di Andrea Mosconi e Igino Bozzetto
“Il più importante cambiamento in me come terapeuta
è stato la scoperta del potere delle emozioni.
L’ho imparato dalla terapia in due o tre casi in cui
>ho maturato l’idea che l’insight non è poi così importante
ma che le emozioni sono la via maestra del cambiamento”.
Luigi Boscolo, comunicazione personale del 2008
Questo articolo nasce da una conversazione a due sul ruolo delle emozioni in terapia, inizialmente con lo scopo di creare del materiale didattico da utilizzare con gli allievi della scuola di specializzazione per facilitarli nell’apprendimento della costruzione dell’ipotesi e della manualizzazione del processo terapeutico. I feedback ricevuti dagli allievi ci hanno sollecitato a riordinare le idee e a estenderle ad altri interessati all’argomento. Abbiamo mantenuto il formato del dialogo a due voci (si potrebbe dire un metalogo) perché ci è sembrato snello e chiaro.
Bozzetto: le tre linee-guida, Ipotizzazione, Circolarità e Neutralità, ben delineate e descritte dall’équipe milanese (Selvini Palazzoli, Boscolo, Cecchin & Prata) nell’articolo del 1980, hanno avuto nel tempo diversi destini nonostante fossero e siano tuttora caratterizzate da una forte embricazione tra di loro. La circolarità, intesa come la capacità del terapeuta di basarsi sulle retroazioni della famiglia, fonda la sua attuale validità nella premessa batesoniana del pensare in termini di rapporti che producono differenze che danno informazioni e la sua applicazione è rimasta fondamentalmente invariata: i terapeuti fanno domande sulle relazioni tra i membri e si interessano non solo della pragmatica, ma anche della semantica e degli stati emotivi. La neutralità, posizione relazionale privilegiata del terapeuta, individuata per proteggere l’intervento da rischi di schieramenti e sabotaggi, ha subìto modificazioni profonde sollecitate dal confronto con altri paradigmi. In particolare, la cibernetica di second’ordine e il sociocostruzionismo hanno permesso di focalizzare l’attenzione sull’osservatore/terapeuta pensandolo “curioso” (Cecchin,1987), “multiparziale”, come lo descriveva Boscolo in una comunicazione personale del 1989 e “non esperto” (Anderson e Goolishian, 1992). L’ipotizzazione rimane un principio fondamentale e insostituibile nello svolgimento del colloquio e tiene conto di tutte le informazioni che emergono nelle interazioni: il problema vissuto, i contenuti e le modalità comunicative, le tipologie dei conflitti sia relazionali che intrapsichici.
Con l’avvento della cibernetica di second’ordine è arrivato anche il permesso di aprire la scatola nera per cercare di capire cosa succede all’individuo/osservatore rendendo necessaria l’attenzione anche alle emozioni degli attori del processo terapeutico (terapeuti e pazienti).
Nel 1989 si tenne al Palazzo delle Stelline a Milano uno dei primi convegni della SIRTS intitolato “Emozioni, soggetto e sistema”, in cui per la prima volta coraggiosamente ci si permetteva di guardare cosa succedeva all’interno dell’individuo. Alla tavola rotonda gestita da Valeria Ugazio parteciparono Boscolo, Cecchin, Andolfi, Selvini Palazzoli e Vella, i quali sottolinearono l’utilità di incominciare a tenere in considerazione nel processo terapeutico le emozioni non solo dei clienti, ma anche del terapeuta.
Ritengo che un momento molto importante nell’evoluzione del concetto sia stato il passaggio dalla retorica del controllo secondo cui le emozioni disturbano la conoscenza, sono pre-sociali, sono/devono essere regolate dalla ragione/razionalità e vanno interpretate non come cause di azioni future, ma come rivelatrici di azioni già in atto, all’autoconsapevolezza emozionale. Le emozioni sono strumenti fondamentali per conoscere il mondo di cui facciamo parte, sono fatti sociali e culturali, informazioni riguardanti modelli di comportamento più o meno profondamente interiorizzati (gli habits di Bateson) che stiamo attivando perché ritenuti i più adeguati ad una percezione largamente inconscia e data per scontata di un ambiente.
Già Bateson (1976) in Verso un’ecologia della mente affermava: “È il tentativo di separare l’intelletto dall’emozione che è mostruoso, e secondo me è altrettanto mostruoso (e pericoloso) tentare di separare la mente esterna da quella interna, o la mente dal corpo”.
A tal proposito mi sono venute in aiuto alcune idee di Laura Fruggeri raccolte nell’articolo del 1992 dal titolo “Le emozioni del terapeuta nel contesto dell’auto-osservazione della sua attività” in cui afferma che l’utilizzo del concetto di controtransfert in terapia familiare si è sviluppato in due direzioni: in una l’auto-osservazione viene vista in termini di controllo, nell’altra le emozioni sono intese come indicatori dei processi relazionali.
