a cura di Italo Musillo
In ricordo di Humberto Maturana, recentemente deceduto, vogliamo pubblicare una intervista già apparsa sulle pagine di Connessioni (Connessioni 8, marzo 2001). Venne intervistato nel 1999 da Italo Musillo, sociologo italo svizzero che all’epoca collaborava con la sede torinese del CMTF. Lui, formatosi alla sistemica di Milano, la usava nella consulenza aziendale e manageriali. Ne parlò in Crisi della Famiglia ed Imprese Eccellenti (Franco Angeli 2008). La sua intervista ci pare ancor oggi densa di spunti.
Maturana, negli anni ‘70 e ‘80, è stato uno degli autori che maggiormente hanno dato forma alla nuova cibernetica “di secondo ordine”, fondata cioè sulla teoria dell’osservatore (è l’osservatore a dare forma e a delimitare i sistemi che osserva), dando con ciò un colpo di grazia al realismo ingenuo che ancora informava tanta teoria sistemica. Maturana sviluppò in seguito una propria strada, che lo condusse a osservare le interazioni umane, seppur con occhio diverso da quello della maggior parte dei terapeuti. Con il tempo, la sua visione, partita dalla neurobiologia, si è evoluta spostandosi progressivamente verso l’etica, concepita come “l’essere pronti ad accettare la legittimità dell’altro a essere diverso da me”. Se lo stile, spesso apodittico e sentenzioso, di Maturana lo rende a tratti difficile da accettare per il terapeuta medio, la sua visuale anticonformista aiuta certo a comprendere meglio il nostro ruolo di osservatori, dei nostri clienti e di noi stessi: quanto è diverso il terapeuta di oggi rispetto a quello di ieri, e quanto questo influenza il suo porsi verso clienti e famiglie, diversi da quelle di allora? E che cosa può cambiare in questa rete di relazioni? Che cosa può fare quel terapeuta per aiutare a cambiare le cose?
Musillo lo sollecita su temi diversi dalla biologia e il vivente, tanto che il biologo ed epistemologo cileno non propone qui una teoria sulle organizzazioni umane (incluse le famiglie), ma uno spunto per pensare al ruolo dell’essere umano nei confronti degli altri, e al ruolo del terapeuta in questa più ampia cornice.
Maturana non ci dà delle risposte, né potrebbe. Ma ci induce a porci, se non altro, interessanti domande.
Credere per vedere. Un tè con Humberto Maturana
Lione, 4 dicembre 1999.
Humberto Maturana sta tenendo un ciclo di conferenze e divide il suo tempo tra Università e Associazioni locali che si occupano di studi e applicazioni umanistiche.
Il tema che egli propone alla riflessione del pubblico è il rapporto tra l’uomo, la scienza e l’etica. Nel corso di una conferenza pomeridiana Maturana cita San Tommaso per dire, in sostanza, che il brav’uomo aveva commesso un errore epistemologico. È errato pensare che bisogna “vedere per credere”, dice Maturana. Il giusto atteggiamento dell’uomo consiste nel “credere per poter vedere”: io posso vedere l’altro soltanto se credo in lui e se voglio riconoscerlo.
Italo: È possibile credere nell’altro prima ancora di conoscerlo? Quello che tu proponi non è forse un atteggiamento naif, un po’ come dire “Ama il prossimo tuo come te stesso”, prima ancora di sapere se questo “prossimo” vuole la tua pelle o è animato da nobili intenzioni?
Humberto: No, ciò di cui tu parli è la bontà. Io non propongo una bontà beata, bensì una condotta amorevole che è in sostanza una condotta etica portata a voler riconoscere l’altro anche quando esiste un dissenso o un dissidio nei confronti dell’altro. L’altro esiste e io ho il dovere di riconoscerlo per come è. Posso invece non concordare affatto con il suo credo, con le sue azioni. E dal momento in cui decido di riconoscerlo, io non posso non vedere questo mio pari e non osservarlo: vederlo e osservarlo sono due forme di riconoscimento della sua esistenza. Questa disponibilità a “vedere” è uno slancio emotivo che contiene amore.
Italo: Ma il senso comunemente attribuito alt’ amore mi pare sia un altro. A parte l’amore della madre verso il bambino appena nato, l’amore è una costruzione che ha bisogno di tempo, a meno che non si tratti di infatuazione, di coup de foudre.
