di Sabrina Piroli
Come nascono le storie? Questo articolo racconta del mio personale viaggio intrapreso per rispondere a questa domanda e dei risvolti che esso ha inevitabilmente apportato al mio lavoro. Dico inevitabilmente perché il viaggio non è certo un giro turistico fuori porta, è l’uscita dal perimetro delle proprie certezze, l’abbandono del porto sicuro e l’avventura in mari sconosciuti, magari popolati da sirene e leviatani, e quando si torna si è, in qualche modo e misura, trasformati da quella esperienza. Ma non si parte alla ventura senza una buona bussola, e io ho sempre contato sulla bussola sistemica, grazie alla quale non mi sono mai persa: è proprio questa a permettermi di lasciare le acque conosciute per misurarmi con l’ignoto, il lontano, il diverso e, anziché separarmene, cercare connessioni per integrarlo. Quello che propongo in questo articolo è il racconto del mio viaggio verso terre molto lontane dalla sistemica pura. Terre che, sebbene fortemente distanti, possono essere esplorate per cogliere idee delle quali nutrirsi, non senza essersi prima interrogati sui propri pregiudizi. Terre che, sebbene antiche, possono parlarci di questioni molto contemporanee e persino future. Potremmo dire: eterne.
Verso il settimo livello di attribuzione dei significati
Il mio viaggio è iniziato molti anni fa. Come per molti di noi, il primo impatto con la sistemica avvenne attraverso la Pragmatica della Comunicazione: era così rassicurante credere che tutte le questioni relative alle infinite combinazioni della relazione umana, fossero racchiuse in quel pugno di principi! Già allora l’assioma più interessante mi era parso quello che ci parla della ineludibile soggettività dell’atto comunicativo: la punteggiatura della sequenza di eventi, frutto del nostro punto di vista e, di conseguenza, della nostra storia. Certo il modello della pragmatica, come sappiamo, intendeva rifarsi al concetto di black box, e quella scatola chiusa e insondabile accese immediatamente i miei primi interrogativi: avrei voluto saperne di più non solo sul contenuto ma persino sul funzionamento, cosa che nel contesto strategico era considerata quanto meno blasfema. Ma all’epoca erano ancora lontani da me temi come la costruzione dei significati e la profondità delle premesse. Mi adagiai mollemente sulla prima cibernetica, ma in breve tempo iniziai a sentirmi scomoda, persino inadeguata come terapeuta: strategie, paradossi e ordalie non sortivano quel magico effetto descritto nei libri ispirati alla prima cibernetica. Avevo sbagliato mestiere? I dubbi mi attanagliavano e le insicurezze crescevano. Non ero ancora in grado di capire perché quello che sembrava un morbido giaciglio fosse in realtà così scomodo, solo alcuni anni dopo, incontrando il Milan Approach, compresi che semplicemente non volevo essere un terapeuta di potere, ma un costruttore di nuovi significati, e che quelle erano le mie premesse, impossibili da ignorare, pena un grande disagio. In quegli anni non solo imparai a mantenere sempre uno sguardo aperto e libero sulle connessioni e ciò che di nuovo queste fanno nascere, ma anche ad avere la fiducia nella capacità di trascendere le teorie per operare secondo una visione personale, che unisca originalità e coerenza.
In seguito grazie al Milan Approach scoprii il modello CMM e questo ebbe una notevole presa su di me. La questione della punteggiatura si espandeva e ridefiniva davanti ai miei occhi, sfociando nell’idea che le persone attribuiscono significati alle loro esperienze di vita a partire dal loro personale costrutto del mondo. Cronen e collaboratori avevano osato aprire la black boxe rovistarci dentro ben bene: divennero subito i miei eroi. Già molto tempo prima il Grande Precursore, Gregory Bateson, aveva affermato checontesto e significato sono indissolubilmente legati, ma Cronen e il suo gruppo osarono tirar fuori dalla scatola nera ben sei contesti o livelli di attribuzione dei significati, che andavano dal semplice contenuto ai modelli culturali ampi. Questi ultimi erano descritti come modelli che preesistono all’individuoe sui quali egli si basa per costruire significati. La faccenda iniziava a farsi interessante, ma non ancora esaustiva: cosa c’era oltre il livello delle culture? Del resto, gli stessi autori nel famoso articolo del 1982, confrontando il loro modello con quello di Palo Alto, affermano che “non esiste un numero finito di livelli di significato. Nelle precedenti ricerche è stato preso in esame un modello ideale ad almeno sei livelli”. Almeno sei. Era plausibile pensare all’esistenza di (almeno) un settimo livello di attribuzione dei significati?
Intanto mi gettai definitivamente alle spalle la questione della black box: insomma, siamo uomini o aeroplani? Mi appassionai all’approccio narrativo e lessi tutto d’un fiato Michael White. Qui trovai altre tracce che mi portavano in direzione dell’origine delle storie: la strada già aperta dal sesto livello del modello CMM, l’importanza della dimensione collettiva, diventava sempre più evidente. Il confine tra narrazione individuale e narrazione sociale si trasformava da una marcata linea retta a una sottile spirale che assottigliandosi sempre di più rendeva impossibile individuarne il punto d’origine. Tutto appariva parte di un processo ricorsivo e coevolutivo nel quale la storia individuale attribuisce senso a quella collettiva, e la collettività assegna significati alle storie individuali, divenendo essa stessa un grande sistema narrante, con una propria potente voce, la voce delle culture. Ma se questo processo ricorsivo e coevolutivo esiste da sempre e in tutte le culture, è lecito pensare ad una qualche forma di matrice sovraculturale, ovvero “universale”? È forse quello il settimo livello di attribuzione dei significati? Per tentare di rispondere a quest’ultima domanda ho tenuto ben stretta la mia bussola e mi sono avventurata in mare aperto, lontano dai sicuri porti della sistemica.
L’origine delle storie
Avevo tre domande alle quali rispondere e una rotta da mantenere. La prima questione è che se esiste un settimo livello sovraculturale, quindi “universale”, questo deve avere anche a che fare con coordinate che accomunino tutte le persone, come a dire la madre di tutte le storie, la matrice unica dalla quale si dipanano le grandi storie culturali. La seconda questione che mi ponevo riguardava le modalità di trasmissione ed elaborazione di quelle coordinate universali che fungerebbero da fondamenta delle grandi storie culturali. La terza questione è quali forme hanno assunto tali storie e che cosa ci consente oggi di riconoscerle e integrarle.