Nella prima direzione il terapeuta rivive nella terapia con la famiglia alcune tensioni sperimentate nella propria attivando emozioni che possono essere un ostacolo allo svolgimento corretto della terapia e pertanto vanno controllate attraverso l’analisi delle storie vissute nella propria famiglia. L’auto-osservazione viene intesa con questa lente come uno specchio: il controtransfert è l’insieme delle risposte emotive del terapeuta nella situazione di terapia come riflesso delle azioni e dei sentimenti dell’intera famiglia o di qualcuno dei suoi membri. Il terapeuta, quindi, deve osservare sé stesso per capire l’altro nei panni di uno scienziato neutrale e oggettivo che non prova emozioni ed è un semplice ricettore delle emozioni altrui. Mara Selvini Palazzoli racconta all’interno del convegno sopra citato, una supervisione fatta ad Anna Maria Sorrentino mentre era impegnata in una terapia con una famiglia in cui la figlia psicotica era triangolata nello stallo dei genitori. In base alla considerazione che il terapeuta sia un emittente di segnali emotivi, aveva osservato che la Sorrentino aveva reagito emotivamente ai corteggiamenti raffinati del padre e alla chiusura relazionale della madre come probabilmente aveva fatto la figlia la quale era entrata in confusione sviluppando prima un disturbo anoressico, poi bulimico e infine psicotico.
La seconda direzione indica che le emozioni sono indicatori dei processi relazionali: se riteniamo che il terapeuta partecipa al processo di costruzione interpersonale che ha luogo nel corso della terapia e che le emozioni sono collocate nell’ambito della relazione, cioè che sono tutt’uno con la relazione e costituiscono anzi la prima forma di attivazione nella relazione stessa, allora possiamo pensare che esiste un’interdipendenza tra il sistema cognitivo, quello emotivo e quello comportamentale per cui le emozioni possono essere considerate forme di disposizione all’azione elicitate da particolari sistemi di valutazione. Le emozioni, pertanto, hanno una natura sociale: si generano da processi di interazione che la persona intrattiene con l’ambiente sociale, non sono né una reazione ad uno stimolo esterno, né un riflesso delle emozioni altrui, né proiezioni di istanze fantasmatiche. Le emozioni del terapeuta sono indicatori del modo in cui egli partecipa attraverso le sue mappe, sistemi di credenze e di significato alla costruzione della relazione terapeutica.
Detto ciò, le domande che vorrei porti e sulle quali sono curioso di sentire la tua posizione sono sostanzialmente queste:
- Da dove viene l’idea che le emozioni sono indicatori di una relazione?
- Come possiamo utilizzare le emozioni?
- Come le possiamo collocare nell’ambito del processo terapeutico?
- In che relazione stanno col processo di auto-osservazione del terapeuta?
- Come si inseriscono all’interno della struttura che connette da te chiamata il Quadrilatero Sistemico?
Ho scelto di porti queste domande perché tu in questa fase di evoluzione del pensiero sistemico stai consolidando un modello di intervento integrativo a proposito del quale ho recuperato una buona definizione data da Boscolo e Bertrando (1996), nel libro “Terapia sistemica individuale”, in cui appunto si afferma che il concetto di integrazione in terapia è la capacità di avvalersi di un modello teorico ben sperimentato in cui ci si trovi a proprio agio e che abbia dato risultati soddisfacenti da affiancare, in particolari momenti, come per esempio nelle situazioni di impasse terapeutica, ad altri modelli che possano offrire una visione diversa della situazione e delle modalità atte a risolverla. Io penso che lo sforzo che stai facendo tu è un po’ rappresentato da questa definizione.
Mosconi: Vedo una piccola, ma a mio avviso importante, differenza sul concetto di integrazione tra me e quanto affermano Boscolo e Bertrando. A mio avviso questa definizione non è sufficiente perché, nella concezione di quello che ho chiamato “modello sistemico integrativo”, l’integrazione c’è quando in un sistema c’è una relazione davvero complementare tra gli elementi che lo compongono. Due tipologie di interventi si integrano davvero se sono in relazione complementare tra loro. Ciò significa che devo sapere utilizzare dentro la cornice del tipo di psicoterapia che attuo nuovi interventi che si aggancino in maniera complementare al mio modello per meglio svilupparne una parte. Un buon punto di partenza è avere una concezione unitaria di ciò che genera sofferenza psichica. Questo oggi è reso possibile dalla moderna teoria del trauma che ha rivelato in modo inequivocabile i danni cerebrali dei traumi relazionali. Tutte le teorie della mente che supportano le varie psicoterapie condividono l’ipotesi che si arriva a stare male quando in qualche modo si vivono dei traumi, quando cioè, come diceva Cecchin, “le cose vanno male” nella circolarità del bisogno reciproco di sentirsi “confermati”, “visti” dagli altri (Peruzzi, 2005). I traumi relazionali, pertanto, sono la fonte della destabilizzazione del nostro Sé. Per noi sistemici i traumi per eccellenza sono il doppio legame e le disconferme, per la teoria di Bowlby sono le varie tipologie di attaccamento insicuro, per la psicoanalisi è la non risoluzione del conflitto edipico. Insomma, quando si arriva a stare male vuol dire che qualcosa, appunto, è andato male nelle relazioni tra noi e le persone significative per noi. La psicoterapia è, quindi, sempre un percorso di elaborazione dei traumi vissuti. Le Neuroscienze hanno ormai dimostrato che le esperienze traumatiche codificate come memorie episodiche a livello della Amigdala non sono più indelebili e per sempre, come si ipotizzava fino alla fine del secolo scorso, ma sono elaborabili