Humberto: Certo, infatti io so di essere in disaccordo, anzi in polemica permanente, con le teorie sociologiche più ricorrenti riguardanti le relazioni umane. Non è una questione di termini, bensì di conoscenza profonda della natura umana e delle sue dimensioni: la natura umana è molto più ricca di quanto non si dica della gamma delle relazioni sociali. Certe definizioni dell’amore che riguardano un particolare tipo di rapporto di coppia o tra genitori e figli non hanno nulla a che vedere con la condotta amorevole di cui parlo. Una madre che in nome dell’amore che ha per il figlio gli impone di fare solo quello in cui lei crede, sottrae al bambino tutta la legittimità, che gli spetterebbe di diritto, di tentare esperienze diverse da quelle indicategli dalla madre. La condotta di questa madre non è etica e non è amorevole secondo i termini da me proposti. Lei protegge certamente suo figlio, ma lo costruisce a sua immagine e somiglianza, perché non vuole essere in disaccordo con lui e ha paura delle conseguenze di qualsiasi dissimiglianza. Una condotta amorevole – dunque etica – verso l’altro, significa invece l’essere pronti ad accettare la legittimità dell’altro a essere diverso da me. Ciò non significa, beninteso, che io debba accettare le conseguenze dei suoi comportamenti.
Italo: Si può dire, allora, che questo amore è una forma di amore-accettazione o di amore-tolleranza?
Humberto: Non proprio. Questi atteggiamenti sono ancora di tipo protettivo e hanno il potere di negare la potenziale esistenza di conflitti. La condotta amorevole è visionaria: attraverso di lei è possibile scorgere con serenità tutte le cose che ci distinguono dall’altro e quelle che ci rendono simili all’altro. Avendo la chiara visione delle divergenze e delle somiglianze che io ho con il mio interlocutore, io agisco anche in maniera più responsabile: se vedo delle somiglianze posso decidere che cosa farne, per esempio utilizzarle per sviluppare con l’altro una collaborazione proficua sul piano delle relazioni quotidiane o di progetti più coinvolgenti. Anche le divergenze mi aprono il campo a molti atteggiamenti responsabili: se vedo delle divergenze posso decidere di non metterle in rilievo, oppure di farne qualcosa di stimolante per dar vita ad un confronto dialettico che a sua volta aprirà il varco a nuove scoperte. Se invece io antepongo i miei pregiudizi su che cosa è bene e su che cosa è male per l’uomo, la mia condotta non è etica.
Italo: E se intravedo conseguenze pericolose tanto nell’intraprendere che nel non intraprendere qualcosa con l’altro, qual è la mia responsabilità?
Humberto: lo agisco in maniera responsabile quando non ho la pretesa di evitare le conseguenze inerenti alle decisioni prese liberamente. L’uomo responsabile è colui che pensa alle conseguenze possibili dei suoi atti e, prima di agire, valuta se è possibile assumerle o no, sapendo che, se agisce, dovrà poi assumere le conseguenze delle sue azioni. In questo senso il concetto di responsabilità è diverso da quello di colpa, comunemente usato nella visione causale. In quest’ultima logica l’essere responsabile si traduce nell’accusa “tu sei responsabile di quello che mi sta succedendo”. Invece, nella nostra logica, diciamo “tu sei un uomo responsabile perché assumi le conseguenze degli atti che compi”. Un educatore, ad esempio – genitore o insegnante che sia – ha il dovere di rendere i bambini responsabili insegnando loro a intravedere le conseguenze degli alti che compiono prima di agire, e non proibendo la loro spontaneità e il loro desiderio di scoperta.
Italo: Tutte le volte che si parla di spontaneità sorge immediatamente l’interrogativo di come e dove porre i limiti. Pensando a un. bambino la domanda è ancor più pertinente sia se si pensa alla salvaguardia del bambino stesso dai rischi in cui incorrerebbe se superasse certi limiti (il bambino, infatti, ignora fin dove può spingere la sua curiosità), sia se si pensa alla salvaguardia delle libertà di chi si trovi a contatto di bambini la cui spontaneità dovesse sfociare in comportamenti irritanti o irrispettosi.
Humberto: La spontaneità non può mai essere pericolosa come non lo è mai la libertà di scelta. E questo vale tanto per l’adulto che per i l bambino. È però vero che parlando di bambini molto dipende dal contesto in cui la spontaneità e la libertà di scelta sono state inculcate. È compito degli educatori (genitori, insegnanti e altre figure) far intravedere i pregi della spontaneità e della libertà di scelta ai giovani loro affidati.
