Le esperienze degli allievi, degli ex-allievi e degli allievi didatti delle Sedi della Scuola sulla violenza presentate al Congresso Nazionale delle Scuole del Centro Milanese di Terapia della Famiglia
a cura di Ada Piselli e Barbara Trotta
Interventi di Daniela Rosolen, Eugenio Bedini, Patrizia Zantedeschi, Benedetta Pradolin, Eleonora Lozzi, Federica Marassi, Maria Rosaria Como
LA VIOLENZA DI GENERE E GLI ADOLESCENTI
Daniela Rosolen, Eidos, sede di Treviso, allieva didatta
Eugenio Bedini, Eidos, sede di Teviso, allievo didatta
Il CMTF quest’anno ha voluto dedicare il suo annuale Congresso Nazionale al tema “Violenza e famiglie”. Le attività ideate e sviluppate per contrastare questo fenomeno sia in ambito clinico di cura sia in quello riparatorio di tutela delle vittime sono molteplici ed articolate, a testimonianza della complessità del problema che è chiamato a confrontarsi sia con la dimensione individuale sia quella socioculturale.
Eidos con l’occasione ha presentato un lavoro volto a costruire un progetto di prevenzione dedicato agli adolescenti e da applicare nelle scuole medie superiori. Si tratta di un lavoro di ricerca sulla violenza di genere, per sviluppare un progetto capace di integrare, secondo il modello sistemico, iniziative di prevenzione con processi di promozione al benessere. In breve per prevenzione si intende una attività tesa a ridurre i fattori di rischio connessi all’insorgere del problema mentre per promozione si intendono quelle attività positive capaci di rallentare lo sviluppo stesso del problema.
A questo scopo è stata attivata, come primo passaggio, una ricerca qualitativa rivolta ad una popolazione adolescenziale consistente in 48 giovani, di età compresa fra i 16 e i 18 anni, equamente suddivisi fra maschi e femmine, scelti in un Liceo e in un Istituto Tecnico di due differenti località, Pordenone e Treviso. Il campione è stato suddiviso in quattro gruppi, che si sono incontrati ognuno per due volte, con il compito di confrontarsi in merito ai temi posti dal conduttore.
Lo strumento di indagine utilizzato è il Focus Group.
Brevemente si ricorda come il Focus Group consista in un’intervista in gruppo, semi-strutturata, dove viene chiesto ai vari partecipanti un confronto rispetto ai diversi aspetti del fenomeno da studiare. Il Focus Group Sistemico, utilizzato in questa ricerca, presenta rispetto al modello originale due caratteristiche innovative: la sospensione del giudizio e la presenza di domande circolari, il tutto finalizzato a ridurre il conflitto, favorire l’ascolto e la contaminazione delle idee.
Obiettivo del lavoro: raccogliere i pensieri e le idee che i giovani hanno sul tema della violenza di genere per comprendere la loro descrizione del problema, la dimensione emotiva e le possibili posizioni valutative e di soluzione dello stesso. Successivamente questo materiale porterà alla formulazione di questionari i cui risultati costituiranno la base per la costruzione del progetto finale.
Veniamo ora ai contenuti rilevati dall’indagine qualitativa.
Sulla base di quanto emerso dalle interviste, abbiamo scelto di suddividere i risultati in quattro macro-categorie: Definizione, Prossimità, Motivo della Violenza, Motivo dell’Omertà.
In breve i risultati:
Primo punto: la Definizione di Violenza.
Si evidenzia la capacità di guardare alla violenza in modo articolato, infatti, accanto alla dimensione prettamente fisica, viene dato spazio anche alla componente psicologica ed emotiva, descritte come mancanza di rispetto, disagio, ferite verbali accanto alle ferite fisiche e al danno. Assolutamente degno di nota è il prevalere di una esplicita connessione della violenza alla dimensione sessuale. Altro elemento interessante è come non si rilevino sostanziali differenze tra i maschi e le femmine, per quanto riguarda le affermazioni esposte.