a patto che l’esperienza venga richiamata con tutto il suo corredo emozionale (Ecker et al., 2012). Le Neuroscienze segnalano che questo è il meccanismo del cambiamento cerebrale delle memorie traumatiche e lo chiamano: Deconsolidamento e Riconsolidamento delle memorie traumatiche. Questo permette il rimettersi in moto della plasticità cerebrale. E qui, come vedi, torna a farsi prepotentemente presente il ruolo delle emozioni in psicoterapia. Se tutte le psicoterapie devono occuparsi di “quando le cose vanno male” e le memorie episodiche di questi eventi restano inelaborati fino a quando non vengano richiamati con tutto il loro corredo emozionale, allora una psicoterapia che non evochi le emozioni correlate alle esperienze più traumatiche non è efficace. Capire bene questo passaggio richiede, ancora, una piccola spiegazione. Abbiamo detto che ogni problema è la conseguenza dell’avere vissuto esperienze traumatiche che, come detto più sopra, vengono trattenute a livello della Amigdala come memorie episodiche. Ora bisogna tenere presente che la sofferenza e lo stato di allarme indotti da tali situazioni possono avere attivato, come modalità difensiva, un certo grado di dissociazione dentro la mente della persona. Molto spesso la difficoltà di collegare ed elaborare quanto emerso nella costruzione dell’ipotesi sistemica può derivare proprio da questa dissociazione. Questo è osservabile soprattutto quando vi sono sintomatologie ego-distoniche, o di elevata angoscia, o forti disorganizzazioni emozionali del paziente o, ancora, nelle somatizzazioni, ma un certo grado di cecità è sempre presente e se non ci fosse probabilmente la persona non avrebbe problemi. È, quindi, importante sottolineare che quasi sempre il cliente non ricorda più queste situazioni, non le ha mentalizzate o addirittura ha paura di prenderle in considerazione ed è, quindi, un passaggio importantissimo il mostrargli questi collegamenti da lui non previsti. È un vero “allargamento del suo campo di coscienza” che si attua in quella che chiamo la fase “D” del processo terapeutico (Mosconi et al., 1996, Mosconi e Trotta, 2022). Quindi quando conduco una psicoterapia sistemica per prima cosa ovviamente co-costruisco con il cliente l’ipotesi sistemica. Essa ci deve portare a collegare tre aspetti: 1) il problema portato, 2) l’idea negativa di Sé ed il suo Pattern Relazionale Prevalente (PRP)(Mosconi, 2014) che hanno favorito l’insorgenza del problema, 3) “come lo ha imparato”, vale a dire la funzione che ha avuto nel suo sistema e le situazioni critiche (traumatiche) che lo hanno favorito nell’assumerla. Lavoro, quindi, con la persona su quell’ipotesi, lo aiuto a collegare le aree traumatiche vissute (punto 3) con il problema che mi porta ed a richiamarle ed è qui che avviene lo sblocco emozionale (deconsolidamento). Focalizzare tutto questo permette, allora, il passaggio al cambiamento. Esso, come sappiamo, si fonda sull’utilizzo di un insieme di tecniche che ruotano attorno alla domanda: “quale nuova idea di sé vorrebbe avere e quale nuove scelte vorrebbe fare per scrivere una storia del futuro differente da quella del passato”. Normalmente questo tipo di elaborazione è sufficiente. Se, tuttavia, vedo che con le suddette tecniche conversazionali sistemiche è difficile attivare un cambiamento è allora che penso all’integrazione con altre tecniche atte a favorire la rievocazione di queste esperienze traumatiche, troppo dissociate e lo sblocco emozionale. È in questi casi che, come detto, aggiungo altre modalità che mi permettano di accedere al materiale traumatico ed alle emozioni correlate (deconsolidamento) saltando l’interazione conversazionale ed aumentino la capacità della persona di focalizzarsi nell’ascolto di Sé. Le tecniche che abitualmente integro sono: 1) tecniche esperienziali: perché attivano corpo e mente insieme, 2) EMDR, perché è una modalità che facilita l’accesso ai ricordi ed alle memorie associate, 3) l’ipnosi che pure by-passa il controllo razionale ed aumenta la focalizzazione verso l’interno (Mosconi, 2015). E qui tocchiamo un altro punto di quelli che mi hai richiesto: il collegamento di tutto questo con il Quadrilatero Sistemico (Mosconi et al., 2013). Come sai questo costrutto ha ai suoi angoli i quattro livelli dell’interazione umana esplorati dall’ottica sistemica: 1) Narrazione (problema vissuto), 2) Persona (idea di Sé, PRP), 3) Comunicazione (incongruenze comunicative del sistema), 4) Relazioni (storia che le ha permesse). Sostanzialmente l’azione che ho descritto più sopra permette di passare dal lato destro del Quadrilatero (i livelli 3 e 4, cioè gli aspetti relazionali della comunicazione e delle relazioni) a quello sinistro (livello 2, cioè la persona ed il conflitto intrapsichico). Dopodiché il materiale emerso dalle esperienze vissute lo reintegro nell’ipotesi. Questa per me è integrazione. L’integrazione così come la leggono Boscolo e Bertrando è basata sul principio della multi-ipotesi. La teoria generale costruttivista è un po’ diversa dalla mia convinzione: per me c’è l’ipotesi più plausibile su cui nonostante tutto vado avanti, non ci sono ottomila ipotesi, bisogna trovare quella più plausibile su cui lavorare. Invece loro valorizzano le multi-ipotesi. L’idea che ogni tanto si possa usare l’ipotesi analitica e ogni tanto quella costruttivista, a mio avviso, non funziona e rischia di creare confusione mancando dei criteri di scelta che rispondano ad un criterio clinico. L’integrazione deve essere armoniosa e complementare per poter creare dei circuiti riflessivi e armonici, non bizzarri, tra l’ipotesi su cui sto lavorando e gli strumenti che utilizzo e, soprattutto, seguire criteri clinici il più possibile plausibili.
