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Recensione: “Approdi e naufragi. Resistenza culturale e lavoro del lutto”

Libro di Fabrice Olivier Dubosc
Moretti e Vitali Editore, 2016
Letto da Pietro Barbetta
Rivista Connessioni 24 Ottobre 2017 6 min read

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Libro di Fabrice Olivier Dubosc
Moretti e Vitali Editore, 2016

Letto da Pietro Barbetta

Un libro denso e corposo, pieno di esempi, rimandi e legami, una storia minore, la storia dello schiavismo per come potrebbe essere raccontata dagli schiavi, che non sarebbe una storia di protesta, ma di come le tradizioni spirituali africane, ciò che chiamiamo “animismo”, si sono mantenute nei canti, nei rituali nella preghiera collettiva.  Dubosc la chiama resilienza. Io la chiamo differenza: i bianchi sanno solo protestare, hanno perduto le tradizioni, l’Africa è la terra degli antenati, dell’animale nomadico per eccellenza: l’antropo. Questo è quel che mi viene da pensare emergendo da Approdi e naufragi. Resistenza culturale e lavoro del lutto, di Fabrice Olivier Dubosc.
Ci ho messo un bel po’ a scrivere, mi sono dovuto leggere e rileggere il libro, come si fa quando si prepara un esame, come si deve fare quando si è di fronte a un testo che ha qualcosa da insegnarti. Gli intrecci narrativi corrispondono agli intrecci nomadici dei popoli africani, costretti, schiavizzati, ma che non hanno affatto perduto la soggettività. Dentro le navi, dietro la tratta, c’è la forza della spiritualità originaria, si creano sempre forme rituali fedeli all’elemento profetico, variabili nelle modalità della danza, del sacrificio, della temporalità, costanti nella credenza delle confraternite, degli antenati, degli stregoni e degli sciamani. Capaci di includere figure del cristianesimo – soprattutto nelle Americhe di colonizzazione portoghese e ispanica – e dell’islam, nel caso della colonizzazione araba dell’Africa.
Autori come Stephen Greenblatt e Tzvetan Todorov avevano posto le basi per una rilettura critica della conquista, usando i contributi e le concettualizzazioni post-coloniali, quel processo storico che ha visto la confluenza dei bianchi e dei neri nel territorio amerindi. I bianchi come usurpatori e padroni, i neri come schiavi, gli indigeni come usurpati. Neri e indigeni massacrati, violati, convertiti.
Greenblatt e Todorov descrivono gli anni della conquista, decostruendo l’inconscio della storiografia europea ufficiale, incapace di leggere, dietro la civilizzazione, la violenza e la crudeltà della colonizzazione politica e religiosa.
Dubosc descrive invece l’incontro derivato dall’importazione degli schiavi, negli anni successivi, quando le prime conquiste e razzie erano concluse. Tuttavia c’è qualcosa che accomuna l’anima selvaggia degli indigeni amerindi e le pratiche di conversione degli schiavi neri.
Eduardo Viveiros de Castro, nel capitolo “O mármore e a murta”, dell’opera, ancora non tradotta in italiano, A Inconstância da Alma Selvagem menziona un passo del gesuita António Vieira, nel Sermone dello Spirito Santo, del 1657. Il passo riguarda proprio la conversione:

Creare la statua di marmo è molto faticoso, per la durezza e resistenza della materia; ma una volta fatta non è necessario porre ancor mano al lavoro: conserva e presenta sempre la stessa forma; la statua di mirto è più facile da fare, grazie alla facilità con cui si piegano i rami, ma è necessario lavorarci sopra sempre per ricostruirla affinché si conservi. Se il giardiniere smette di assisterla, in quattro giorni esce un ramo che le attraversa gli occhi, un altro le scompone le orecchie, due che da cinque dita gliene fanno sette, ciò che poco prima era uomo, è già una confusione verde di mirto. Simile è la reazione che si ottiene tra una nazione e l’altra nella dottrina della fede (António Vieira, citato in Eduardo Viveiros de Castro).

Anche gli schiavi africani, e gli africani colonizzati in patria, sono riusciti a conservare i loro legami all’indietro (re-ligio), le loro origini, fin dall’inizio. Leggiamo questo passo dal romanzo Il crollo, di Chinua Achebe, che racconta i fallimenti spirituali del colonialismo inglese:

 

“Qual è il vostro dio?” chiese “la dea della terra, il dio del cielo, Amadiora dal fulmine, o quale altro?” …
“Tutti gli dei che tu hai nominato non sono affatto dei. Sono falsi dei, che vi dicono di uccidere i vostri compagni e di eliminare dei bambini innocenti. C’è un solo vero dio ed è padrone della terra, del cielo di voi e di me e di tutti”
“Se noi lasciamo i nostri dei e seguiamo il vostro dio” chiese un altro uomo, “chi ci proteggerà dall’ira dei nostri antenati traditi?”