Secondo punto: la Prossimità.
Per prossimità si intende la misura del grado di vicinanza percepito dall’intervistato rispetto all’esperienza di violenza di genere. Le risposte ottenute hanno evidenziato due elementi interessanti. Innanzitutto, una significativa differenza fra maschi e femmine. Sono decisamente queste ultime quelle che dichiarano una maggiore prossimità ad esperienze di violenza. Mentre per i maschi le esperienze evocate sono indirette, si riferiscono infatti ad eventi riportati da amici o compagni di classe, per le femmine il riferimento è più diretto, vale a dire famiglie conosciute, oppure la famiglia allargata.
Gli intervistati descrivono tale fenomeno come generazionale. Affermano infatti di vedere queste manifestazioni soprattutto nella relazione di coppia dei “nonni” mentre brilla per la sua assenza la descrizione dei propri genitori che non vengono “citati” in alcun senso, né positivo né negativo. Si sottolinea infine come, per la maggior parte dei ragazzi, le fonti di conoscenza siano i mass media, quindi telegiornali e stampa, ma anche e soprattutto Instagram ed ancora, elemento da evidenziare, i testi delle canzoni.
Terzo punto: Motivo della Violenza.
Per quanto riguarda le spiegazioni date alla violenza di genere, sia i maschi che le femmine riferiscono come la gelosia, il tradimento, il desiderio di potere, la mancanza di rispetto siano i fattori più rilevanti. Le descrizioni usate sembrano connettere il comportamento violento ad un patto violato, ad un accordo di coppia, dato per implicito, e non rispettato anche se in termini differenti: se i maschi parlano di autorità maschile e di obbedienza, le femmine parlano di prevaricazione e di scarsa considerazione da parte del partner.
Quarto punto: Motivo dell’Omertà.
Infine, in merito al motivo che impedisce alla vittima di denunciare la violenza, emerge una differenza di motivazioni. Mentre il maschio si sente svalutato e si vergogna di ammettere di essere stato oggetto di violenza da parte di una donna, la donna, invece, non denuncia fondamentalmente per paura, teme di peggiorare la situazione, di subire ulteriore aggressività, come la ritorsione da parte del partner violento. Un’ultima annotazione rispetto a questa area: i partecipanti assegnano alla donna il ruolo di vittima ed al maschio quello di persecutore.
Riflessioni conclusive.
Questa prima fase ricognitiva della ricerca mette in luce numerose domande utili per il proseguimento del lavoro. Eccone alcune:
- Come mai pur nella differenza fra i generi esiste una sostanziale omogeneità di risposte, quasi un appiattimento di lettura del fenomeno?
- Come leggere il fatto che gli intervistati fanno riferimento alla violenza di genere riferendosi esclusivamente alla coppia?
- Cosa può significare il fatto che i maschi si sentano meno “prossimi” alla violenza di genere?
- Come leggere il fatto che né la scuola, né la famiglia o la comunità sono viste come fonte per la conoscenza e la riflessione sul tema?
Su questo e su molto altro sta lavorando il team di ricerca ipotizzando nuovi percorsi di approfondimento. Quanto fin qui raccolto ci sta confermando nella necessità e nell’utilità dell’ottica sistemica in un campo, quello della prevenzione, fondamentale e troppo trascurato.
Concludiamo con una frase tratta dalle nostre interviste: “Dobbiamo essere consapevoli del fatto che i comportamenti violenti sono presenti ovunque nella società, nelle coppie e anche verso i diversi. Quindi prima di tutto non bisogna ignorare il problema, poi iniziare a educare i giovani perché agire su chi ormai si è formato, ha i suoi ideali, i suoi modi di pensare sarebbe inutile.”
