerà incapace di dialogare con la figlia. Un triangolo primario madre-padre-figlia in cui Noa sa di essere accudita ma non “sente di esserlo (dirà più volte durante l’intervista che avrebbe voluto avere più coccole, abbracci, baci, fiabe raccontate a letto), un accudimento in cui si rivelerà assente la dimensione degli atti genitoriali veicolanti affetto. La delusione di Noa per la non protezione del padre, la porterà ad attuare una fuga con il suo principe azzurro che tale non si rivelerà: continuerà la linea della violenza che la porterà a odiare gli uomini.
Emblematica anche la storia della famiglia S., in cui Michele decide di posizionarsi alternativamente accanto alla madre disconfermante, nella speranza di essere confermato e al fratello per proteggerlo, e questo avrà come risvolto, il suo porsi in posizione sfidante nei confronti del padre carnefice spostando su di sé la sua attenzione.
Nella famiglia T., Alessia, raccogliendo lo script familiare ripetitivo del lutto traumatico e indicibile del fratello con la relativa colpa che sembra spostarsi dalla madre al figlio, si rifugerà nell’accudimento esclusivo della zia.
Dal vertice dei legami affettivo-emotivi, guardando la dimensione diadica, triadica e sistemica, nel tempo della storia trigenazionale familiare, i figli sembrano operare un continuo adattamento per assicurarsi la vicinanza, l’attenzione, la protezione, la cura, il conforto del genitore, assumendo posizioni di volta in volta diverse, nel tentativo di ricevere quella conferma del sé, necessaria alla costruzione dell’identità individuale che non li ponga nella condizione di dover operare una scelta tra l’appartenenza al Sé Familiare e l’unicità del Sé. Nelle storie narrate sembra accadere che sensi di colpa, paura dell’abbandono, perdita del genitore, adultizzazione, deviazione su di sé e rifiuti vengano ad abitare gli stati mentali emotivi dei figli che, legati alla minaccia di rottura di un legame, sono costretti a partecipare attivamente assumendo “posizioni” che possano permettere loro di controllare e tutelare i legami con i propri genitori. Un tentativo, mal riuscito, di posizionarsi adattivamente rispetto alla carenza di accudimento genitoriale e familiare che non sembra permettere ai figli di riorganizzare il loro senso di identità: un senso d’identità che diventerà figlio della paura, dell’ansia e/o dell’angoscia, del terrore di perdita e della rottura del legame con il caregiver. Ce lo racconta il mal di schiena paralizzante non ascoltato di Sofia che rappresenta un tentativo “seduttivo” di essere vista dalla madre; l’isolamento di Giorgio che nell’indecidibilità opera la sua scelta “autarchica” di non posizionarsi staccando l’interruttore del legame d’attaccamento; l’invisibilità di Roberta che con la sua sfida “punitiva “esce in minigonna per mostrare a tutti le gambe piene di lividi causate dal padre che la picchia; il posizionarsi “protettivo” di Noa affianco al padre nell’accudimento dei nonni paterni; i diversi posizionamento di Michele “protettivi” rispetto alla madre e al fratello, punitivi e sfidanti nei confronti del padre, e infine l’autarchica posizione del bastare a se stesso (mi sono cresciuto da solo!), dichiarazione di rinuncia al legame. In ognuna di queste situazioni emerge l’evoluzione disfunzionale alla quale sono soggetti i sistemi motivazionali di attaccamento del bambino a partire dai legami d’accudimento che intrattiene con il caregiver e l’attivazione massiccia dei sistemi di iperattivazione-sensoriale sotto l’azione del sistema nervoso autonomo: un modo di funzionare dei circuiti cerebrali interni che rappresentano i correlati neurofisiologici di comportamenti, di atti comunicativi e relazionali, di risonanze emotivo-affettive agenti sotto l’azione massiccia di risposte fight e frozen: un cortocircuito comunicativo tra aree cerebrali che sarà rintracciabile nelle narrazioni autobiografiche che in alcune interviste sembrano raccontare una storia caratterizzata da frammenti sensoriali emotivi, sensazioni fisiche e percettive, immagini, agiti in luogo delle emozioni . Come nella storia di violenze subite dal padre raccontata da Michele in cui, mentre narra, afferma: “mi sto sentendo ora adesso un po’ diciamo in allerta ma mentalmente più che altro cioè mi fa male proprio la testa da un pensiero […] è una percezione solo questa più che altro […] mi ha ricondotto a me, ma è più immaginazione […] avevo terrore di lui, il tremore allo stomaco […] perché ti faceva vomitare le budella”. Sono queste espressioni di memorie traumatiche che iniziano ad avere una vita propria, altra. Inoltre, in quasi tutte le storie raccolte gli intervistati raccontano della messa in atto sin da bambini di comportamenti che sembrano esprimere tali meccanismi di risposta quando si sentivano turbati: chi si isolava, chi si distraeva con la musica o leggendo un libro, chi scappava da casa, chi rubava, chi metteva in atto comportamenti autolesionistici.