In proposito vorrei esporti un aneddoto di cui sono stato testimone diretto. Un giorno, mentre parlavamo di queste cose in famiglia, uno dei miei ragazzi, allora in tenera età, mi domandò:
“Allora io sono libero di fare ciò che voglio?”
“Certo – ho risposto – tu hai questa libertà: tu sei libero di fare ciò che vuoi “Allora potrei anche uccidere il nostro vicino?”
“Certo, tu hai questa libertà di scelta. Se vuoi provare, vai e uccidilo, sapendo tuttavia che questo gesto è punito dalle leggi del nostro paese. Devi quindi scegliere se preferisci andare contro tali leggi o se preferisci accettarle”.
“Allora non posso uccidere il nostro vicino: “Perché?”
“Perché questa libertà non mi interessa”.
Quando si è educati nell’amore della libertà, questa non è mai pericolosa. È una delle basi fondamentali della teoria della conoscenza umana. Ecco perché quello degli educatori è il compito più fondamentale di tutti i compiti.
Italo: Che legame esiste tra responsabilità individuale e responsabilità sociale? È possibile, in altri termini, permettere la spontaneità o legittimare l’altro nella sua libertà di intraprendere un’azione, quando si è coscienti che l’altro non è a conoscenza, o non vuole vedere, la portata delle reazioni o delle sanzioni previste dalla società organizzata?
Humberto: Questo dipende da molti fattori e principalmente dalla qualità della relazione che unisce le persone. Le relazioni nelle quali ci siamo impegnati con una condotta etica e uno sguardo amorevole sono relazioni sociali, ossia relazioni particolari che implicano per noi la responsabilità di aiutare eventualmente l’altro anche a intravedere le conseguenze dei suoi atti. Un educatore ha una relazione particolare con un bambino, sa che il bambino non sa – ed è questa la ragione per cui la legge protegge i bambini affidandone la guida ad adulti coscienti e consapevoli dell’importanza di aiutare i bambini a “vedere”. Anche nelle altre relazioni sociali questa premura è lecita e può intervenire in varia misura. Non è invece nostro dovere intervenire in questo modo i n tutte le relazioni che non sono sociali nel senso da me inteso, come ad esempio le relazioni di lavoro.
Italo: Questa è anche una novità dal punto di vista sociologico. Come distingui le relazioni sociali?
Humberto: Le relazioni sociali sono quelle che implicano la presenza di emozioni. Queste emozioni variano, e caratterizzano una gamma molto varia di relazioni sociali. Le relazioni che si costruiscono a parti re da premesse razionali, quali il lavoro, la politica, le gerarchie, l ‘esercito, ecc., non sono relazioni sociali. Alcune attribuiscono più potere e libertà a un soggetto che all’altro, altre sono costituite a partire da obblighi e non da scelte spontanee di condividere un determinato progetto, altre ancora infine sono imposte da un ordine superiore. Beninteso, tutte le relazioni si possono trasformare, ma quelle sopra ricordate hanno, in origine, una genesi non sociale. All’inverso sono relazioni sociali l’amicizia, le coppie che si amano, le coppie di amici, i gruppi di amici, ecc. lo faccio anche una distinzione tra la coppia che si ama senza essersi sposata e quella che si sposa ufficialmente, in quanto quest’ultima viene costretta dalla legge a comportamenti che non saranno più spontanei, per esempio l’obbligo di assistenza reciproca. Ti racconto, a questo proposito, un aneddoto che calza con quanto sto dicendo. Mia madre era assistente sociale e si recava nelle campagne del Cile per svolgere un’opera di sensibilizzazione comunitaria con le donne delle campagne e dei piccoli villaggi. A volte incontrava donne con molti figli che non erano sposate e chiedeva loro perché non fossero sposate con l’uomo da cui avevano avuto i bambini. La risposta era: “Se dovessi sposare il mio compagno, lui poi si metterebbe a bere. Così invece mi ama ancora”.
Italo: In definitiva, quale è la definizione corrente di questa condotta amorevole?
Humberto: La condotta amorevole è un comportamento relazionale irrazionale attraverso cui io partecipo alla costruzione di un clima di coesistenza conviviale con l’altro, che permetta di far emergere pienamente tanto la mia legittimità che quella dell’altro. Perché questa condotta possa instaurarsi è indispensabile avere una disposizione a credere nell’altro, dimostrando chiaramente questo riconoscimento.