Bozzetto: Con questa premessa che adesso hai chiarito più nitidamente, vorrei affrontare con te le considerazioni che nel tempo hai fatto, e fai tuttora, a proposito delle emozioni e in modo particolare del loro utilizzo nel processo terapeutico.
Mosconi: Hai citato una serie di terapeuti e alcune loro idee a proposito del ruolo delle emozioni nel processo terapeutico. Parto da quello che dice Fruggeri (1992) sempre ricollegandomi a quanto detto. Sono d’accordo con Lei: le emozioni sono parte del processo interattivo in corso e si creano al suo interno. Le emozioni non sono solo dentro di me, sono attivate dall’altro; non sono neanche in quel che lui fa, ma sono nell’interazione tra le mie memorie autobiografiche e i suoi pattern. Gli altri paradigmi attengono ad altri modelli di mente e pertanto della relazione e, quindi, si pongono ad un altro livello logico. Se io dico: “Quello che osservo in te è una proiezione dei miei conflitti inconsci”, non sto facendo una lettura sbagliata, ma la sto facendo ad un livello logico in cui i miei apprendimenti precedenti fungono da mappa interna con cui interpreto il mondo, quindi faccio un’interpretazione centrata sul mio funzionamento interno e non sulla relazione. Allo stesso modo se dico: “Quello che tu fai nel mondo è in relazione con i tuoi modelli operativi interni che vengono dalle esperienze traumatiche”, di nuovo non è una lettura sbagliata ma si pone, ancora, come lettura del Sé. Nel mio lavoro sulle Identità Sistemiche (Mosconi, 2014) che parla dei vari livelli del Sé, affermo, chiaramente, che il livello relativo al Sé nel funzionamento relazionale è un livello meta a tutti gli altri nel senso che è il massimo livello di output che la mente fa, il livello dell’idea di me e dei miei Modelli Operativi Interni (MOI) del Cognitivismo (Liotti, 1994) sta un po’ più sotto, il livello dei Meccanismi di Difesa dell’Io della psicoanalisi (Freud, 1917-1923), è ancora più sotto e ancor più sotto c’è il livello dei meccanismi di base che organizzano la Narrazione. Per maggiore chiarezza sintetizzo questi concetti nella Figura 1.
Ci tengo a precisare che, come si può vedere, “sotto” non vuol dire che sono “meno validi o importanti”, e neppure che sono in contraddizione tra di loro ma si pongono, solamente, a livelli logici di descrizione differenti più o meno “meta”. Per cui ribadirei che per noi sistemici le emozioni sono in generale indicatori dell’interazione in corso. Quindi le emozioni del terapeuta sono attivate dall’interazione tra il terapeuta ed il sistema in terapia, individuo o famiglia che sia. Infatti, potremmo considerare tre livelli delle emozioni attivate in terapia: 1) le emozioni che vengono attivate nel terapeuta dai comportamenti del/dei cliente/i, 2) emozioni che accompagnano i comportamenti del/i cliente/i e che segnalano il suo/loro modo di definirsi nella situazione, 3) emozioni che correlate alle esperienze traumatiche che si rievocano. Prendiamo ad esempio una situazione il cui un terapeuta si trovi a dover lavorare con due genitori di cui uno squalifica e un figlio che si mostra oppositivo e l’altro genitore alzi gli occhi al cielo. Al punto 1) il terapeuta si troverà ad avere a che fare con la difficoltà di essere neutrale e se nella sua storia vi erano situazioni analoghe tale difficoltà sarà ancora più grande. Egli deve quindi essere in grado di leggere le proprie emozioni e risonanze per collegare tutto ciò a quanto sta avvenendo nel sistema e mantenere la propria curiosità e equivicinanza. Al punto 2), tuttavia, i clienti gli stanno mostrando le emozioni che accompagnano la loro attuale definizione di relazione reciproca e, quindi, sono informative di essa. Al punto 3) il terapeuta dovrà fare il passaggio più difficile per lui e per i clienti. Dovrà, cioè, decostruire tale situazione fino a rievocare le esperienze traumatiche correlate alle relative emozioni che hanno attivato il gioco relazionale in atto. E queste come detto non sono sempre di facile raggiungimento. Le emozioni in terapia vanno quindi, a mio avviso, sottoposte ad alcune domande sul versante personale e sul versante del sistema.
Versante personale: 1) questa emozione che sento da quale pattern o comportamento del sistema è attivata? 2) quali parti della mia storia vengono attivate da quanto avviene? 3) cosa mi fanno capire della mia storia? 4) quanto avviene mi ricorda qualcosa? 5) può essere che le emozioni che sento le stia sentendo qualcun altro nel sistema? 6) può essere che le emozioni che sento mi ricordino esperienze che anche loro hanno fatto o stanno facendo?
Versante del sistema (individuo/coppia/famiglia/ecc…): 1) quanto osservo e le emozioni che vedo cosa mi dicono relativamente a come la persona si definisce nella relazione con gli altri? 2) quale pattern del gioco del sistema mi permettono di ipotizzare? 3) quali eventi possono averle favorite? 4) quali altre emozioni vi possono essere sottese? 5) è opportuno un approfondimento per evidenziare le esperienze traumatiche e le emozioni loro correlate?