IL FENOMENO DELLA VIOLENZA MASCHILE SULLE DONNE PRESENTAZIONE DEL LAVORO DEL CENTRO ANTIVIOLENZA DI PADOVA
Patrizia Zantedeschi, Benedetta Pradolin, Eleonora Lozzi, CPTF, ex-allieve
La violenza nei confronti delle donne nelle sue varie forme, è un fenomeno complesso che interessa aspetti relazionali e comportamenti sociali che rimangono in gran parte sommersi, lontani dallo sguardo dell’osservatore. Si tratta quindi di una realtà difficilmente semplificabile. Per questo si definisce come fenomeno trasversale che può interessare ogni Paese, tutte le etnie e i gruppi religiosi, ogni livello socioeconomico e culturale e non è ascrivibile a particolari caratteristiche psicopatologiche né dell’autore né della sua vittima.
La violenza nelle relazioni intime si caratterizza come un processo nel corso del quale, nell’ambito di un rapporto di coppia (tra coniugi, conviventi, fidanzati o ex), si stabiliscono e si perpetuano dinamiche di dominio e di controllo, attraverso l’utilizzo della forza e l’esercizio del potere di un partner sull’altro.
La violenza di genere è un fenomeno dai caratteri ambigui, estremamente complessi, dai confini apparentemente labili e che si declina in differenti contesti che rendono spesso difficile riconoscerla come tale dalle donne vittime, dalle persone vicine a questa, da chi lo agisce, dalla società e dalle figure professionali con la quale entrano in contatto, come le forze dell’ordine e gli operatori socio-sanitari. È importante prendere consapevolezza della sua matrice culturale e della sua radicalizzazione nella società per provare a decostruirla; nonostante le cronache di media e stampa raccontino di un fenomeno emergenziale, in cui hanno un peso rilevante raptus di gelosia e troppo amore, in realtà non si tratta di un fenomeno in crescita, ma di un dato strutturale e trasversale alle culture, alle società, ai governi, all’estrazione sociale di chi la agisce e di chi la subisce.
In Italia, così come nel resto del mondo, i principali attori del contrasto alla violenza di genere sono i Centri Antiviolenza, che fin dalla loro origine, concomitante al periodo di massima affermazione del movimento femminista degli anni ‘70, rappresentano la risposta più strutturata e consolidata al fenomeno.
I Centri Antiviolenza hanno rappresentato un fattore di vitale importanza nello sviluppo sociale, non solo fornendo a donne e bambini un rifugio sicuro, ma anche promuovendo una politica di uguali diritti e opportunità per uomini e donne, e sostenendo il diritto fondamentale all’integrità fisica, psichica e mentale.
I Centri antiviolenza sono strutture che offrono servizi gratuiti di consulenza psicologica e legale, di orientamento al lavoro, ai servizi sanitari e ai servizi sociali presenti sul territorio, e nei casi più gravi, quando il servizio lo consente, offrono strutture di prima e seconda accoglienza a indirizzo segreto dove le donne e i minori con loro possono trovare adeguata protezione.
Un Centro Antiviolenza ha come obiettivo precipuo di offrire accoglienza e ascolto a tutte le donne, senza alcuna discriminazione, che vivono situazioni di violenza intra o extra familiare o situazioni di difficoltà relazionali e/o personali, attraverso approcci operativi e principi base, studiati ad hoc per rispondere alle esigenze dell’utenza. Il principio guida, che ispira il lavoro delle operatrici, è una forte consapevolezza che il traguardo più importante da raggiungere è sviluppare l’empowerment delle singole donne, aumentarne l’autostima, tramite la messa a punto di percorsi che pongano le basi per una vita indipendente, autonoma e libera dalla violenza. La donna che si rivolge a un servizio d’aiuto come un Centro Antiviolenza è una donna che ha sempre vissuto in una posizione di subordinazione. Coinvolgerla attivamente nel percorso di fuoriuscita dal circuito della violenza senza in alcun modo sostituire il potere del partner è la strategia vincente per raggiungere l’obiettivo.