Ma andiamo con ordine. Pare che in tutte le scienze con il termine costante si intenda una grandezza (eventualmente adimensionale), che possieda un valore fisso. Per prima cosa quindi dovevo scovare quella costante che mi avrebbe permesso di risolvere una strana operazione: dato un essere umano di qualunque genere, cultura ed epoca storica, si definisca la costante che produce un valore (risultato) di ordine culturale. Cosa poteva accomunare ad esempio me, un bambino bengalese, una donna sudafricana, un ragazzo nordamericano, un vecchio siberiano, un giovane esquimese, una donna iraniana o un neonato aborigeno, per di più se proiettati in varie epoche storiche? La risposta era di una semplicità disarmante: tutti siamo parte della specie umana e di conseguenza condividiamo, seppure con scansioni temporali variabili, la stessa storia:
- essere nati in una situazione di totale impotenza e dipendenza;
- passare dalla simbiosi con la madre alla propria individuazione;
- strutturare relazioni differenziate con la madre e il padre, a volte con fratelli e sorelle;
- avere una qualche forma di famiglia allargata;
- ricevere una qualche forma, più o meno complessa, di educazione;
- scoprire la sessualità;
- affrontare le trasformazioni psichiche, corporee e sociali dell’adolescenza;
- individuarsi come adulti ed uscire dal proprio nucleo per trovare una propria collocazione e ruolo sociale;
- formare legami, di qualunque orientamento, a volte diventare genitori, biologici o non;
- accudire, educare, curare gli altri significativi, dentro e fuori il nucleo familiare;
- affrontare le trasformazioni psichiche, corporee e sociali della maturità;
- se genitori, ridefinire lo spazio relazionale quando i figli, biologici o non, lasciano il nucleo;
- affrontare le trasformazioni psichiche, corporee e sociali della vecchiaia;
- affrontare il rapporto con la malattia e la morte, proprie e altrui.
In questo senso la matrice universale, la madre di tutte le storie, non sarebbe altro che la storia dei compiti di sviluppo (a livello fisico, psichico, sociale) che la specie umana, nel ciclo di vita, deve affrontare e risolvere dalla nascita fino alla morte. E se questa è la storia che si ripete da sempre, allora potremmo definire il susseguirsi delle sue tappe come un insieme coerente di coordinate di specie, ovvero come un livello di contesto sovraculturale.
Nel mio viaggio di ricerca mi ero ormai spinta a grande distanza dai territori della sistemica, fino ad approdare alla psicologia del profondo: Jung, Hillmann, Bolen, per poi lasciarmi catturare dalle narrazioni di Joseph Campbell sugli ordini mitologici, descritti come sistemi di immagini che rendono coscienti alcuni profondi significatidell’esistenza. In questa accezione i miti avrebbero proprio la funzione psicologica di accompagnare l’individuo attraverso i compiti di sviluppo della vita, dalla nascita alla morte (e persino oltre, visto il grande numero di miti che hanno a che fare con l’inconoscibile!). Le combinazioni sono infinite ma tutto sommato nei miti c’è un numero limitato di ruoli da rappresentare, dato che essi sono in relazione ai compiti di sviluppo, costanti universali all’interno delle quali si dispiega l’unicità di ogni singola storia di noi esseri umani. Dunque nel mio approdo avevo trovato alcune idee-guida che potevano costituire un ponte tra contesto sovraculturale, modelli culturali ampi e biografie: gli ordini mitologici. Per fornire un esempio mi servirò del mito più diffuso nella storia umana: il viaggio dell’eroe, dettagliatamente analizzato da Joseph Campbell in L’Eroe dai mille volti. Questo mito compare in modo ricorrente in culture ed epoche differenti (cfr. i miti di Gilgamesh, Ulisse, Buddha, Mosè, Dioniso) e costituisce anche la base di molte delle odierne narrazioni cinematografiche più famose, quali le saghe di Star Wars o The Lord of the Rings. Come bene illustra il celebre sceneggiatore Chris Voegler, nel mito del viaggio dell’eroe, articolato in dodici passaggi (ognuno dei quali ulteriormente suddiviso in più tappe), i protagonisti iniziano la loro avventura come persone qualsiasi che vivono tranquillamente all’interno del loro mondo quotidiano (1), quando, spesso improvvisamente e loro malgrado, vengono coinvolti in una rischiosa impresa che ha come fine il bene comune (2). Inizialmente sono riluttanti e cercano di ignorare o rifiutare la chiamata (3), ma una figura saggia ed autorevole a questo punto fornisce loro insegnamenti e competenze (4), indispensabili per lasciare la loro casa e cominciare il viaggio, varcando la prima soglia per entrare nel mondo sconosciuto (5). Privi delle loro antiche sicurezze, affrontano prove, formano alleanze e si scontrano con antagonisti (6), fino a raggiungere il luogo più buio e minaccioso (7), la seconda soglia che li introduce alla prova centrale, di solito un confronto fisico, psichico e/o spirituale con forze superiori (8), per conquistare l’oggetto della ricompensa (9) e poter tornare a casa. Dopo aver superato la prova, feriti e stanchi, sulla via del ritorno vengono ancora inseguiti e attaccati (10), e qui, rischiando l’annientamento e la morte, varcano la terza soglia e vivono una esperienza di “resurrezione” che li trasformerà profondamente (11). Infine, cresciuti e cambiati, tornano alla loro casa portando una dote o un tesoro, fonte di benefici per l’intera comunità (12). Un mito sovraculturale dunque, che ripercorre lo sviluppo psicologico dell’essere umano, dalla condizione innocente dell’infanzia alla conquista del proprio posto nel mondo, passando per le crisi trasformative dell’adolescenza e le prove dell’età adulta. Un mito che emerge da quelle coordinate di specie che sono i compiti di sviluppo e che ogni cultura, antica o contemporanea, forgia in modo specifico a partire dai propri modelli.