Domande di questo tipo possono permettere una comprensione ed un utilizzo delle emozioni a tutto campo.
Bozzetto. A partire dalla condivisione di questa idea, cosa puoi dire sull’evoluzione storica dell’interesse sul tema delle emozioni in terapia?
Mosconi. Inizialmente sono state interpretate per come venivano giocate nel sistema (cibernetica di primo ordine) e come parte di pattern che contribuivano ai modi di definirsi delle relazioni; rientravano nell’ambito dei messaggi non verbali intesi come componenti della comunicazione che influenzavano l’aspetto paraverbale, prossemico etc., che qualificava la relazione. Per cui, se vedevo che la mamma parlava e il papà chinava la testa come se fosse assonnato o disinteressato, era chiaro che si stava attivando un’emozione di disgusto. Se penso ad un video che Boscolo spesso mostrava in cui il papà parla della propria famiglia di origine e la mamma fa la bocca storta, è chiaro che lei sta provando un’emozione di disgusto, che il terapeuta osserva ed ipotizza come rapporto simmetrico tra papà e mamma. L’osservazione del comportamento e dell’emozione viene interpretata com e parte dell’interazione in corso. In quella fase il terapeuta, occupato a interpretare il sistema, non usava le proprie emozioni per interpretarlo, interpretava le emozioni come indicatori dei processi interattivi in corso. Ora siamo nella fase successiva che prevede la messa in discussione di poter capire oggettivamente il sistema e l’affermazione che si possono fare solo descrizioni del sistema. E, quindi, le proprie emozioni vengono considerate come fonte di informazioni ulteriori e tutto campo: per il terapeuta e per il sistema, come detto più sopra.
Bozzetto. Ti riferisci pertanto alla teoria dell’osservatore introdotta dalla cibernetica di second’ordine. Mi è sempre piaciuta la versione che ne dà Giuseppe Mantovani (1998) quando afferma che “…il costruzionismo respinge come residuo positivistico l’idea che l’oggetto sia un dato che preesiste alla relazione sociale…[In questa prospettiva] non esiste un accesso immediato all’oggetto; tutta l’esperienza è bio-culturalmente mediata”.
Mosconi. Mi sento di aggiungere che dentro la teoria dell’osservatore, anche se probabilmente il mio punto di osservazione può condizionare ciò che vedo, devo includere anche cosa vive l’osservatore stesso nell’osservare ciò che vede, come detto più sopra. Allora anche le emozioni del terapeuta diventano indicatori del processo interattivo in corso. Infatti, nel secondo dei due schemi relativi ai pilastri necessari per la costruzione dell’ipotesi (Mosconi e Tirelli, 1997) aggiungo anche le emozioni come fonte possibile di informazioni. Ecco che il terapeuta può includere le proprie emozioni per generare nuove domande da fare al/ai cliente/i, usando una “self disclosure” in modo terapeutico: “Quello che avete fatto mi ha fatto sentire…. C’è qualcun altro nel sistema che si è sentito allo stesso modo?”. Oppure: “Quello che avete fatto mi ha fatto sentire… e se ci penso bene è anche perché io stesso ho vissuto…Quando ho sentito papà che diceva…ho sentito una stretta allo stomaco dettata dal fatto che ho visto il papà aggressivo e la mamma che ne soffriva, e mi sono detto chissà…C’è qualcun altro che l’ha vista questa cosa?”. Cioè aggiungo la mia emozione come porta d’entrata, collegandola a ciò che penso che me l’attiva e la restituisco alla famiglia come occasione per lavorare sull’ipotesi. Con questo esempio ti sto dicendo contemporaneamente due cose: la prima è la considerazione che ritengo anche le mie emozioni una parte dell’interazione in corso, e la seconda è la convinzione che però quelle emozioni che si producono nell’interazione in corso le devo collegare a tutti due gli aspetti citati più sopra: da una parte al gioco famigliare che ho davanti che me le attiva e dall’altra alle eventuali parti della mia storia che vengono riattivate. Con queste premesse posso complessificare l’intervento dicendo: “Ho visto… e mi sono ricordato di… per cui mi sono chiesto… Ma questa cosa la sento io perché assomiglia a una scena che vedevo a casa mia oppure c’è qualcun’altro che la vive nel sistema?”. Allora l’intervento diventa più integrato, vedo un’emozione come un indicatore di qualcosa che non mi va, la collego ai fatti che me la generano e ai fatti della mia storia che ci assomigliano e la restituisco in un tutto integrato al sistema. Ti sto dicendo come, in tempo reale, posso usare le mie emozioni anche in terapia se le leggo come parte dell’interazione in corso e le collego a ciò che me le attiva. Le relativizzo, cioè, a ciò che può avermi reso sensibile a quei pattern nella mia storia e lo restituisco. Questo è il motivo per cui lavoriamo con il genogramma degli allievi. In questo lavoro la domanda di chiusura sulla propria famiglia è: “Quali sono per te i pazienti difficili e a chi assomigliano nella tua storia?”, perché bisogna saperlo quali sono i pazienti difficili e spiegarselo, almeno per essere consapevoli che c’è una parte di persone che ci mettono più alla prova su certe aree emozionali e del nostro Sé. Le neuroscienze ci offrono le premesse teoriche che spiegano tutto ciò che ti sto descrivendo perché dimostrano chiaramente che i neuroni specchio, che sono tra l’altro particolarmente densi nell’area del linguaggio, si collegano direttamente ai livelli sottostanti del talamo che è quella parte del sistema nervoso che contiene i sistemi motivazionali a base innata e si occupa della gestione delle emozioni, il quale poi si collegherà, a sua volta, a tutto il sistema simpatico e parasimpatico per cui si avranno tutte le attivazioni globali del sistema corpo