Il Centro Antiviolenza è un luogo di transito verso l’autonomia, un luogo per sottrarsi alla violenza e un luogo per avvicinarsi alla libertà. Dar credito al racconto della vittima è il primo step per instaurare un rapporto di reale reciprocità con la donna.
Il Centro Veneto Progetti Donna in trent’anni di esperienza ha incontrato, accolto ed ascoltato più di 6000 donne della provincia di Padova; il servizio offerto, dall’accoglienza alla presa in carico e gestione dei casi, si basa sul presupposto che la donna è un soggetto attivo, in grado di essere artefice del proprio cambiamento personale e relazionale, attraverso l’attivazione delle risorse individuali, familiari e sociali che possiede. Nei casi di violenza e abuso l’obiettivo è dare supporto alle donne che vivono situazioni di disagio e favorire percorsi di crescita personale, a partire da una visione del problema che tiene conto non solo degli aspetti individuali, ma anche delle dinamiche relazionali, sociali e culturali, mantenendo sempre al centro dell’attenzione la donna e sempre con lo sguardo al rispetto dei suoi diritti e alla sicurezza.
LA VIOLENZA DI GENERE: RIFLESSIONI SISTEMICHE DI UN OPERATORE DI POLIZIA
Federica Marassi, CPTF, sede di Trieste, allieva I anno
Sono Federica Marassi, psicologa, psicoterapeuta in formazione, iscritta al primo anno della scuola di specializzazione in psicoterapia sistemico relazionale presso il Centro Padovano di Terapia della Famiglia. Nella vita lavorativa di tutti i giorni, però, sono un ufficiale di polizia giudiziaria, responsabile di un nucleo investigativo che si occupa di reati quali maltrattamenti, violenza sessuale, abusi e atti persecutori (il c.d. “stalking”).
Va detto che, quando si parla di contrasto alla violenza intrafamiliare e di genere, non si può prescindere dal lavorare in rete con tutte le figure professionali coinvolte che, di fatto, costituiscono il sistema. Questo mi è sempre stato chiaro ed è, fatto oramai condiviso, la conditio sine qua non per poter lavorare efficacemente a favore della vittima. Ciò nonostante, sto notando che il percorso formativo sistemico che ho appena iniziato mi sta facendo cogliere connessioni e dinamiche che, fino ad ora, mi erano meno evidenti, ma che erano sempre lì: bastava indossare gli occhiali adatti per poterle vedere.
Vorrei allora offrire uno spaccato dell’attività di contrasto alla violenza da un punto di osservazione peculiare, quello dell’operatore di polizia, dandone una mia lettura sistemica.
Al di là dell’intervento in flagranza di soccorso alla vittima, nel momento in cui la violenza viene agita, l’attività di polizia giudiziaria si sviluppa anche con molte altre modalità. Ad esempio, importante è l’attività di ricezione delle querele (e, quindi, dei racconti) da parte delle vittime che decidono di denunciare in un momento qualunque della loro storia di violenza. Ancora, determinante è l’acquisizione delle denunce da parte di altre persone che, a vario titolo, sanno della violenza. Quindi, a seguito di quanto appena descritto, viene trasmessa una notizia di reato all’Autorità Giudiziaria, che a sua volta delega le indagini successive. Tale attività delegata, in gran parte, si concretizza nel raccogliere i racconti di tutti coloro che hanno cognizione, diretta o de relato, di quella situazione di violenza. Ciò comporta ascoltare la narrazione degli amici, parenti, colleghi, medici e professionisti vari della salute, dell’educazione e dell’assistenza. Di fatto, si tratta di ricostruire il sistema della vittima e di rintracciare ed entrare in contatto con tutte le persone che ne fanno parte, avendo la possibilità di “osservare” contesti, premesse, relazioni e reazioni di ogni soggetto nei confronti della vittima e della violenza subita, della vittima stessa nei confronti del sistema e di come tale interazione influenzi la decisione della vittima di non denunciare e di rimanere nella situazione di violenza o, viceversa, di uscirne.