Queste mie prime supposizioni, mi hanno portato ad interrogarmi circa il modo in cui verrebbero trasmesse ed elaborate quelle che ho individuato come coordinate di specie. Perché alcune idee possano essere trasmesse, assimilate e integrate da qualunque popolazione in qualunque epoca, occorre un linguaggio universale, un linguaggio che non sia su base numerica ma analogica: il simbolo. Oggi, nella maggioranza dei casi, il simbolo è sbrigativamente inteso soprattutto come “segno”, come una specie di astrazione, una designazione, liberamente scelta, che è legata all’oggetto designato per convenzione sociale, come ad esempio i segni verbali o matematici, i cartelli stradali, le faccine nei messaggi su WhatsApp. Invece con tale termine si deve caratterizzare qualcosa che dietro al senso oggettivo e visibile ne nasconde un altro, invisibile e ben più profondo: una bandiera non è altro che un pezzo di stoffa colorata, ma “l’emisfero destro non fa questa distinzione e considera la bandiera sacralmente identica a ciò che essa rappresenta. Così ‘Old Glory’ è gli Stati Uniti: se qualcuno la calpesta, può esserci una reazione di rabbia” (G. Bateson). Il linguaggio spiega, il simbolo desta presagi spingendo le sue radici nelle profondità dell’animo (J. J. Bachofen), il simbolo trasforma un fenomeno in idea, poi fissa quest’ultima in un’immagine, mantenendo quell’idea attiva ma al tempo stesso inesprimibile attraverso la parola (J. W. Goethe). Un simbolo non traduce un contenuto, piuttosto ne rappresenta il senso (E. Fromm), non è allegoria né segno, ma immagine di qualcosa che trascende la coscienza (C. G. Jung). È significativo inoltre che simboli analoghi sorgano in culture molto distanti tra loro, nel tempo e nello spazio, come parti integranti degli ordini mitologici che narrano le origini, i principi fondanti, lo sviluppo in termini sociali e psicologici di un popolo. In altre parole, alcuni simboli emergono nella narrazione collettiva delle storie degli uomini e delle loro culture, apparentemente in modo indipendente da esse: come è possibile? Per rispondere potremmo iniziare con il collegarci a una semplice nozione di etologia: il meccanismo scatenante innato descritto da Konrad Lorenz. Se su un gruppo di pulcini passa un falco, oppure se si fa passare una semplice sagoma di cartone a forma di falco, i pulcini correranno a nascondersi, anche se non hanno mai visto un falco. Questo induce a pensare che allo stimolo “predatore” non reagisca il singolo pulcino, quanto piuttosto la razza: la risposta sarebbe collettiva, non individuale. Il comportamento collettivo in risposta ad una immagine esemplifica bene il concetto di archetipo: un simbolo arcaico, o meglio “originario” (ὰρχέτυπος, primo esemplare), che può provocare reazioni emozionali o comportamentali che hanno senso in quel contesto. Chi risponde al simbolo/archetipo (elementi sovente embricati) non è quindi solo l’individuo, ma l’intera dimensione collettiva di cui fa parte. Un mito è quindi una storia narrata e trasmessa ricorsivamente dalla collettività e dall’individuo, usando il linguaggio analogico rappresentato da simboli e archetipi. Tale considerazione diviene particolarmente interessante se consideriamo che facciamo esperienza del simbolo continuamente: ogni volta che una certa rappresentazione, senza apparente motivo, rivela a noi un potenziale evocativo, provocando commozione, suscitando un’emozione, generando uno stato d’animo, scatenando una catena associativa, o semplicemente un moto di sorpresa, sgomento o gioia, siamo a qualche livello in risonanza con i suoi significati nascosti, con la storia di cui quell’immagine è parte integrante, qualcosa che cogliamo non grazie alla coscienza neo-corticale ma grazie alle strutture più arcaiche del nostro cervello, situate nel sistema limbico.
Seguendo il filo delle mie ipotesi, sono infine giunta alla questione che riguarda la trasformazione delle coordinate di specie in mitologie rappresentative di specifici modelli culturali. Adolf Bastian, viaggiatore e antropologo del diciannovesimo secolo, per descrivere la dimensione universale delle mitologie coniò il termineElementargedanke, ovvero idea elementare. Naturalmente egli osservò che nessuna idea si presenta all’osservatore allo stato puro, ma piuttosto nella forma in cui quella particolare cultura la sperimenta. Per questo coniò un altro termine: Volkergedanke, ovvero idea etnica. Ad esempio, studiando i miti e il folklore europei, possiamo osservare che gli eroi attraversano foreste oscure abitate da terribili lupi minacciosi, mentre nei miti delle isole del Pacifico, a rappresentare il pericolo, sono mari profondi popolati da squali famelici. L’incognito e il pericolo vengono rappresentati in forme diverse, ma il lupo e lo squalo non sono altro che espressioni della stessa paura primordiale che l’eroe deve affrontare. Non a caso i riti di iniziazione spesso separano l’individuo dal gruppo sociale (il perimetro delle sicurezze) per consentirgli di incontrare i propri limiti e le proprie risorse all’interno di contesti a lui ignoti (oscuri), dimostrando così di poter lasciare una condizione, ad esempio quella di ragazzo-figlio, per assumerne una nuova, quella di guerriero-sposo.
Le idee guida fin qui esposte, mi hanno dunque condotto a considerare i miti come narrazioni derivate dalle coordinate di specie (rappresentate dai compiti di sviluppo), tradotte in idee culturali ed espresse attraverso simboli che risuonano in termini di immagine collettiva, attivando reazioni e comportamenti sensati in quel determinato contesto: in altre parole ogni mito convalida un’esperienza millenaria che ha creato un modello al quale ispirarsi.
Il mito nell’esplorazione delle storie
A questo punto del mio viaggio sull’origine delle storie, resta da esaminare un tema importante: se accettiamo l’idea che la mitologia mette in scena, attraverso i suoi racconti densi di archetipi e simboli, il nostro percorso come esseri umani, ci rendiamo conto di accedere ad un archivio di storie pressoché illimitato.
Si potrebbe dire che, in base allo specifico compito di sviluppo da affrontare, è possibile rintracciare nella memoria collettiva uno o più miti che possano illustrarne i rischi, richiamare risorse e fornire ispirazione. Se questo è vero, potremmo chiederci in che misura sia utile la conoscenza di quelle trame invisibili che intessono misteriosamente le nostre storie di vita. Del resto, uno degli obiettivi della psicoterapia è far sì che ciascuno si senta protagonista attivo della propria narrazione di vita: l’eroe della propria storia. A maggior ragione perché spesso l’incontro con se stessi avviene proprio a seguito di una profonda crisi esistenziale, è figlio dello smarrimento, del crollo delle certezze, del panico che accompagna il fallimento di un certo progetto di vita. Quando la nave affonda e tutto è perduto, dal mito possono riemergere memorie in grado di trasformare quel naufragio in una nuova prova per l’eroe.
