di Fabio Sbattella
Domande devastanti: il racconto di Aldo
Aldo è un’autista di professione, cinquantenne, che ha chiesto aiuto psicoterapeutico a causa di un disagio persistente e profondo, che disturbava i suoi sonni e interferiva anche sulle sue attività quotidiane. Un pensiero ricorrente e persistente lo ossessionava, a seguito di un incidente stradale, in cui era stato coinvolto suo nipote. Questa è la narrazione dell’evento drammatico: “Mio nipote, un bravo ragazzo di vent’anni, stava transitando sul marciapiede vicino a casa, quando sentì un rumore improvviso e un forte grido. Una donna, alla guida di un Suv con due bambini a bordo, aveva travolto e gettato a terra un ciclista. Presa dal panico, tra le urla dei figli, l’automobilista aveva innestato la retromarcia, ma nuovamente era passata con le sue ruote sopra l’uomo caduto. Mio nipote si era così lanciato in soccorso del malcapitato, fermando il traffico, urlando alla donna di stare ferma e tirando fuori il ciclista da sotto alle ruote. Chiamati i soccorsi, il ciclista era poi deceduto per un’emorragia interna”. Perseguitava ora lo zio non tanto il vivido ricordo della scena orribile (a cui peraltro non aveva assistito), quanto l’inaspettato sviluppo giudiziario della vicenda. Per evitare le sanzioni legate all’imputazione di omicidio stradale, gli avvocati difensori della signora avevano avanzato l’ipotesi che l’emorragia interna fosse stata causata dall’incauto spostamento del ferito da parte del soccorritore e dunque il giovane, inaspettatamente, si era trovato ad essere imputato per omicidio colposo. Consulenti tecnici d’ufficio e di parte si stavano preparando per dibattere su cosa sarebbe successo al ciclista se il giovane non avesse fatto ciò che aveva fatto. Anche lo zio era stato preso dalla trappola di questo ragionamento controfattuale e la domanda “cosa sarebbe successo se non…” era per lui un tarlo intrusivo e indesiderato. Aldo chiedeva anche al terapeuta innanzitutto una risposta a questo quesito. Desiderava avere un’opinione, un parere autorevole o una risposta definitiva al dilemma su cui i periti si preparavano a battagliare.
Domande mal poste
Nel caso di Aldo, come spesso riscontriamo nella pratica clinica, il problema principale non è dato dalle risposte mancanti, bensì dalle domande mal poste. Una delle cause più frequenti degli smarrimenti esistenziali e delle sofferenze psicologiche sono, infatti, le domande mal formulate dal punto di vista linguistico, insensate dal punto di vista logico, fuorvianti dal punto di vista pragmatico o assurde, perché chiedono risposte impossibili. Anche nel caso di Aldo, fu subito chiaro che il nodo su cui lavorare non era la risposta alla domanda che lo assillava giorno e notte, ma la domanda stessa, formulata in modo insidioso e strutturalmente senza risposta. In quanto domanda controfattuale (che sviluppava, su scenari alternativi, ipotesi non falsificabili, perché centrate su eventi già accaduti), si trattava di una domanda patogena, capace di generare loop cognitivi in grado di assorbire ogni energia mentale. Qualunque fosse stato il verdetto degli esperti, questa domanda era destinata a rimanere per sempre aperta nella mente di Aldo, così come accade spesso anche a chi sopravvive a simili complessi dibattimenti giudiziari. Era dunque necessario, per Aldo, trovare domande migliori perché, come insegnano anche le maestre di matematica nella scuola primaria, un problema è già risolto se la domanda è posta correttamente. Quali domande avrebbero dunque potuto liberare Aldo dal vortice senza fine che continuava ad invadere la sua mente? E perché mai una domanda così penetrante, posta perfino da avvocati e assicuratori, doveva essere considerata perniciosa per la sua salute mentale, nonché scorretta? Nelle prossime pagine cercheremo di fornire elementi per rispondere a questa domanda, allargando lo sguardo con ulteriori interrogativi.