Nelle narrazioni delle persone sopra elencate, ho avuto spesso occasione di imbattermi in dinamiche di trasmissione trigenerazionale della violenza: ho sentito vittime narrare di vissuti violenti nelle famiglie di origine (e riferire di analoghi vissuti dei loro genitori) oppure dare giustificazioni in merito al comportamento del maltrattante in quanto anche lui esposto a violenza assistita o diretta da piccolo. Ho avuto l’occasione di sentire persone che, pur a conoscenza della violenza, non hanno agito né raccontato (oppure si sono espresse a favore del mantenimento della relazione come bene superiore, anche a discapito della sofferenza ed incolumità della vittima e di eventuali figli), descrivendola come una modalità relazionale tutto sommato “normale” ed accettabile, perché vissuta come tale nella loro storia familiare, fin da piccoli. Questo “non agire” da parte di persone significative che, nella relazione, avrebbero invece avuto la possibilità di farlo è, a mio parere, un messaggio chiaro e potente di disconferma della vittima e della violenza subita. Mi vengono alla memoria molte situazioni in cui, il solo fatto che qualcuno si fosse mosso a favore della vittima, avendola quindi ascoltata, vista e confermata, avesse potentemente influito (almeno sul risultato comportamentale da me osservato) sulla decisione della stessa di trovare una propria via di uscita dalla relazione violenta. Il solo creare il giusto spazio di ascolto e conferma alla narrazione della violenza fa, nella mia esperienza, la differenza: ciò, ritengo, possa valere analogamente per il medico di pronto soccorso, che sa di dover ascoltare la vittima da sola, lontano da eventuali accompagnatori; oppure per i medici di medicina generale che, creando spazio adeguato e dando ascolto, possono far emergere molta violenza sommersa (se è vero che, come dicono le statistiche, circa un terzo delle donne-e quindi delle loro pazienti- subisce violenza); o ancora per gli assistenti sociali, per gli educatori ed insegnanti, che possono intercettare situazioni di disagio nei minori (considerando anche l’alta correlazione tra violenza agita sulla madre e violenza agita sui figli); o anche per l’operatore di polizia che deve ascoltare, accogliere, non giudicare la vittima nella scelta (fosse anche la scelta di rimanere nella relazione violenta); oppure infine per l’autorità giudiziaria, che deve saper valutare il reale significato di querele ritirate, ritorni a casa delle vittime nonostante le denunce, o reticenza nella testimonianza. Ancora, tutte queste figure devono essere connesse e parlare un linguaggio condiviso.
Per poter fare ciò, è necessaria un’idonea formazione di tutte le professionalità coinvolte che, di fatto, costituiscono il grande sovra sistema in cui la vittima è al centro, rendendo possibile la comprensione dell’influenza del contesto della vittima sulle sue scelte. Mi spingo oltre: la formazione dovrebbe rendere consapevoli tutti gli elementi del sistema di come loro stessi influenzino la vittima, essendo essi stessi il contesto.
Per quanto concerne il ruolo dell’operatore di polizia, questo aspetto ha estrema rilevanza, soprattutto nel caso in cui accolga la prima rivelazione di una lunga storia di maltrattamenti. Mi è capitato spesso di sentire il primo racconto di vittime relativo a violenze fisiche o sessuali, o vessazioni ed umiliazioni di varia natura, che le stesse interpretavano con la punteggiatura di atti e comportamenti ritenuti come normale routine coniugale, pur provando sofferenza. E quindi, un adeguato spazio di ascolto attivo ed empatico da parte dell’operatore di polizia, che sappia ascoltare e nominare la violenza in quanto tale, rimandando alla vittima la reale valenza degli atti subiti, fornendo nuove premesse, può aiutare la vittima nel processo di risignificazione, dando una punteggiatura diversa, che sia congruente con la sofferenza da lei provata. Allora, un rapporto sessuale subito contro la propria volontà, uno schiaffo ricevuto per un errore commesso, la privazione della libertà in nome di un senso di “reciproca appartenenza”, il dover raccogliere in ginocchio, dinnanzi ai figli, un piatto di cibo lanciato per terra dal maltrattante perché non cotto a regola d’arte, solo per citare alcuni dei racconti che ho ascoltato, possono, in alcune circostanze, venir visti dalla vittima in modo nuovo: non più come fatti che fanno parte della vita di coppia, ma come violenze e fonti di sofferenza che è possibile e lecito non accettare.