Interessanti, per noi psicoterapeuti, sono i miti che narrano di guaritori feriti. Attraversare più o meno consapevolmente la cosiddetta “follia”, rappresenta probabilmente una delle esperienze più preziose per un terapeuta. Jung ebbe a dire che puoi accompagnare qualcun altro solo fin dove sei arrivato anche tu, non oltre: ecco perché il terapeuta ferito è proprio quello che, conoscendo la sofferenza, può curare le ferite. Aldo Carotenuto afferma che “a proposito di quella ferita io mi servo volentieri di un gioco di parole, peraltro assolutamente legittimo sul piano etimologico: è una ‘ferita’, ed è una ‘feritoia’, un varco che ti consente di tenere d’occhio il tuo mondo interiore, di scrutare e indagare la parte più misteriosa e segreta di te stesso, la parte ‘sommersa’. Dunque è proprio la ferita del guaritore una delle vie privilegiate d’accesso al suo potenziale terapeutico, fermo restando che tale esperienza deve essere attentamente contestualizzata tra le proprie premesse ed essere oggetto di autosservazione da parte del terapeuta stesso” (Carotenuto, 1998).
In tema di guaritore ferito, appare oltremodo significativo il mito greco di Kore-Persefone, dea figlia di Demetra e Zeus, rapita e portata suo malgrado nel mondo sotterraneo da Ade, signore degli inferi. All’inizio del mito è solo un’adolescente spensierata, che raccoglie fiori e gioca con le amiche, prima di essere brutalmente sottratta alla madre. Ma quando, dopo molto tempo, Ermes giunge nel mondo sotterraneo per salvarla, non trova più la giovane ragazza (κόρη, Kore, la fanciulla), ma una donna, (Φερσεφόνη, Persefone, colei che porta abbondanza). Ade, che non può disubbidire al volere di Zeus, per non perderla le offre dei semi di melagrana, che magicamente obbligano chi ne mangia a far ritorno per sempre in quella casa. La dea ne mangia solo metà, poi parte con Ermes per riabbracciare la madre, ma ben sapendo che da allora e per l’eternità avrebbe trascorso una parte dell’anno nel mondo delle ombre con Ade, e l’altra nel mondo dei vivi, con Demetra, divenendo simbolo dell’eterna ciclicità della vita, con l’alternarsi delle sue stagioni, nascita, giovinezza, maturità, morte e rinascita. Tuttavia, nei miti che seguirono, quando eroi ed eroine della mitologia greca si recavano nel regno delle anime, era Persefone che li riceveva e faceva loro da guida nel mondo sotterraneo.
Questo mito, che come tutte le storie archetipiche possiede estese dimensioni polisemiche, illustra la trasformazione della protagonista da fanciulla inconsapevole a guida del mondo infero, attraverso la dolorosa esperienza del rapimento da parte di una forza oscura e la resiliente esplorazione delle profondità: il guaritore ferito, grazie all’esperienza della discesa nel proprio dolore e nella propria follia, diviene capace non solo di attraversare il buio ma anche di intuire il potenziale vitale nascosto nel ciclo di morte e rinascita. Questo mito dunque narra di chi, rapito da oscure forze interiori, sviluppa la capacità non solo di muoversi sopra e sotto la superficie, ma anche di trasmettere la propria esperienza mettendola a disposizione degli altri. Forse è anche la storia di qualcuno di noi.
L’incontro con la mitologia mi ha dunque permesso di ampliare i miei interventi terapeutici a livello individuale, di coppia e di gruppo. Partendo dal presupposto che, come italiani, siamo permeati dalla cultura greco-romana, ho approfondito lo studio di alcuni (sono numerosissimi) dei miti legati alle divinità olimpiche, personaggi largamente conosciuti non solo da chi ha compiuto studi classici: in questo senso è facile constatare la diffusione della mitologia greco-romana tanto in letteratura quanto nel cinema e nel teatro, nonché in una quantità di motti, proverbi e metafore. Inoltre, grazie alla diffusione dei giochi di ruolo e dei videogiochi RPG, anche il lavoro con adolescenti e giovani adulti ne è risultato arricchito.
Questo materiale si è quindi dimostrato estremamente utile per accrescere il mio archivio di storie per le sedute con i clienti, singoli o in coppia, oltre che per strutturare dei percorsi di gruppo mirati alla crescita personale. Quando curo una storia, in special modo quando gli stessi temi si sono ripresentati più volte nell’arco della vita, può accadere che il richiamo a grandi storie mitiche permetta l’apertura di nuovi significati evolutivi, che consentono al cliente di guardare agli sforzi, alle cadute, ai blocchi o alle ripetizioni come prove del proprio eroico viaggio verso l’autenticità, e alle proprie risorse come qualità uniche e sacre. Occorre sottolineare che ogni racconto mitologico contiene una straordinaria quantità di elementi sia positivi che negativi, appartenenti tanto alla figura centrale quanto alla situazione rappresentata ed alle numerose intersezioni relazionali presenti nella narrazione: una gamma infinita di possibilità per costruire nuovi significati.
Tra sistemica e mitologia: Giacomo e Anna ovvero il mito della coppia regale
Ricevo una richiesta di consulenza di coppia da Anna, motivata come ultimo tentativo prima di una separazione descritta come drammatica e quasi certa. Giacomo è un imprenditore di 50 anni, si presenta al primo colloquio ben vestito, profumato, esibendo sicurezza e dimostrandosi collaborativo e ben disposto nei confronti della consulenza. La moglie Anna è una bella donna di 38 anni, curata ed elegante, porta gioielli importanti ma discreti. È subito evidente che Anna, dietro una facciata di gelida gentilezza ed ironia, è furente. Sposati da 12 anni, hanno due figli maschi di 9 e 7 anni. La separazione è stata richiesta da Anna a seguito della scoperta dell’ennesima scappatella del marito: stavolta Giacomo avrebbe instaurato una relazione con una trentenne di loro conoscenza, alla quale, secondo Anna, avrebbe fatto regali di una certa consistenza. Anna si è rivolta ad un avvocato e ha minacciato una separazione, Giacomo si è dichiarato innocente, ma senza essere creduto. La rivale è descritta da Anna come una mantenuta di alto bordo, anche se in realtà lavora in banca (Anna fa capire che anche quel lavoro l’avrà trovato nel solito modo). Giacomo durante l’incontro, non si inalbera per le insinuazioni rispetto alla propria fedeltà coniugale, e tratta la moglie come se volesse palesemente riconquistarla. A tratti lei sembra intenerirsi, ma di tanto in tanto esplode con parole piene di rabbia. Concordiamo un percorso di approfondimento per verificare insieme lo stato della loro unione.