Innanzitutto, possiamo chiederci: è possibile che una singola domanda abbia effetti così devastanti sulla mente umana? Una lunga tradizione di ricerca scientifica offre le basi per una risposta positiva a questo quesito. Fin dalle prime riflessioni sull’origine ideogenetica del trauma psichico (Sbattella, 2020), è stato evidenziato che esistono elementi cognitivi perniciosi per la salute mentale. Si tratta di idee e pensieri in grado di disorientare il comportamento, inibire le relazioni, confondere i processi comunicativi, bloccare la razionalità, suscitare intense emozioni nel soggetto, suscitare dubbi che fanno soffrire (Nardone, De Santis, 2011). Cecchin e Apolloni (2003) hanno studiato, ad esempio, le “idee perfette”, che sostengono molte sofferenze mentali e impediscono il cambiamento. Anche la tradizione di studi cognitivisti ha evidenziato il potere malefico di certi schemi di pensiero e distorsioni cognitive (Beck, Rush, Shaw, Emery, 1979; Semerari, 2000). Alcune categorie mentali, proprie della cultura di appartenenza, rendono ciechi a sordi a realtà evidenti; molti giudizi su di sé e sul mondo costituiscono ostacoli significativi per il benessere personale ed interpersonale (Cecchin, Lane, Ray, 1997). L’esperienza clinica chiarisce, tuttavia, che i processi cognitivi che concorrono alla sofferenza mentale ed esistenziale non agiscono da soli. Essi sono enfatizzati dalle dimensioni emotive e affettive che si intrecciano in modo inestricabile tra loro. Nel caso di Aldo, ad esempio, la domanda controfattuale appariva particolarmente pregnante perché il coinvolgimento affettivo verso il familiare era profondo e le emozioni suscitate dai processi di identificazione erano molto intense. Aldo era un autista professionista, quotidianamente esposto alla tensione del traffico. Sebbene non fosse mai stato coinvolto direttamente in incidenti traumatici, era perfettamente in grado di identificarsi con le percezioni, i gesti e le emozioni della donna al volante, così come del soccorritore e del ciclista. Il suo interrogarsi era accompagnato da una vivida immaginazione, che ricostruiva, simulando visivamente, la scena traumatica, di volta in volta dal punto di vista del soccorritore e dell’autista. A volte, Aldo si identificava anche con il padre del giovane (suo fratello) e con la rabbia provata da chi è chiamato a difendere da incredibili accuse un figlio educato all’impegno sociale. Interrogandosi sui molteplici possibili sviluppi delle diverse azioni o omissioni ipotizzabili, si perdeva poi in un dedalo di scenari immaginari, che aprivano nuovi dubbi e domande irrisolvibili. Pensieri incapaci, oltretutto, di cambiare la realtà irreversibile dei fatti accaduti. Aldo era dunque vittima vicaria di una situazione traumatica.
Tornando al ruolo dei processi cognitivi patogeni, va sottolineato che un ruolo particolare svolgono, in questo senso, le domande. Per loro natura, le domande sono atti comunicativi e cognitivi che aprono possibilità e mettono in movimento la mente. Per questo motivo, le domande sono particolarmente potenti per la mente umana. Lo sono in direzione patogena, ma fortunatamente anche in senso terapeutico. I momenti più belli, durante le nostre psicoterapie, sono quelli in cui i pazienti sorridono esclamando: “bella domanda!” oppure “questo non me lo ero mai chiesto!”, oppure: “questo non lo me l’ha mai chiesto nessuno, prima d’ora”. Per tale motivo, un passaggio chiave della formazione degli psicoterapeuti sistemici prevede lo studio approfondito di varie tipologie di domande. Domande ipotetiche e domande circolari; domande centrate sui fatti, i contesti, le emozioni, le dimensioni implicite, le differenze (Tomm, 1988; Viaro, Leonardi, 1990; Selvini, Boscolo, Cecchin, Prata, 1980): un buon terapeuta sa riconoscere ed utilizzare ad hoc varie tipologie di domande, consapevole che anche una semplice anamnesi o un assessment possono insinuare dubbi iatrogeni o avere effetti terapeutici (Finn, 2009). Non è dunque possibile non conoscere, come psicoterapeuti, anche le specifiche caratteristiche e le potenzialità patogene delle domande controfattuali.