che chiamiamo emozioni (Pagani e Carletto, 2019). Dal punto di vista neurofisiologico le emozioni sono delle attivazioni globali del sistema corpo che rispondono a come il sistema nervoso valuta i messaggi in accesso. La prima valutazione concerne il quanto sono pericolosi o non pericolosi per la sopravvivenza di quell’essere vivente. Se saranno valutati pericolosi si attiverà il sistema di allarme e le sue risposte di “fight-flight-freezing”. Un digrignare di denti o un urlo che sia fatto da un cane o da mio padre significa pericolo. Per cui il sistema motivazionale a base innata mi fa giudicare come pericolosi per la mia sopravvivenza quei messaggi di mio padre o mia madre che sono particolarmente aggressivi verso il mio Sé. Se una persona entra all’improvviso nella mia “bolla vitale” con fare minaccioso o non amichevole, è percepita come un pericolo e questo è perché c’è un sistema neuronale selezionatosi nell’evoluzione al punto da essere ormai innato (Liotti, 1994). Questo mi fa reagire così. Nell’evento ci sarà un certo numero di input che sono già pre-interpretati dal sistema in un certo modo e degli altri che comincio a interpretare in base alle conferme e disconferme ricevute fin dalla nascita ed io accumulo una mappa sempre crescente attraverso i neuroni specchio. È sensazionale come tutto ciò è molto vicino ai livelli logici dell’apprendimento di Bateson. A quel punto gli schemi emozionali attivati a seconda delle mappe interne che ho costruito nell’esperienza diventano disponibili per l’interpretazione dell’input in ingresso. Aggiungo un altro importante aspetto. Noi sappiamo che al centro dei meccanismi di cambiamento cerebrale c’è l’epigenetica: dato un corredo cromosomico a seconda che le cellule vengano sottoposte a degli input, i loro cromosomi possono modificarsi ed escludere una parte di geni, per cui uno stesso corredo genetico può produrre funzionamenti differenti. Questo è il modo con cui si differenziano le cellule dell’organismo producendo tessuti diversi: non cambia il corredo cromosomico, ma la sua espressione genica. Il sistema nervoso, che non è diverso da tutti gli altri tessuti da questo punto di vista, è sempre stato pensato come stabile mentre è uno dei sistemi più in cambiamento, per cui i neuroni, sulla base degli input emozionali che vengono dai sistemi motivazionali a base innata, mutano in base alle quantità di mediatori che vengono liberati, cambiando quindi la loro epigenetica. Così si creano gli schemi di interazione tra i neuroni. E tutto questo perché? Perché l’essere vivente deve sopravvivere nell’ambiente. Quindi cogito ergo computo, penso per calcolare come sopravvivere come diceva Morin (1980). Prima di tutto devo conservare la memoria degli stimoli sgradevoli e traumatici: l’Amigdala ha questa funzione. Il neuroscienziato Marco Pagani ha spiegato qual è il meccanismo con cui gli input traumatici si fissano. Le reti neuronali dell’Amigdala che memorizzano gli episodi traumatici restano paralizzate in una condizione di iper-attivazione, per cui all’arrivo di uno stimolo assomigliante a qualche episodio traumatico così memorizzato partirà una reazione difensiva. Il tutto per poter scappare dal pericolo (Pagani e Carletto, 2019). Quindi ormai siamo arrivati a definire il meccanismo cellulare di attivazione di un’emozione, non abbiamo più bisogno di tanti ragionamenti di altro tipo. Fortunatamente, come detto, abbiamo visto che, se l’esperienza traumatica viene rievocata con tutto il suo corredo emozionale, il cervello ha la capacità di riportarla nell’ippocampo, sbloccare le sinapsi di quella rete neuronale iperpolarizzata e fare un’operazione riassociativa con altre reti neuronali differenti. In questo modo viene a cambiare l’epigenetica del neurone. Se la nuova rete è un’emozione positiva quella esperienza cambia di significato (Ecker et al., 2012,). Questo è quello che chiamiamo in terapia in tanti modi differenti: ridefinizione, reframe, ristrutturazione, ri-narrazione, ma il meccanismo è il deconsolidamento e riconsolidamento delle memorie traumatiche. Nel ’96 scrivevo nell’articolo dedicato al processo in 5 stadi della conversazione terapeutica (Mosconi et al., 1996) che l’intervento terapeutico, definito “fase E di ristrutturazione”, funziona solo se gli stessi dati che portati dal paziente relativi ai traumi vissuti nelle relazioni con il proprio sistema, vengono riorganizzati dal terapeuta in una cornice di significato incompatibile con quella del paziente stesso. Precisamente nella quarta fase del processo terapeutico (fase “D” di focalizzazione) questi dati vengono messi in evidenza e in fase “E” re-incorniciati onde produrre quella che si chiama una “cognizione disconfermante”. Solo così si produce un deconsolidamento e riconsolidamento delle memorie efficace. Se si associa la rievocazione dell’esperienza traumatica a una cognizione disconfermante, si crea un doppio legame terapeutico che mette il sistema nervoso in un dilemma interpretativo in cui al paziente viene permesso di guardare alle alternative con la possibilità di scegliere la più vantaggiosa differentemente da ciò che succede nel doppio legame che ha creato il trauma in cui il paziente era costretto a escludere qualcosa che sentiva utile per sé a favore dell’altra per non creare conflitti e situazioni disagevoli. Questi concetti sono stati ripresi ed esposti in modo ancora più articolato nel recente capitolo Manualizing the Therapeutic Process in Systemic Therapy From the Construction of the Hypotesis to the Assessment of Change (Mosconi e Trotta, 2022) dell’Handbook of Systemic Approaches to Psychotherapy Manuals (Mariotti et al., 2022).