Per il membro della terza generazione, l’uso di sostanze (e i suoi effetti) si inserisce a pieno titolo in questo funzionamento personale e modalità di entrare in relazione con il mondo circostante divenendo un forma di auto-terapia, un surrogato di attaccamento che risponde a una continua attivazione del sistema simpatico: il protettore dal legame d’attaccamento disfunzionale. La sostanza diverrà un sostituto del legame emotivo-affettivo, un etero-regolatore emotivo auto-curante in cui il protagonista diverrà il corpo con i suoi risvolti sensoriali emotivi, percettivi disconnessi da processi significanti e mentalizzanti. Michele racconta così il suo incontro con le sostanze: “a 7 anni ho iniziato a capire l’alcool perché c’era l’alcool di mia zia là, messo dall’altra parte dell’appartamento e mi sono inebriato con il primo cicchetto […] era di colore blu […] m’interessava il blu più che altro, non sapevo fosse alcolico […] però li è stata forse… ma… comunque… quello che ho fatto sin da piccolo è l’adrenalina, io sono un drogato di adrenalina, la amo proprio, drogato proprio […]sono cose che sono riuscito ad accantonare, che mi hanno dato la dipendenza dalla cannabis? Va bene Io ci sto bene con la cannabis (piange), meschino quel povero bambino che è in me che ha visto lo schifo senza fare niente […]. Una bella catastrofe”.
Giorgio, quando sente il distacco dai propri genitori definendola “separazione” afferma: “ho iniziato a drogarmi perché ho sentito il distacco, perché loro già lo vedevano che c’era qualche cosa che non andava in me e loro si stavano preoccupando ma allo stesso tempo allontanando… e io ho aumentato la dose”.
Sofia afferma: “L’ho provata, mi è piaciuta, e mi piaceva l’adrenalina che mi dava… e ho continuato a fare anche questa, finché dopo un giorno ho provato il crack e non ho capito più niente. Lo volevo giorno per giorno notte per notte, non dormivo perché volevo pure questa cosa, mi ha creato una dipendenza ma perché non volevo pensare […] per me in quel minuto mi faceva stare bene, mi faceva annullare da tutte le altre cose, quello era il mio mondo, avevo capito che il mio mondo era solo quello e da lì è cominciata la dipendenza… avevo 14 anni”.
Roberta dice: “iniziai a drogarmi per tappare le emozioni perché non riuscivo a superarle, quindi utilizzavo la sostanza come anestetizzante per il dolore e per la rabbia”.