Domande controfattuali
Come dice chiaramente il termine che le definisce, le domande controfattuali partono da un atto intrinsecamente problematico: la negazione dei fatti, cioè gli accadimenti avvenuti. Si tratta di un’operazione immaginativa, che prende spunto dalla realtà storicamente irreversibile, per poi negarla con la fantasia. Cos’è dunque un “controfattuale”? Per la logica formale è un’asserzione condizionale, il cui l’antecedente è una negazione di uno stato di cose (è dunque contro i fatti) (Lewis 1973; Menzies e al 2019). Per esempio: non sarei stata aggredita per strada (asserzione condizionale), se avessi dato ascolto alla nonna (antecedente che nega ciò che ho fatto). Con queste asserzioni si genera una ipotesi tecnicamente irrealistica, cioè che si oppone all’esame di realtà. Al posto dello schema logico sotteso alle comuni ipotesi (se A allora B,) si usa lo schema se non A allora B, C, D o…? Tuttavia, non A non può esistere, in quanto è già avvenuto. Attraverso il pensiero controfattuale le persone immaginano, dunque, di modificare mentalmente la catena di fatti che hanno preceduto un evento e osservano mentalmente poi le ipotetiche conseguenze che si sarebbero potute generare. Una persona può dunque fantasticare su come un risultato avrebbe potuto essere diverso, se gli antecedenti che hanno portato a quell’evento fossero stati diversi. Dopo aver messo tra parantesi i fatti realmente accaduti, centinaia di scenari possibili possono essere generati per ciascuna catena causale. Nel nostro esempio, ci si potrebbe chiedere cosa sarebbe avvenuto se il ciclista non avesse urlato, se la donna non avesse fatto retromarcia, se fosse intervenuto un altro soccorritore, se al posto del Suv del marito la donna avesse guidato la sua utilitaria, se il ciclista fosse passato di lì cinque minuti prima e così via. Per ogni domanda si aprirebbero poi infiniti universi possibili. Ci sono comunque due modi fondamentali di sviluppare pensieri controfattuali, sempre negando gli eventi di fatto accaduti: o fingendo mentalmente che essi non si siano verificati (nel nostro esempio, chiedendosi cioè: se il soccorritore non fosse intervenuto, cosa sarebbe accaduto?) o immaginando l’intervento di eventi positivi, che in realtà non si sono verificati (nel nostro esempio: se il soccorritore avesse immobilizzato il ferito secondo le procedure che conoscono i professionisti, cosa sarebbe accaduto?). La ricerca scientifica sul pensiero controfattuale considera queste domande rispettivamente come rappresentative del pensiero controfattuale sottrattivo (che inserisce una omissione tra gli antecedenti) e pensiero controfattuale additivo (che introduce o cambia un’azione negli antecedenti del fatto avvenuto) (Milesi, 2003). La distinzione tra domande controfattuali additive o sottrattive non è l’unica sfumatura che va conosciuta per padroneggiare professionalmente questo strumento cognitivo e linguistico. Altre distinzioni operate dai ricercatori, evidenziano come a volte il pensiero controfattuale sollevi domande sulle azioni che avrebbero potuto generare esiti migliori (pensiero al rialzo o ascendente). Altre volte formula interrogativi sulle condizioni che hanno impedito agli eventi di andar peggio di come sono andati (pensiero al ribasso o discendente). Una domanda controfattuale additiva al rialzo chiede dunque: “se avessi fatto di più, avrei ottenuto un esito migliore?”. La domanda sottrattiva controfattuale al rialzo si pone invece questo interrogativo: “se non avessi fatto ciò che ho fatto, le cose sarebbero andate meglio?” Al contrario, uno scenario additivo e al ribasso propone questo dubbio: “se avessi fatto di più, sarebbe andata ancora peggio di come è andata?”, mentre uno scenario sottrattivo e al ribasso sarebbe “se non avessi fatto ciò che ho fatto, sarebbe andata ancora peggio di come è andata?”
Tabella 1. Quattro domande controfattuali
Antecedente |
Se avessi fatto |
Se non avessi fatto |
Sarebbe andata |
Additiva ascendente |
Sottrattiva ascendente |
Sarebbe andata |
Additiva discendente |
Sottrattiva discendente |
Secondo alcune ricerche, è più probabile che le domande controfattuali al rialzo suscitino stati d’animo negativi, come rancore, risentimento, sensi di colpa, delusione, rimpianto, nostalgia (Kahneman, Tversky, 1982), mentre le domande controfattuali al ribasso suscitino sentimenti positivi, come sollievo e soddisfazione (Kahneman, Miller, 1986).