Iniziamo l’esplorazione della storia di coppia, utilizzando anche l’ausilio del genogramma. Entrambi hanno compiuto studi superiori, ma mentre Giacomo si è consacrato anima e corpo all’azienda di famiglia, fondata dal nonno paterno, Anna ha fatto qualche esperienza lavorativa saltuaria prima di sposarsi, poi si è dedicata al matrimonio. Chiedo a Giacomo qualcosa di più sulla sua storia personale, e dal suo racconto ricavo l’immagine di un uomo che, da giovane, non si è fatto mancare nulla: feste, donne, viaggi. Ma intanto l’azienda di famiglia, fondata dal nonno paterno, richiede sempre maggiormente la sua presenza. Chiedo a Giacomo di parlarmi di questa azienda che assorbe buona parte del suo tempo e delle sue energie. Lui mi racconta che il nonno era un uomo autoritario che tiranneggiava i figli, tra cui suo padre. Quando il nonno si ammalò, il padre, d’accordo con i fratelli, prese le redini dell’azienda; subito dopo, sposò una donna ricca e di buona famiglia (la madre di Giacomo) e rinforzò il patrimonio aziendale. Poco prima dei trent’anni, Giacomo comincia ad avere scontri frequenti col padre che gli chiede con sempre più insistenza di moderare le sue sregolatezze, in altre parole di cominciare a guadagnarsi quel denaro che spende con troppa noncuranza. È così che, poco per volta, anche Giacomo, come prima suo padre col nonno, prende in mano le redini dell’azienda e trova il modo di accontentare i fratelli. Da sempre la sua vita si svolge in azienda e, a suo dire, non ha mai avuto relazioni extraconiugali, solo piccole e brevi infatuazioni senza seguito. Anna viene da una famiglia benestante e di nobili origini, ha avuto dei genitori buoni anche se molto riservati e poco affettuosi, cattolici osservanti che frequentano la parrocchia e fanno beneficenza. Al contrario della sorella, che è un architetto molto apprezzato, e del fratello medico, Anna non ha coltivato in modo particolare gli studi, e ha lavorato senza troppo interesse nello studio di architettura della sorella. Dichiara che fin da ragazzina i suoi progetti erano il matrimonio e la famiglia. Quando racconta dell’incontro con Giacomo, le si illuminano gli occhi. Già all’epoca, dice, era molto conteso, tanto che lei all’inizio non voleva accettare le sue avances, visto che, oltre a essere ricco, bello e potente, aveva anche fama di dongiovanni. Ma una volta iniziato a frequentarsi, lui le mostrò un lato sconosciuto, di tenerezza e dolcezza, che la conquistò. Anna si dilunga alquanto nella descrizione del giorno del matrimonio, evento molto celebrato al sud. Il racconto mi rimanda l’immagine di una giovane sposa, innamorata del marito ma anche del ruolo di moglie che la proietta in quel mondo adulto e complesso dove lei ha imparato a muoversi con buona padronanza.
In seguito la coppia racconta i primi tre anni di matrimonio prima dell’arrivo dei figli, anni descritti da entrambi in modo molto positivo: grande passione, viaggi, regali, pochi malumori. Con l’arrivo del primo figlio il rapporto inevitabilmente cambia e subentra la prima crisi. Anna, che non ha mai avuto molte amiche e non ha un rapporto profondo con la propria famiglia, si trova sola a gestire il primo bambino. Giacomo, d’altro canto, sembra intensificare l’attività lavorativa, deludendo così le aspettative romantiche della giovane moglie. Nascono le prime gelosie e Anna diventa sospettosa e diffidente. L’arrivo del secondo figlio peggiora ulteriormente il clima, che ormai è apertamente conflittuale. Così Anna “scopre” che Giacomo è abile nel mentire, ad esempio fa viaggi di lavoro sospetti, ha colleghe e collaboratrici molto attraenti e a volte sa rendersi irreperibile, ma tuttavia Anna non riesce mai a trovare tracce come sms, mail o chat. Le scenate di gelosia e le liti furibonde, durante le quali Anna a volte si allontana lasciando i figli con la tata (l’allontanamento più lungo è stato di 3 giorni in un convento di suore), si alternano a riappacificazioni costellate di regali e viaggi, il modo migliore, secondo Giacomo, di riconquistare la moglie. In tutto il racconto i figli compaiono solo tangenzialmente, nonostante Giacomo manifesti il desiderio di un terzo figlio, anche perché, dice, l’azienda è talmente importante che un domani potrebbe avere bisogno di più teste. Rispetto alla presunta relazione che ha scatenato la reazione di Anna, è chiaro che entrambi non credono fino in fondo che porterà alla separazione.
I miti sulla coppia sono innumerevoli, ma, ai miei occhi, Giacomo e Anna incarnano bene il mito di Zeus e Hera, la coppia regale dell’Olimpo.