Non è dato sapere all’operatore se questa diversa punteggiatura offerta e, a volte, apparentemente fatta propria, possa portare ad un cambiamento di tipo 1 (denuncia, allontanamento momentaneo dal maltrattante, messa in sicurezza di sé e di eventuali figli, interruzione della relazione) o ad un deuterocambiamento nel sistema (conferma della querela, non ritorno dal maltrattante, rottura definitiva e, più avanti, il non “ricadere” in ulteriori nuove relazioni violente): di certo, però, il primo contatto con l’operatore di polizia costituisce il primo contatto con il sistema giudiziario, con cui la vittima entra in contatto, che influirà molto sulle successive decisioni della vittima, qualora si senta accolta, creduta e confermata. E di questo, sarebbe bene che l’operatore fosse consapevole.
Questa consapevolezza dell’agente o ufficiale di polizia dovrebbe riguardare non soltanto le caratteristiche della violenza, le reazioni della vittima, del maltrattante ecc., ma anche le proprie premesse culturali, i propri miti familiari, i propri pregiudizi sull’argomento, il modo in cui questi influenzano i propri atti comunicativi (verbali e non verbali) nei confronti della vittima, e l’influenza che questi possono avere su di essa, anche in forza dell’aspetto relazionale del messaggi, dato dal ruolo “di potere” che il poliziotto può ricoprire in questi frangenti.
A tale proposito, è mia opinione che la relazione con la vittima evidenzi caratteristiche di complementarietà (che non deve essere rigida): l’operatore di polizia può pure ricoprire la posizione one-up quando mette a disposizione le proprie competenze tecniche, il proprio ruolo, la propria istituzione per proteggere la vittima, è però quest’ultima che, in merito alla sua vita, alla sua storia, alle proprie premesse ed alle sue scelte, dovrebbe poter assumere un ruolo one-up. Questo ritengo sia un aspetto importante: essere protagonista attivo trasmette alla persona il messaggio di avere in mano la propria vita, non relegandola al ruolo di vittima. La realtà, in alcuni casi è, purtroppo, anche se necessariamente diversa: spesso la persona si rivolge alla polizia per un “consulto”, non essendo ancora decisa sul da farsi, ma i fatti riportati costituiscono reati procedibili d’ufficio, che devono essere obbligatoriamente comunicati all’Autorità Giudiziaria senza ritardo. In questi casi, il timing del sistema giudiziario e quello della vittima, purtroppo, non coincidono. In tali frangenti, pur dovendo agire contro quella che è, in quel momento, la volontà della vittima (che subisce, in questo modo, un’ulteriore inevitabile ”violenza” o, se non altro, costrizione, da parte del sistema allargato, anche se con finalità benevole), ritengo sia importante rendere comunque partecipe la vittima di tutto quello che si sta facendo e che si farà, e le motivazioni per cui ciò verrà fatto. La narrazione della vittima verrà forse parzialmente rifiutata, ma verrà vista e non disconfermata.