Il potenziale patogeno delle domande controfattuali
Oltre a descrivere le forme e le frequenze delle domande controfattuali, i ricercatori si sono interrogati sulla loro funzione. Hanno così evidenziato tre diverse funzioni. In primo luogo, il pensiero controfattuale svolge in un ruolo esplicativo a livello cognitivo. Secondariamente, è utile a volte per motivare miglioramenti nelle azioni future. Infine, spesso è attivato come strumento di regolazione emotiva (Milesi, 2003). Queste tre funzioni sono tra loro collegate, a volte generando intrecci patogeni.
Per quanto riguarda la funzione esplicativa, il pensiero controfattuale è stato studiato nell’ambito dei processi di attribuzione causale: le persone cercano di spiegare a sé e agli altri le cause degli accadimenti sociali, al fine di prevedere e controllare la realtà degli eventi stessi. Il pensiero controfattuale funzionerebbe come un’euristica della simulazione, ma, a differenza delle domande ipotetiche sul futuro, tenterebbe di simulare mondi possibili alternativi rispetto ad accadimenti già conclusi nel passato.
Applicato a piccoli eventi ripetibili e in una prospettiva discendente (vedi Tabella 1), tale esercizio immaginativo può rivelarsi anche stimolante, ma ha effetti drammatici quando è realizzato in prospettiva ascendente su eventi gravi, irripetibili e irreversibili.
In altre parole, diverso è chiedersi: “se non avessi giocato quella carta, avrei guadagnato meno punti in questa partita a carte?” e chiedersi: “se avessi agito diversamente, il ciclista sarebbe sopravvissuto?”. La prima domanda apre la possibilità di pensare: “questa volta mi è andata bene, cercherò di fare la mossa giusta anche alla prossima partita”. La seconda domanda invece suggerisce di pensare: “sono responsabile di un’azione che ha avuto conseguente irreparabili e io avrei potuto agire diversamente”. Se infatti la simulazione controfattuale ha la funzione di comprendere le concatenazioni causali e attribuire responsabilità degli eventi controllabili, alcune domande attivano inevitabilmente processi di colpevolizzazione, quando gli esiti sono gravi e irreversibili, come nel caso di un lutto o di una compromissione irreversibile dell’integrità corporea (Archer, 1999). Il pensiero controfattuale, dal punto di vista della dinamica mentale, sembra svolgere una funzione protettiva e rassicurante, che si rivela ben presto una trappola. Ripercorrendo infatti a ritroso gli eventi e immaginandone uno sviluppo diverso, il soggetto simula mentalmente azioni, decisioni o eventi che avrebbero generato esiti differenti. In questo modo conferma internamente a sé stesso di avere le competenze per far fronte (coping) alle richieste ambientali. Se nella simulazione il soggetto attribuisce a sé un ruolo chiave nella catena degli eventi, aumenta la sua sensazione di controllo sulla vita, ma nello stesso tempo egli si carica di responsabilità. Questo aumenta i suoi sensi di colpa per le azioni fallimentari e l’ansia per tutte le azioni di cui si sente responsabile per il presente e il futuro.
Dal punto di vista motivazionale, la consapevolezza dei propri errori potrebbe essere una buona spinta al cambiamento, se non fosse che, per il caso specifico in esame, i gravi danni si presentano come irreversibili. Il lavoro immaginativo si configura così come un’inutile fantasia riparativa che permette di fuggire dalla presa d’atto della realtà solo per il tempo in cui la mente è occupata a immaginare alternative possibili.