Il titano Crono era dio del tempo, figlio di Urano-cielo e di Gea-terra, e la sua sposa era Rea, anch’ella titanide, personificazione delle forze della natura, dea della terra e della natura tutta. I figli Demetra, Hera, Estia, Ade e Poseidone, furono tutti divorati da Crono appena nati, poiché egli aveva saputo dai propri genitori che il suo destino sarebbe stato di essere spodestato da uno dei suoi figli, così come lui stesso aveva spodestato suo padre. Quando però Zeus stava per nascere, Rea chiese a Gea di escogitare un piano per salvarlo. Rea partorì Zeus a Creta, e fece consegnare a Crono una pietra fasciata con dei panni, che egli divorò immediatamente pensando che fosse il figlio appena nato. La madre nascose Zeus in una cesta posta sotto un albero, sorvegliato da una famiglia di pastori. Zeus crebbe grazie al buon latte della sua nutrice, la capra Amaltea, ogni giorno le api distillavano per lui il miele più dolce, dal Cielo riceveva ambrosia e nettare, cibi sacri che gli donarono l’immortalità e l’eterna giovinezza. I Ciclopi fabbricarono gli strali del fulmine con cui si allenava ogni giorno. Raggiunta l’età adulta, Zeus (grazie alla dea Meti) somministrò a Crono un veleno che lo costrinse a rigettare i suoi fratelli e sorelle. Dopo una battaglia contro i Titani Zeus si spartì il mondo con i suoi fratelli maggiori Poseidone ed Ade sorteggiando i tre regni. Zeus, ormai signore degli dei, ebbe in sorte i cieli e l’aria, Poseidone i mari e ad Ade toccò il mondo sotterraneo delle anime.
Hera invece venne affidata alle cure di due divinità della natura, Oceano e Teti, anziani genitori adottivi di alto lignaggio, ma fu cresciuta dalla nutrice Macris. Nelle leggende, dopo aver spodestato Crono e i Titani ed essere diventato il signore degli dei, Zeus raggiunse Hera a Creta dove la corteggiò, dapprima senza successo. Egli si trasformò allora in un piccolo cuculo infreddolito: lei ignara lo raccolse e teneramente lo riscaldò sul proprio seno. Zeus subito riassunse il proprio vero aspetto e cercò di prenderla con la forza, senza riuscirci. In seguito continuò a corteggiarla, ma lei resistette alle profferte amorose finché lui non promise di sposarla. Il culto di Era, in quanto Dea delle nozze e della vita coniugale, era particolarmente diffuso tanto nella Grecia continentale quanto nelle isole, e lo hieros gamos, (ιερογαμία, ἱερὸς γάμος, matrimonio sacro) con Zeus fu oggetto di numerose rappresentazioni artistiche e rituali. La luna di miele durò trecento anni, ma quando finì Zeus in poco tempo tornò alle sue abitudini (aveva già avuto molte consorti e molti figli) e le fu ripetutamente infedele. Hera infine non è ricordata come esempio di amore materno, poiché i figli restano sempre in secondo piano rispetto all’amore per Zeus, e spesso sono trattati duramente o ignorati.
Il matrimonio tra Zeus ed Hera poteva dirsi pieno di passione ma spesso scoppiavano liti a causa della forte gelosia e possessività di Hera, che tuttavia si mostrava vendicativa non tanto col marito quanto con le rivali. Poco dopo il ritorno dal viaggio nozze, a causa di un feroce litigio Hera lasciò l’Olimpo per tornare nell’isola di Eubea a farsi consolare dalla sua vecchia nutrice Macris. Ma Zeus, volendo riconquistarla, escogitò uno stratagemma: scese sui monti di Eubea e fece spargere la voce di un suo prossimo matrimonio con una bella ninfa del luogo. Fece realizzare da uno scultore la statua di una bellissima donna di legno, la vestì con abiti sontuosi, la fece collocare su un carro e diede ordine al cocchiere di percorrere in lungo e in largo l’isola, spargendo la voce che egli portava la nuova sposa a Zeus. Ricevuta la notizia, Hera furibonda fermò il carro precipitandosi contro la rivale per strapparle le vesti. Quando però si accorse che si trattava di una statua, la dea rise, perdonò Zeus e tornò sull’Olimpo per ricongiungersi a lui.
Il mito di Zeus e Hera presenta dunque molteplici opportunità per valorizzare la storia di coppia di Giacomo e Anna, e per riflettere insieme su alcuni aspetti critici da trasformare.
Come Zeus, Giacomo proviene da una famiglia fortemente patriarcale, nella quale il potere è in mano agli uomini e passa di generazione in generazione al figlio più forte, mentre le donne restano subalterne e vengono integrate nella famiglia per rafforzarne il patrimonio e per dare continuità alla dinastia. Come il dio del mito, Giacomo è abile nel gestire il suo regno (un’azienda familiare fiorente e stimata), determinato ma giusto con i fratelli-soci, seduttivo con le belle donne (segretarie e collaboratrici) di cui si circonda. La donna che ha scelto di sposare, Anna, è di buona casata, è bella ma seria, aderente ai valori di coppia tradizionali, che vogliono la donna innanzitutto sposa e madre di quei figli che devono garantire una degna discendenza. Anna, come la dea del mito, è una donna di temperamento passionale, capace di esprimere con forza le proprie emozioni positive e negative, passando anche repentinamente dalla tenerezza all’ira. Come Hera è tanto devota al marito quanto gelosa di lui, e dirige la sua rabbia prevalentemente sulle altre, colpevoli di minare il suo prezioso rapporto coniugale. Ella ha inoltre rinunciato, fin da ragazza, ad obiettivi di realizzazione professionale, destinando tutte le sue energie all’ideale del matrimonio (lo hierogamos del mito): per Anna tutto, figli compresi, è subordinato al rapporto col consorte, non ha una vita sociale propria, è felice di essere riconosciuta come la moglie di Giacomo R., il noto imprenditore. Un matrimonio dunque basato su un contratto di coppia “tradizionale”, caratterizzato da ruoli e responsabilità delineate e su dinamiche complementari (valori comunque condivisi pienamente da entrambi), ma contraddistinto da emozioni intense che ne determinano quegli aspetti romantici e passionali che mantengono la coppia in una costante tensione emotiva, che rivitalizza periodicamente la loro unione.