Dal vertice della mentalizzazione possiamo tentare una lettura trigenerazionale dei processi non-mentalizzanti o pre-mentalizzanti che caratterizzano le famiglie presentate: le comunicazioni fight-simmetriche, le fughe-flight o le chiusure-frozen sembrano porsi come prodromi prementalizzanti che si condenseranno nella forma non mentalizzante teleologica del membro della terza generazione che, con il suo agire in luogo del sentire, cerca di operare un tentativo maldestro, che si rivelerà fallimentare, di individuazione e affermazione di sé e di disoccultamento/svelamento della trama relazionale familiare non accudente, non protettiva, non sicura. Gli sforzi mentalizzanti operati dai figli attraverso le generazioni e volti a proteggere il legame familiare seppur disfunzionale, si riveleranno fallimentari e deludenti. L’adolescenza, età in cui si fa preponderante l’esigenza di essere confermati, visti, riconosciuti nel proprio essere anche altro rispetto al familiare, sembra divenire momento di passaggio cruciale per operare uno svincolo che si rivelerà un atto di fuga per la seconda generazione e un atto teleologico per la terza generazione. Appare interessante l’andamento processuale non mentalizzante che si muove dall’atto di fuga operato dai genitori (in tutte le storie i genitori operano una fuga in giovinezza) e l’atto teleologico operato dal figlio. In particolare, la fuga dei genitori, operata in adolescenza, sembra porsi come atto prodromico pre-teleologico adolescenziale anticipante la scelta del figlio. In tutte le famiglie interviste i genitori opereranno uno svincolo adolescenziale dalla famiglia d’origine con una fuga: un atto di ribellione volto al tentativo di individuazione e ricerca della propria unicità. Tale fuga dei genitori s’inserisce nell’orizzonte delle credenze culturali-sociali del sud Italia. Conosciuta come “fuitina” rappresenta un modo per operare uno svincolo non favorito dai sistemi familiari di appartenenza. La differenza sostanziale tra l’atto operato dai genitori e l’atto operato dal figlio sembra collocarsi nei termini di accettabilità e riparabilità dell’atto agli occhi dei sistemi familiare, sociale, culturale in cui avviene: la fuitina, seppur non ufficialmente accettata, rimane un atto che può essere riparato, nelle storie raccontate è ridondante come in vari casi l’arrivo dei nipoti o l’intermediazione di un terzo si pongano come collante che riavvicina alla famiglia d’origine. La dipendenza del figlio si pone, rispetto all’orizzonte di riconoscimento familiare, culturale e sociale, al di fuori dei criteri di accettabilità. Due svincoli che differiscono in relazione alla dimensione mitica culturale familiare che porta a porre “l’atto teleologico” dei genitori dentro e dei figli fuori da tale mito.
Se la mentalizzazione è contesto-specifica possiamo affermare che nelle famiglie presentate vi è una storia di legami emotivo-affettivi in cui emergono pattern comunicativi caratterizzati da escalation simmetriche, messaggi contraddittori e non detti, silenzi disconfermanti che possono alimentare forme di ipermentalizzazione. È in tale contesto-specifico che si possono inserire gli atti teleologici del vedere per credere del membro che sviluppa la dipendenza: l’azione in luogo delle emozioni dell’autolesionismo, dei tentativi di suicido, della dipendenza. Un atto distruttivo e concreto che permetterà di fronteggiare lo stress causato dai legami non mentalizzanti sostituiti con la sostanza: surrogato di protezione di accudimento, di conforto, di cura. Tale atto del figlio, seppur operato nel doppio tentativo di svincolarsi e disoccultare il trauma dovuto alla carenza dell’accudimento che ha attraversato la famiglia a livello trigenerazionale, comporterà omeostaticamente il mantenimento dell’occultamento: sfidando il mito familiare della famiglia unita favorirà la continuazione del mito senza problemi (tranne che per la dipendenza da sostanze) e il figlio (tossicodipendente) continuerà a proteggere l’occultamento della storia dei legami familiari. Nelle narrazioni dei genitori intervistati emerge che il problema del figlio interessa e attira la loro attenzione. Nell’ipotesi familiare, il problema portato mostra l’impossibilità da parte dei genitori di connettere la storia familiare alla dipendenza del figlio, permanendo dentro l’autoinganno di un rifiuto condiviso che porrà il figlio, sfidante il mito familiare fondatore, ai margini ed escluso: il capro espiatorio di una storia che si ripete in un tempo che non si rinnova.
Bibliografia
Byng-Hall, J. (1998), Le trame della famiglia. Attaccamento sicuro e cambiamento sistemico, Raffaello Cortina editore, Milano.
Mosconi, A.; Gonzo, M.; Sorgato, R.; Tirelli, M.; Tomas, M. (1999), “Ipotesi diagnostiche e relazione terapeutica: ricorsività e coerenza nel ‘Milan Model’”, Connessioni 5, 67-96.
Van Der Kolk, B. (2015), Il Corpo Accusa il Colpo. Mente, Corpo e cervello nell’elaborazione delle memorie traumatiche, Raffaello Cortina Editore, Milano.
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