Il radicale potenziale patogeno del pensiero controfattuale è d’altronde chiaro nel suo stesso nome: esso parte dalla negazione immaginativa della realtà. Nel caso di Aldo, la difficoltà ad accettare una morte accidentale ed anche un’eventuale condanna ingiusta, hanno sollecitato il desiderio di riavvolgere il film degli eventi, cercando di modificare alcuni fotogrammi chiave. Purtroppo, il sollievo offerto da questa simulazione mentale dura molto poco, poiché, terminata la fuga immaginativa, la realtà si ripresenta ogni volta nuovamente con la sua crudeltà. Gli infiniti universi generabili dalla negazione dei fatti, inoltre, apre la strada ad un dedalo mentale in cui è facile perdersi o rifugiarsi. Inoltre, tutte le ipotesi formulate negli scenari generati in modo fantastico e alternativo risultano non falsificabili. Se il giovane non fosse intervenuto, il ciclista non sarebbe morto? O forse altre auto l’avrebbero travolto? Forse sì, o forse no: non è possibile saperlo. La signora presa dal panico, lo avrebbe nuovamente schiacciato? E chi può dire che non sarebbe stato estratto da sotto l’auto, nello stesso modo, da un altro passante, dall’autista, dal figlio maggiore o che anche la vittima non avrebbe tentato da sola di spostarsi? Se il giovane non lo avesse spostato, il ciclista sarebbe morto comunque? Difficile da stabilire, anche da parte dei periti, esperti nelle scienze mediche, che si concentrano peraltro, sulla base di dati probabilistici, su una sola delle molteplici possibilità. E chi può garantisce poi che le complesse operazioni chirurgiche a cui sarebbe stato sottoposto il ferito sarebbero andate a buon fine? A differenza di ipotesi generate per il futuro, le ipotesi sul passato strutturalmente non potranno mai essere falsificate. Per questo motivo il pensiero controfattuale si traduce in un loop devastante: esso attiva quel rimuginio inconcludente che apre ai disturbi d’ansia e anche alla depressione o si intreccia con la componente cognitiva del disturbo post traumatico da stress.
Dal punto di vista della regolazione emotiva, l’attivazione di pensieri controfattuali può avere inizialmente una funzione difensiva, presentandosi come un tentativo di combattere la paura e soprattutto l’ansia, che si associano alle situazioni in esame. Nel nostro esempio, Aldo si interrogava anche sul futuro, domandosi con ansia e dolore: Mio nipote sarà condannato? Quanto soffriranno lui e suo padre (cioè mio fratello)? E per quando riguarda il mio futuro, oltre a temere quotidianamente i ciclisti sulla strada dovrò ora temere anche la mia propensione al soccorso? Sedare l’ansia legata a queste preoccupazioni significa ricostruire l’idea di un mondo sufficientemente giusto, prevedibile, fronteggiabile dal soggetto. In molti casi, questa dinamica attiva rituali ossessivi, che rassicurano il soggetto rispetto alle proprie capacità di controllo sulla realtà (Mancini, 2016). Questo non avvenne per Aldo, che non associò al pensiero ossessivo dei comportamenti compulsivi, e tuttavia soffriva di ansia diffusa.
Uscire dalle sabbie mobili
Pur considerando che a volte le domande controfattuali possono essere utili per sviluppare apprendimenti da vicende passate, come agire nei casi in cui esse si traducano in drammatici loop mentali? Come psicoterapeuti impegnati nell’ambito di traumi legati ad incidenti stradali, industriali e grandi disastri, abbiamo avuto modo di confrontarci molte volte con queste vicende ed abbiamo messo a punto alcune linee operative, che proviamo a condividere, nella prospettiva di una più ampia verifica di efficacia clinica.
In primo luogo, riteniamo importante ascoltare con attenzione le domande controfattuali che ossessionano il paziente. Sono formulate in modo additivo o sottrattivo? Ascendente o discendente? Mettono al centro del problema le azioni o le omissioni, proprie o altri? Tali attenzioni permetteranno di meglio comprendere gli assunti di base del paziente in relazione ai temi della causalità, della responsabilità, delle possibilità di agire o non agire rispetto agli eventi e dunque permetteranno di meglio orientare gli interventi successivi.
In secondo luogo, abbiamo deciso e proponiamo di non entrare nella discussione delle ipotesi e dei dubbi elaborati dal paziente, per non colludere con un’impresa impossibile.
Piuttosto (ed è la terza linea guida) può essere utile esprimere la propria sfiducia verso le domande controfattuali in questi casi, illustrando ampiamente quanto la ricerca sa sul loro potere patogeno e la loro relatività culturale. Le informazioni relative a questi aspetti saranno oggetto di una prossima pubblicazione. In essa sarà chiarito come il pensiero controfattuale sia molto diffuso nel nostro contesto culturale e non solo in modo patogeno. In particolare, i mass media ne fanno ampio uso, prendendo spunto, ma senza il necessario rigore logico, dalle prassi diffuse a livello giudico e scientifico (Sbattella, 2021). Collocare i ragionamenti dei singoli all’interno del contesto culturale più allargato è essenziale, sia per aumentare la consapevolezza della loro relatività, sia per migliorarne la padronanza. In questa fase del protocollo terapeutico spesso inseriamo una narrazione relativa alla biografia di Hitler, che radica nella memoria in modo vivido riflessioni che rischierebbero di suonare astruse (Sbattella, 2021). L’approccio narrativo è molto efficace nei contesti terapeutici emotivamente molto perturbati (Sbattella, 2016).