Inizio raccontando loro alcune parti del mito e noto immediatamente interesse: sono gratificati dall’accostamento con la coppia più “vip” tra le divinità greco-romane. Entrambi mettono in gioco le rispettive reminescenze scolastiche, letterarie e cinematografiche in un clima tutto sommato giocoso, compare qualche ombra sul viso di Anna, ma la minaccia della separazione sembra messa momentaneamente da parte. Proseguendo il lavoro sul genogramma, le storie mi permettono di tanto in tanto di richiamare il mito. Inoltre chiedo loro di individuare i simboli che potrebbero rappresentare lo spirito delle rispettive famiglie di origine. Evidenziando la successione patrilineare nel genogramma di Giacomo e le assonanze col mito (ad esempio lui che prende il posto del padre, che a suo tempo aveva detronizzato il nonno, grazie all’alleanza con i fratelli), l’uomo immagina come simbolo della sua storia familiare un castello su una collina rotonda, un simbolo che rimanda al potere, ergendosi in alto, su una collina, ma anche agli spazi chiusi, fortificati, della sua famiglia. È un’occasione questa, per riflettere sul difficile rapporto con il padre: Giacomo, estroverso e dinamico, da ragazzo suonava la chitarra e avrebbe voluto studiare musica, cosa che il padre impedì senza discussioni. Giacomo racconta il momento in cui ha compreso che non poteva avere un progetto diverso da quello della famiglia, che era chiamato a ripercorrere le orme lasciate dal nonno e dal padre, di come si fosse sentito fagocitato dal padre, proprio come accade nel mito, quando Crono ingoia i figli. Colgo l’occasione per ricordare a Giacomo che però proprio Zeus escogitò lo stratagemma per interrompere quel ciclo e creare una nuova dinastia di dei, gli dei dell’Olimpo, ed egli sorpreso esclama “I miei figli! Loro sì che devono essere liberi!”, mentre Anna tace assentendo col capo.
Lavorando sul proprio genogramma, Anna evidenzia la nobiltà dei suoi antenati e l’importanza dei matrimoni che hanno unito casate e patrimoni. Come simbolo immagina un cerchio che per metà rappresenta il sole e per metà la luna, contornato da tre stelle: un simbolo che riporta all’unione di maschile (sole) e femminile (luna), circondati da stelle la cui etimologia riporta al desiderio (de-sidere). Il genogramma consente ad Anna di osservare il modo in cui si confronta con la sorella e il fratello, professionisti di successo. Risulta che Anna si è sempre sentita lontana dai genitori, molto all’antica e poco propensi a mostrare affetto. Descrive la madre come una donna pia, dedita alla vita in parrocchia, e il padre come una persona rigorosa e autorevole, benché capace di concedersi qualche svago con gli amici. Anna, diversa dai fratelli in carriera, si percepisce come fuori posto, cosicché nel tempo ha maturato una certa sfiducia in se stessa che l’ha portata a rinunciare ad una propria autonomia, cullandosi nel sogno di un matrimonio da favola, unico modo per essere apprezzata dal resto della famiglia e per uscirne a testa alta. Tuttavia, una volta sposatasi, l’insicurezza si accentua: diventata la moglie di un uomo importante, si dedica interamente a lui e alla superficiale vita di società che conducono, ma senza mai mettersi in gioco veramente. Le rispettive famiglie di origine sembrano soddisfatte e mantengono con loro buoni rapporti. Ma la favola per Anna si sgretola presto: con l’arrivo dei bambini, lei si sente di nuovo sola e inadeguata, percependo al contempo le “distrazioni” del marito e alternando momenti di rabbia a fasi di chiusura. La sua paura più grande è di perdere Giacomo, di non riuscire più a riconquistarlo.
A questo punto inserisco un altro mito collegato a Hera: la dea, di tanto in tanto, quando voleva riaccendere la passione del consorte, soleva farsi prestare da Afrodite il magico cinto, nel quale erano raccolti i suoi incantesimi di seduzione. Specifico che il mito si riferisce alle diverse dimensioni femminili presenti in ogni donna, comprese quelle della brava moglie e dell’amante seducente. Si apre così un capitolo sulla sfera intima della coppia, che consente ad entrambi di manifestare l’aspirazione a recuperare una complicità che sembrava perduta: Giacomo ammette di aver interpretato quei comportamenti di Anna legati ai dubbi sulle proprie capacità materne, come perdita di interesse sessuale, Anna inizia a considerare i comportamenti seduttivi del marito come impliciti richiami rivolti a lei, che nel tempo si è un po’ raffreddata. Chiedo di elaborare un simbolo che rappresenti la loro unione, e viene realizzato uno stemma dove, sopra al castello in cima alla collina, splendono il sole, la luna e le tre stelle, che secondo Giacomo rappresentano loro due e i figli (compreso il terzo da lui auspicato).
Negli incontri successivi, lasciando sempre in evidenza genogrammi e simboli, attraverso un confronto tra le due figure mitologiche e i membri della coppia, si evidenziano i lati positivi e quelli negativi dei ruoli che stanno giocando all’interno della loro unione. Giacomo, nella scia maschile lasciata dagli uomini della sua famiglia, riafferma, attraverso le presunte “distrazioni”, il proprio potere virile e simultaneamente provoca in Anna la riaccensione dei sentimenti più intensi, proprio quella rabbia e gelosia che, in definitiva, lo gratificano profondamente. Lei, d’altra parte, spinge il gioco con scenate e allontanamenti temporanei nel tentativo di garantire a se stessa la conferma di un ruolo, di un proprio posto, di una propria importanza, nella dinamica della sua nuova famiglia: ciò che sta chiedendo è di essere finalmente vista. Distrazioni e gelosie non sono altro che due facce della stessa medaglia: entrambi restano incastrati in ruoli tradizionali rigidi, pre-disposti dalle storie nelle rispettive famiglie. Il passo successivo consiste nell’esaminare alcuni script ripetitivi relativi ai ruoli di moglie e di marito, sfruttando le tipizzazioni offerte dal mito di Zeus e Hera, e vagliando le possibilità di raccoglierne i pregi ma anche di discostarsi, seppure leggermente, dai quei modelli prestigiosi ma ingombranti. Progressivamente scaturiscono piccoli cambiamenti nell’equilibrio di coppia: Anna, che si è tenuta sempre ai margini della vita aziendale, inizia ad occuparsi, con successo, degli avvenimenti di rappresentanza, organizzando eventi mondani e cene di raccolta fondi. Entra poi in una associazione di élite formata prevalentemente da mogli di imprenditori, iniziando ad avere una vita sociale propria, e guadagnandone ulteriormente in autostima. Giacomo dal canto suo manifesta la volontà di essere più presente in famiglia, delegando ai fratelli una serie di compiti e iniziando a passare almeno la domenica con la moglie e i figli, finalmente in attività puramente ludiche e ricreative: capita persino che in qualche occasione suoni la chitarra. Sembra sperimentare con Anna atteggiamenti più rassicuranti e meno provocatori, cosicché lei comincia a sentirsi più apprezzata e quindi può dedicare parte delle proprie energie a se stessa, sentendosi un po’ più sicura e meno gelosa. All’ottava e ultima seduta, decidiamo insieme che possono proseguire autonomamente e li congedo, ma non senza augurare loro altri trecento anni di luna di miele!