Bozzetto. Mi hai riportato alla mente una famiglia vista tanto tempo fa che aveva chiesto una consulenza per il terzogenito diciottenne in pieno blocco psicotico. I genitori e i due fratelli maggiori erano impegnati a portare avanti un’azienda metalmeccanica. Il padre aveva iniziato a costruire un oggetto nel suo garage ottenendo un veloce successo in cui aveva coinvolto tutti i familiari e che equivaleva a una sorta di riscatto sociale. La famiglia si era trovata spiazzata quando il terzo figlio, dopo aver superato l’esame di maturità aveva espresso il desiderio di proseguire gli studi iscrivendosi a una facoltà umanistica. L’ingiunzione familiare “se proprio vuoi studiare farai economia e finanza perché devi restare all’interno dell’azienda” era in contraddizione col desiderio del ragazzo di seguire le proprie inclinazioni letterarie e di fronte all’indecidibilità aveva sviluppato un sintomo che lo bloccava. Avergli permesso di individuare chi all’interno delle famiglie estese rappresentava la sua inclinazione alle materie umanistiche e che ruolo avesse avuto nelle relazioni gli aveva permesso di trovare sensato ciò che percepiva e alla famiglia di riposizionarsi nei suoi confronti.
Mosconi. Quindi le emozioni in terapia, a questo punto, sono inevitabili e sono un importantissimo indicatore del significato delle esperienze vissute e dello stato delle relazioni in corso, ma le devo accettare e capire profondamente come collegate agli apprendimenti fatti specialmente nelle esperienze peggiori. In un certo qual modo questo lavoro lo si faceva già con le domande per differenza: “Scusi, questo aspetto le ha fatto pensare di più a questo o a quello?” Nella costruzione dell’ipotesi, attraverso le domande per differenza, mettiamo a fuoco la componente peggiore, quella che più ha permesso un apprendimento di un certo tipo. Se si chiede: “Le pare che i suoi genitori siano più attenti a lei e ai suoi sintomi o abbiano più in mente i successi di suo fratello? È riuscito lei coi suoi sintomi a prevalere su suo fratello?”, non lo sto forse portando dentro a quanto ne ha mandate giù per sopportare che suo fratello valeva più di lui e al tempo stesso glielo sto ristrutturando? Quella è l’operazione che si fa in psicoterapia, ristrutturare, riconsolidare memorie traumatiche, rievocarle e riconsolidarle collegandole a un altro significato.
Bozzetto. Hai appena accennato al tema dell’auto-osservazione del terapeuta ricordando il lavoro che si può fare sul suo genogramma familiare: lo si fa parlare della sua famiglia, della sua posizione all’interno del sistema e infine dei contesti di apprendimento in cui ha imparato alcune cose piuttosto che altre. Mettiamo allora che il terapeuta abbia vissuto un trauma, un evento a forte valenza emotiva, in che modo può incidere nella capacità di gestire e sentire le sue emozioni in relazione a un sistema in cura?
Mosconi. Come detto questo blocca un’area relazionale. Quando l’Amigdala si attiva per una situazione traumatica il sistema di allarme che si attiva paralizza la capacità riflessiva del cervello per cui si può solo scappare (Pagani e Carletto, 2019). Se si è vissuta un’esperienza traumatica in una determinata area si perde la capacità riflessiva e si attivano le reazioni di attacco, fuga e congelamento. Una persona che è stata traumatizzata dal fuoco non può fare il pompiere finché non ha elaborato il trauma e imparato le strategie per gestirsi bene nel fuoco. Mi pare chiaro da quanto ho detto più sopra che se il centro del lavoro di psicoterapia è il rievocare le esperienze traumatiche fatte dai nostri clienti con tutto il loro corredo emozionale (deconsolidamento) bisogna saper stare con il cliente quando esprime la sua sofferenza ed accoglierla per poi cercare insieme la soluzione. Il tutto senza fretta, ci vuole tempo per guarire le ferite. Noi terapeuti, perciò, dobbiamo essere persone che nelle relazioni anche quelle più difficili possiamo stare con calma ed attivare la nostra curiosità e non perdere la capacità riflessiva a causa di un’area del nostro Sé paralizzata. Mi piace dire agli allievi che: “noi siamo un po’ dei genitori sociali” che si prendono cura di queste ferite che la vita ha fatto.
Bozzetto. Oltre al lavoro sul genogramma familiare ti vengono in mente altre modalità?