Da quanto finora detto, appare chiaro come vittima e operatore di polizia facciano parte dello stesso sottosistema e come il comportamento del secondo abbia una grande influenza sul comportamento della prima. Ciò, ovviamente, vale anche in senso contrario: la vittima, il suo racconto, la sua capacità di autodeterminazione e/o la non capacità/volontà di uscire dalla situazione della violenza hanno una grande influenza sulle reazioni dell’operatore, anche in termini emotivi, dovendo egli ad esempio prendere delle scelte operative contrastanti con la volontà di quel momento della donna, oppure dovendo accettare la decisione della donna di tornare in una situazione di pericolo, senza poter fare nulla in suo aiuto, non essendoci una querela da parte della stessa (in caso di reati non perseguibili d’ufficio), con reazioni emotive e comportamentali dipendenti dalle proprie premesse e dalla propria storia.
Infine, l’operatore di polizia è parte anche del proprio “sistema”, costituito dalla propria istituzione e gruppo di lavoro, entro il quale ritengo sia determinante condividere cultura, regole e valori, e che costituisce un prezioso spazio, a sua volta, di ascolto e decompressione a favore dell’operatore stesso, esposto alla sofferenza altrui, a volte con emozioni quali rabbia e impotenza.
Ma, ancora prima, l’operatore fa parte del suo sistema famigliare (trigenerazionale) e, quando si trova nella stanza di audizione delle vittime, un po’ come un terapeuta dinnanzi al cliente, porta con sé un intero mondo, di cui è importante essere consapevoli.
LA CONSULENZA TECNICA D’UFFICIO SISTEMICA: UN PERCORSO DI COSTRUZIONE DIALOGICA DI SIGNIFICATI
Maria Rosaria Como, CMTF, Sede di Palermo, allieva didatta
Secondo un modello operativo sistemico, la Consulenza Tecnica d’Ufficio (CTU) nel procedimento minorile si inserisce nel contesto della tutela giuridica ed entro una più ampia rete di intervento che include le molteplici agenzie coinvolte sul piano sociale, educativo, sanitario e giuridico.
La richiesta rivolta al Consulente Tecnico è quella di giungere alla formulazione di un programma “definitivo” a tutela del minore e degli altri componenti della famiglia.
In particolare, i quesiti posti dal giudice minorile richiedono di “effettuare un esame psicodiagnostico sulla personalità dei genitori e dei figli” e di “osservare la qualità delle relazioni tra genitori e figli”, ossia di analizzare “le rappresentazioni delle relazioni di attaccamento”, nonché di valutare le competenze e la recuperabilità dei genitori, esprimendo un parere diagnostico e prognostico.
La consulenza va, pertanto, considerata come un percorso che assume “significati dinamici” attraverso la valutazione dei potenziali evolutivi e trasformativi possibili.
Il processo di formulazione di ipotesi necessita di un impianto teorico-metodologico complesso, attraverso cui il consulente potrà sviluppare congiuntamente, secondo una prospettiva ecologica, più livelli di analisi:
a) un piano verticale attraverso cui considerare le vicende trigenerazionali, la storia infantile e adolescenziale di ciascun genitore, solitamente costellata da carenze e/o da un distacco precoce dalle figure di attaccamento;
b) un piano orizzontale attraverso cui analizzare gli aspetti relativi alla delusione coniugale conseguente alle attese riparative che ciascuno dei due partner potrebbe aver eccessivamente trasferito sull’altro, rendendone impossibile il soddisfacimento. Le dinamiche che ruotano attorno a tale delusione possono, a loro volta, far luce su ciò che ha impedito di fare un adeguato investimento affettivo sul/i figlio/i;
c) un piano circolare attraverso cui includere gli elementi raccolti in fasi precedenti dell’intervento di tutela dagli operatori psico-sociali che si sono occupati del caso nel corso della rilevazione, segnalazione, indagine e messa in protezione. Tali dati, o “segnavia” nel percorso di valutazione, possono essere raccolti attraverso inchieste sociali, quali strumenti utili a connettere i significati dei diversi apporti professionali entro la rete di intervento, integrando fattori, azioni ed esiti nel corso di tempi specifici.