Il Pantheon come archivio di storie
Questo articolo non consente una descrizione completa dell’intero sviluppo del mio lavoro, ma voglio concludere riassumendo in modo didascalicoalcuni dei miti che impiego, cosciente del fatto che ciò renderà riduttivi gli spunti che condivido in questa sede. Fornirò quindi solo dei brevi esempi di come ho applicato la mitologia nel mio lavoro grazie al viaggio che ho raccontato, partendo dalle quindici figure principali del pantheon greco-romano. D’altra parte, come terapeuta cresciuta nel contesto milanese, sono fiduciosa nei confronti dei colleghi che avranno avuto la bontà di leggermi fino a questo punto, nella loro capacità di andare oltre queste poche righe.
Tra le divinità femminili, la figura di Era (o Giunone per gli antichi romani) si è rivelata utile nelle storie caratterizzate da adesione ai valori tradizionali del matrimonio, da dipendenza affettiva e difficoltà di relazione con il femminile. Demetra (o Cerere) per quelle in cui la dimensione materna (non necessariamente biologica), la propensione ad occuparsi degli altri prima che di se stessi e la tendenza al controllo dell’ambiente relazionale, siano preponderanti. Abbiamo già parlato di Kore-Persefone (o Proserpina), mito complesso e ricco di sfumature, utile per ridefinire in chiave evolutiva storie contrassegnate da crisi esistenziali, capacità di adattamento e resilienza, vissuti depressivi e burnout degli operatori, nonché le storie fondate sul “rapimento” dalla famiglia e l’iniziazione sessuale come passaggio dall’adolescenza all’età adulta, mentre il mito di Artemide (o Diana) si rivela valido nelle storie distinte dai temi legati all’autonomia personale, alla competitività professionale, alle relazioni simmetriche col maschile, alle relazioni intense col femminile, anche di natura amorosa. Il mito di Estia (Vesta) è produttivo nelle storie contraddistinte da scelte che limitano la vita affettiva e sociale in favore del mondo interiore, come la decisione di entrare in comunità religiose o di vivere isolate nel rigore e nella rinuncia. Afrodite (Venere) può risultare fruttuosa nelle storie marcate dai temi della libertà (anche sessuale) e della creatività, ma anche dalle difficoltà nel mantenere legami affettivi e impegni professionali, restando ancorati a livelli superficiali di relazione. Atena (Minerva) infine rappresenta un mito efficace nelle storie contrassegnate da rapporti intensi col padre, dalla difficoltà nel coinvolgersi emotivamente con gli uomini, dalla prevalenza del pensiero sull’emozione e quindi dell’autocontrollo, da una impostazione patriarcale nei rapporti con il femminile.
In campo maschile, Zeus (o Giove) può rappresentare un mito utile per esaminare e riorganizzare storie centrate su questioni di potere in ambito familiare e professionale, su valori di coppia tradizionali e relazioni fortemente complementari, mentre Poseidone (o Nettuno) per storie caratterizzate da difficoltà nel gestire le proprie emozioni e da passioni violente, compresi i maltrattamenti alternati a pentimento. Ade (o Plutone) è funzionale nelle storie legate al rapporto col mondo interiore e con tutto ciò che in esso viene sepolto, o storie basate sulla tendenza a coinvolgersi affettivamente con un femminile ancora immaturo per iniziarlo e formarlo, ed Apollo un mito vantaggioso nelle storie fondate su rapporti privilegiati col padre, su relazioni simmetriche col femminile e sulla ricerca della perfezione, nonché sul coinvolgimento intenso col proprio sesso. Ermes (Mercurio) è indicato per approfondire storie collegate alla fuga dalle responsabilità e dai legami duraturi, alla manipolazione e alla seduttività, alle condotte ai limiti della legalità, Ares (o Marte) invece per quelle contraddistinte da una eccessiva facilità a “gettarsi nella mischia”, agendo prima di pensare, come da rapporti viscerali e intensi, nei quali la dimensione corporea è primaria, tanto nella lotta quanto nella sfera affettiva. Efesto (o Vulcano) si collega brillantemente all’esclusione familiare o sociale causata da diversità di varia natura, alla resilienza e alla capacità di esprimersi e realizzarsi in modo originale, in particolare nelle attività manuali, infine Dioniso si rivela un mito utile per esplorare e ristrutturare storie segnate da abuso di sostanze, forte instabilità, condotte a rischio e ricerca di esperienze estreme, anche sessuali, fuori dai canoni sociali.
Una conclusione provvisoria
Una decina di anni fa, nel giro di poco tempo, persi partner, casa e lavoro. Ne seguì una crisi profonda, che allontanò da me anche molti amici e colleghi, rendendo la mia vita una sorta di distesa di terra bruciata. Non mi vergogno nel rivelare che ebbi bisogno di ricorrere io stessa ad un aiuto terapeutico, che scelsi accuratamente in base alla distanza dal pensiero sistemico, per evitare di cadere nella trappola del “so bene io come funziona”. Costretta mio malgrado (ero molto rigida rispetto alla coerenza teorico-pratica) a vagliare nuovi punti di vista, mi scontrai col mito che in quel preciso momento mi rappresentava, ma da quell’impatto violento emerse tanto materiale prezioso. Mi chiesi se avrei dovuto ignorare le possibilità che mi si offrivano, magari in nome di un certo purismo, invece scelsi non solo di farmene ispirare, ma di risignificare l’intero mio viaggio, integrando quel materiale nel modo che ho cercato di sintetizzare brevemente in questo articolo. Confesso che la destinazione mi è tuttora ignota, ma da allora il gusto della ricerca non mi ha più abbandonato. D’altro canto, Gianfranco Cecchin, in “Verità e pregiudizi” ci ricorda “il potenziale pericolo a cui va incontro un terapeuta se diventa eccessivamente fanatico verso uno specifico orientamento, poiché, quando ciò effettivamente avviene, egli pone l’adesione al modello al di sopra dei bisogni del cliente”.
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