Il colonialismo europeo e quello arabo, sono riusciti a imporre il proprio dominio economico e politico, ma non hanno colonizzato l’anima africana. L’africano, il nero, lo schiavo hanno mantenuto la loro integrità spirituale, che ci fa tanto più paura, quanto più sfida i nostri principi scientifici, morali e religiosi.
Se andate a Rio, racconta Dubosc, visitate Praça Tiradentes, ci trovate una chiesa dove si venera la Madonna di Lampedusa, la prima consacrazione avviene a metà Settecento, chi avrebbe detto che Lampedusa avesse a che fare con Rio de Janeiro? Si tratta di un’ironia della sorte, visto che Lampedusa è stata territorio di approdo dei fuggiaschi delle guerre civili africane.
Quella Madonna nera ha costretto i rifugiati a tornare lì? Un richiamo degli antenati deportati in Brasile?
Dubosc racconta, tra le altre, la storia del nomadismo Yoruba. Un lungo viaggio di schiavi verso le Americhe – Cuba, Brasile, Haiti, ecc. – di continue ibridazioni religiose e spirituali.
Nella teogonia Yoruba, un antenato ha testimoniato il giorno della creazione; il suo nome è Orunmila, mentre leggo Dubosc chiedo informazioni a un’operatrice culturale Yoruba, che collabora con l’équipe etnoclinica di cui sono parte. Mi spiega, nei particolari, i ruoli differenti di ogni divinità. Yoruba è un popolo, Yoruba è una lingua, Yoruba è un’area geografica della Nigeria. Molte schiave contemporanee, vittime della tratta della prostituzione, sono Yoruba. Parlano yoruba, parlano pidgin, parlano inglese, imparano l’italiano usando i verbi all’infinito e un indicatore deittico di tempo: “Io ieri sognare un uomo con due bambini che dice loro: ‘lei sister’. Loro madre morire tanti anni fa, tu ora fare loro crescere. Oggi incontrare amica che dice: ‘Io trovare lavoro ieri! Come si dice qui, baby sitter! Io come Giuseppe!”
In Brasile, nel rito della Santeria, Orunmila diventa San Francesco di Assisi. Accanto a San Francesco un altro santo è San Benedito, cuoco, santo francescano nero. Il santo che cantano gli Inti-Illimani, intraducibile in italiano:

Hay un lorito con su monito
es un regalo de San Benito
para la fiesta de los negritos.

Vudù, Candomble, Santeria, Macumba, Umbanda, Congada sono differenti rituali e differenti danze che condividono una dimensione profetica, esoterica, piena di feticci protettivi e distruttivi. È storia sotterranea, ha attraversato l’oceano e mischia differenti credenze. Né la colonizzazione europea, né la colonizzazione araba – con il loro monoteismo dogmatico – sono riuscite a debellare questo culto degli antenati, che non possiede una teologia, altrimenti la fede sarebbe marmorea, né la credenza in un Dio unico, se non come collettore di altre divinità minori, di angeli, di spiriti e di santi.
Questa serie di trasformazioni avviene nel tempo, durante i viaggi tra gli oceani. Si creano piccole differenze che mantengono l’unità di fondo, unità multipla, serie infinite di racconti. Qualcuno lo chiama sincretismo, qualcuno politeismo, qualcuno superstizione, qualcuno mito. Ma quando usa “mito” non intende la tradizione europea del Mythos nella Poetica di Aristotele. Ebbene, si sbaglia, perché è proprio lì che le nostre origini si accomunano con l’Africa. Non c’è racconto che non mi evochi la guerra di Troia, le astuzie di Ulisse, le vicende di Giona, le proteste di Giobbe e i tradimenti di Aiace, la melanconia, per come la descrive Aristotele, la nostalgia di Johannes Hofer, il rimorso della terra di Puglia.
Gli schiavi deportati sono come i nuovi richiedenti asilo. Respinti, dopo essere sopravvissuti alle torture libiche, alla strage degli scafisti e alle derive dei gommoni, dopo avere atteso per mesi, ospiti delle comunità di accoglienza, vengono scortati al confine della democratica Europa perché non hanno sufficienti ragioni per chiedere asilo. Schiavi deportati e richiedenti asilo sono un tutt’uno, è una coazione a ripetere. Dimostra che la buona volontà e la consapevolezza occidentale non basta, anzi guasta. Pure loro continuano a essere fedeli agli antenati, non possono scatenare la loro furia tradendoli. Sono gli stessi nostri antenati: homo sapiens-demens.

 

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