Mosconi. Un altro potente strumento è il gruppo di supervisione: se abbiamo tutti background diversi, risonanze diverse, nel momento in cui io faccio un confronto con il gruppo di supervisione si genera ciò che agli inizi della scuola a Milano veniva chiamata “orgia delle ipotesi” in cui ognuno esprimeva la propria e in questo modo, da una parte si generavano molte differenze e diverse mappe, ma dall’altra anche si ha l’opportunità di chiedersi come mai io, tu, noi, la vediamo in un certo modo. Il confronto quindi col gruppo di supervisione è una potente opportunità per vedere molteplici aspetti purché presupponga in un secondo momento un lavoro di confronto e connessione perché ognuno deve poi dire come mai la vede da quel punto di vista. Volendo accontentarsi è già un passo avanti rispetto al pensare che “ho ragione io”, ma non è sufficiente, ci accontentiamo, cioè, di sapere che la realtà è diversa per ognuno di noi e non c’è una meta-riflessione che permetta di vedere le connessioni e mentalizzarle. Per fare un cambiamento è necessario un processo di rilettura e di confronto. Un altro strumento possibile è il test che proponeva Pio Peruzzi (2001): l’esercizio consisteva nel vedere un video e, utilizzando la griglia dei sistemi motivazionali a base innata, individuare quale si attiva nel momento in cui vedo alcune sequenze. Un altro strumento potrebbe essere dotarsi di schemi e protocolli di riferimento che garantiscano un’analisi il più completa possibile di come il nostro agire terapeutico influenzi la conduzione di una seduta. Nel recente lavoro di manualizzazione del processo terapeutico che abbiamo citato sopra (Mosconi e Trotta, 2022) proponiamo diversi protocolli che fanno da guida per svolgere in modo estensivo I temi fondanti dell’Ipotesi Sistemica (pilastri dell’ipotesi) e altri protocolli di valutazione degli interventi fatti. Questi strumenti possono servire da riferimento con cui confrontare il proprio agire e accorgersi, così, della direzione che emozioni o pregiudizi ci hanno fatto prendere. Usando questi strumenti un terapeuta può chiedersi: quali temi tendo ad indagare di più o di meno? Quali interventi tendo ad usare di più? E come mai? Questa modalità può diventare uno strumento di lettura del proprio Sé e ci permette di attuare un processo riflessivo su noi stessi. Ho sempre bisogno di un qualcosa di esterno con cui faccio differenza e/o un altro punto di vista; allora il mio genogramma o un altro terapeuta o il gruppo o un test o una scala di valutazione delle mie reazioni possono servire ad aiutarmi nell’auto-osservazione ed auto-comprensione sia delle mie emozioni che delle mie premesse.
Bozzetto. A termine di questa conversazione mi pare di aver capito che, in riferimento al Quadrilatero Sistemico, le emozioni vanno considerate come parte del funzionamento individuale in risposta a quello che avviene sul versante relazionale, quindi, nella rappresentazione del Quadrilatero Sistemico esse assumono una posizione centrale proprio perché sono attivate dall’interazione tra queste due parti.
Mosconi. Certo sono assolutamente d’accordo. In sintesi: osservo le emozioni come parte delle informazioni che traggo sulle polarità individuali sia sul livello Fenomenologico Individuale, come parte della Narrazione, che sul livello Generatore Individuale, come parte dei processi interni della Persona (Mosconi et al., 2013). A questo livello è importantissimo, a mio avviso, tenere presente quanto dicevo più sopra e cioè che ci sono due livelli di espressione delle emozioni che osserveremo: inizialmente le emozioni saranno parte integrante delle informazioni che la/le persona/e danno riguardo al loro modo di definirsi nella relazione (Pattern Relazionale Prevalente – PRP) e si comporranno a generare quanto osserviamo nelle polarità relazionali, cioè il gioco familiare in atto. Successivamente via via che trattiamo i vari temi fondanti l’ipotesi (pilastri dell’ipotesi), e ampliamo il campo di osservazione ed inferenza dovremo arrivare a fare narrare le situazioni traumatiche vissute, specie le peggiori. Riportando l’attenzione nuovamente sulle polarità individuali, vedremo apparire le emozioni correlate a questi eventi ed avremo diversi momenti di abreazione che, ora sappiamo, sono indispensabili per deconsolidare le memorie traumatiche che hanno irrigidito i modi reciproci di definirsi nella relazione e poterle ridefinire secondo le modalità tipiche dell’ipotesi sistemica, vale a dire dandogli un significato positivo, questa volta sul versante delle polarità relazionali. Se tutto va bene e l’ipotesi è plausibile, vedremo comparire, nuovamente sul versante delle polarità sia individuali che relazionali nuove emozioni che dovrebbero segnalare benessere o stupore per nuove comprensioni, con frasi del tipo: “ah questo non lo avevo mai pensato!”. Per sintetizzare quanto sto dicendo lo riassumo nella Figura 2.
Da questa figura vorrei risultasse chiaro che in questo modo la terapia sistemica è una continua danza tra i livelli individuali e sistemici. Si decostruiscono le interazioni sistemiche approfondendo ai livelli individuali le narrazioni di ognuno che permettono di individuare le diverse posizioni nel gioco del sistema. Successivamente le si connettono per comporre l’ipotesi sistemica, per poi tornare a decostruire facendo esprimere ognuno su quanto ipotizzato e così via. In tutto questo processo le emozioni accompagnano ogni narrazione individuale e ogni scambio relazionale diventando spesso le informazioni più rilevanti per capire le persone, una vera porta di entrata a come ognuno si pone e al significato della interazione in corso.
Mi piace chiudere con una metafora musicale. In ogni canzone c’è un testo ed una musica, ecco le Narrazioni sono il testo e le Emozioni, e le scrivo qui volutamente con la iniziale maiuscola, sono la musica!
Grazie, Igino, della opportunità che mi hai dato di riflettere su questo tema.
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