Le risposte ai quesiti sono rese possibili da una psicodiagnosi familiare e sociale che dovrà primariamente considerare le relazioni tra i componenti della famiglia ed il grado di modificabilità di tali rapporti.
Gli strumenti utilizzabili, secondo una logica sistemica di osservazione, coinvolgono canali espressivi e di funzionamento differenti che forniscono dati interconnessi e utili alle ipotesi emergenti.
Più specificamente, il focus di analisi si orienta verso il modello offerto dal Lausanne Trialogue Play, attraverso cui applicare strumenti differenti, quali: interviste (Assessment of Parental Skills – Interview, APS-I; Adult Attachment Interview, AAI); checklist (TSCYC; TSCC); metodi obiettivi e proiettivi di valutazione (Family Aptitude Test e altre tecniche di appercezione; Parent Preference Test, PPT; McArthur Story Stem Battery; Test del Villaggio e Scenotest; Test grafici; Mappe relazionali).
In particolare, la scelta del formato da dare agli incontri, ossia la scelta su chi convocare, significa determinare la composizione del gruppo familiare con cui si lavorerà, prefigurando gli argomenti che potranno essere trattati: il colloquio individuale con l’adulto permetterà la narrazione della storia personale relativa alla propria famiglia di origine caratterizzata da specifici miti e pregiudizi; gli incontri congiunti, laddove realizzabili, risulteranno preziosi per osservare i rapporti creati tra i due partner, le alleanze intessute con e tra i figli, nonché i pattern ripetitivi che ricorrono nella storia familiare. Il genitore potrà essere accompagnato verso una presa di contatto con la sua sofferenza di bambino, in modo tale che possa empatizzare con quella sofferenza vissuta dai propri figli, così da riflettere sulla catena della ripetizione.
Durante i colloqui, il consulente da un lato dovrà facilitare il processo di attribuzione di significato ai comportamenti sfavorevoli per il/i minore/i, arricchendo la gamma di spiegazioni possibili rispetto ad azioni sintomatiche o inaccettabili eventualmente tenute dagli adulti, dall’altro dovrà contrastare il ricorso alla negazione da parte dei membri della famiglia.
Lo sforzo strategico di osservare i processi che tengono in vita i giochi familiari consente, dunque, di individuare e dare senso alle regole di relazione e di interazione che articolano dinamiche quasi sempre confusive, invasive, aggressive e seduttive. L’attenzione per la totalità del sistema familiare, composto non solo dai membri concretamente incontrati, ma anche dai figli non convocati o non più presenti nella famiglia perché adottati da nuovi nuclei, permette di uscire da una logica lineare, focalizzando l’attenzione sui ruoli di ognuno dei componenti che hanno mantenuto l’equilibrio di un sistema. Entro tale contesto diventano, inoltre, contemplabili gli eventuali attaccamenti, seppure alternativi e temporanei, che i minori hanno stabilito in nuovi contesti protettivi con figure vicarie di riferimento.
La formulazione delle ipotesi, questione di importanza centrale anche nello svolgimento di una consulenza peritale, diviene utile nel mantenere un ruolo attivo nella consulenza stessa, cercando di non rimanere in balia della famiglia, piuttosto conducendola verso un terreno pregnante capace di stimolare reazioni che possono chiarire aspetti importanti su quanto indagato.
Il cambiare di volta in volta idealmente “sedia”, immaginando il posto occupato dall’altro, consente una presa di contatto con emozioni intense e spesso contrapposte, riconoscendo e nominando sia quelle sentite come più utili (es. confusione, paura, dolore, tenerezza) che quelle avvertite come ostacoli (es. rabbia, disgusto) nel mantenersi presenti e concentrati su quanto via via costruito.
Le caratteristiche assunte dal contesto peritale ne sintetizzano le finalità in un processo di realizzazione della miglior tutela attraverso un progetto unico, ma il più ampio e articolato possibile.