Il quarto passaggio consiste nell’invitare le persone a porsi nuove domande, relativamente al presente e al futuro. Nel caso di Aldo, ad esempio, è stato utile che si chiedesse: “per chi sono primariamente e profondamente preoccupato, ora?”, “Cosa posso fare di concreto per sostenere emotivamente o concretamente mio fratello o mio nipote?”, “Quali aspetti di questa vicenda mi turbano maggiormente?”, “Cosa potrei fare, fin d’ora, per non incappare in futuro in situazioni simili?”. Concentrare l’attenzione sulle emozioni presenti, sulle aspettative future e sulle azioni concrete che personalmente possono essere realizzate, favorisce la percezione di autoefficacia e limita gli effetti nefasti dei pensieri automatici.
Un ulteriore passaggio (non necessariamente in quest’ordine) consiste nell’accompagnamento alla presa d’atto delle realtà ineluttabili, rinunciando al tentativo di negare i fatti. Si tratta di un momento assai doloroso, che può essere gestito solo all’interno di una relazione terapeutica positiva e ben consolidata. Accogliere l’idea che la morte possa colpire in modo assurdo ed improvviso, ad esempio, non è facile, così come pensare che il potere dell’uomo è comunque assai limitato su alcuni eventi. La consapevolezza dell’imprevedibilità ultima degli eventi e dell’esistenza della casualità potrà emergere ed essere discussa solo in alcuni casi (Scholl, Sassenberg, 2014). Un ulteriore lavoro potrebbe essere fatto per sostenere il paziente esposto alle pressioni dei propri gruppi di appartenenza o del contesto legale, spesso propensi a rilanciare le idee controfattuali patogene. In alcuni casi, accompagnare il paziente a comprendere la dinamica del processo legale, significa esplorare insieme a lui il valore relativo, dal punto di vista esistenziale, anche dei giudizi ritenuti più affidabili dal corpo sociale.
Dai follow up realizzati fin qui, su circa trenta casi, queste linee guida sembrano essere molto efficaci, se utilizzate durante i primi mesi post crisi: i pazienti narrano di avere acquisto strumenti forti, che li hanno molte volte protetti dall’ansia e dalla confusione mentale e hanno interrotto l’invasività delle domande controfattuali. Questi nuovi assetti mentali non hanno impedito che i negativi pensieri controfattuali si affacciassero “spontaneamente” ogni tanto alla mente, ma la loro permanenza era poi sempre fugace.
Epilogo
Non possiamo concludere questo intervento lasciando aperta la domanda: come si concluse la vicenda di Aldo e di suo nipote? Il nipote di Aldo fu assolto dall’accusa di omicidio colposo. Non perché si potesse provare in lui l’assenza di imperizia, ma perché gli esperti non furono in grado di accertare con sufficiente certezza in che modo lo spostamento operato sul terreno avesse influito sulla rottura definitiva dei vasi sanguigni, gravemente compromessi dallo schiacciamento delle ruote del Suv. Ciò non evitò al giovane costose spese legali, sofferenze personali e relazionali. La vicenda generò anche alcuni dolorosi apprendimenti: il giovane giurò pubblicamente che non avrebbe mai più messo in atto azioni prosociali di alcun tipo, e tanto meno azioni di soccorso, sebbene durante il processo avesse avuto modo di apprendere in modo approfondito tutte le manovre che “avrebbe dovuto fare e non fare”. Aldo si liberò del pensiero ossessivo ben prima dell’esito del processo ed inviò in psicoterapia anche suo fratello e poi altri pazienti. In terapia ebbe modo di porsi domande nuove sulla realtà, sui paradossi della giustizia umana, sullo stress legato al suo lavoro quotidiano, sulla fragilità della vita umana e sulle relazioni che veramente contano nella vita. Non di notte però, visto che iniziò a dormire sonni tranquilli e trovò nel terapeuta un interlocutore reale con cui discuterne.
Riferimenti bibliografici
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