di Silvana Quadrino con Alberto Madrigal
UPPA, Roma, 2023
Letto da Massimo Giuliani
C’è una questione che qualcuno di noi continua a sentire come rilevante per i terapeuti sistemici, e riguarda lo sviluppo di linguaggi utili a parlare con qualcuno che non sia la nostra comunità.
È una questione che secondo me è parte integrante del lavoro sistemico, è in continuità con quello che facciamo come clinici. Non è un’abilità in più, accessoria, non viene dopo. Il lavoro sistemico dalla sua origine è anche un lavoro sul linguaggio, ben al di là di una questione di forma: superare i linguaggi esperti per tradurli nelle esperienze delle persone è in fondo il nodo della questione, per esempio nel momento dell’intervento finale: il terapeuta restituisce la propria visione e le proprie ipotesi alla famiglia parlando il linguaggio della famiglia, non usando il proprio gergo esperto. E per usare la lingua che parlano le persone deve conoscerla. Deve conoscere la psicologia popolare con la quale le persone interpretano il mondo e le teorie psicologiche di quella data famiglia.
Non è soltanto maquillage linguistico, è una posizione che il clinico assume coerentemente con la teoria: perché è una posizione che cambia il rapporto tra terapeuta e pazienti e sposta buona parte della responsabilità del cambiamento sulle persone. Costruisce un contesto in cui le persone sono riconosciute come capaci, sono loro che attuano cambiamenti. Insomma, parlare come persone normali fa lavorare le persone e non (solo) i terapeuti.
In questa ricerca Silvana Quadrino coltiva con risultati molto interessanti un “sottogenere” della letteratura, per dirla con una parola controversa, divulgativa: quello che ha a che fare col parlare con i genitori.
Di recente la sua collaborazione con UPPA (che è una casa editrice con una storia interessante) ha prodotto Vita da genitori, vita da bambini, un libro realizzato in collaborazione con Alberto Madrigal, illustratore e fumettista di origine spagnola (pubblicato in Italia da Bao Publishing, che per i cultori vuol dire qualcosa). Già nei primi mesi dall’uscita il libro ha avuto un riscontro di pubblico formidabile e la cosa non ci meraviglia affatto.
Il rapporto fra genitori, figli e scuola è raccontato attraverso brevi storie, situazioni osservate da vicino, che vedono al centro alcune famiglie con i loro figli preadolescenti. Il palcoscenico è quello della scuola e gli elementi che collegano tutte le storie sono Alice (sette anni, sorella di Milo, figlia di Livia e Gianni, che è la voce narrante che introduce i lettori nel mondo dei personaggi), ma soprattutto la psicologa che lavora con la scuola, che si chiama Silvana (guarda un po’!) e che le matite e gli acquerelli di Madrigal ritraggono stranamente somigliante all’autrice.
Vita da genitori, vita da bambini è un libro che non poteva essere diverso da com’è. Una storia come questa doveva necessariamente essere disegnata. Perché è una storia di sguardi: ci sono i ragazzi che guardano gli adulti che li guardano — e guardano il modo in cui li guardano; guardano come gli adulti si guardano gli uni con gli altri e il modo in cui altri adulti si fanno delle idee sui loro genitori. E poi confrontano quello sguardo col modo in cui loro li guardano. E tutto diventa un gioco di specchi, di sguardi.
E c’è la finestra, da cui la psicologa guarda tutti con uno sguardo abbastanza ampio da contenere tutti quegli sguardi. Porte e finestre sono i confini e le connessioni fra quei mondi. Dietro la porta gli adulti parlano fra loro, e attraverso il vetro i ragazzi li guardano e fanno dei pensieri su quello che succede loro (come quando Alice torna dai suoi coetanei e dice: “Credo che di là abbiano un problema: noi”).
Nello sguardo dell’autrice si ritrova l’idea di psicologia (e medicina) narrativa che Silvana porta avanti da tanto tempo e con la quale lavora, che contempla una grande attenzione per come le persone raccontano le proprie situazioni e le proprie vite. Che è una posizione teorica che si nutre anche di un talento narrativo: “Le storie fanno parte della mia vita fin da quando ero piccola”, dice Silvana nelle sue note di presentazione, e chi ne conosce la storia sa che la sua bibliografia comprende cospicue escursioni nel romanzo.
Nel suo libro precedente, che parla di coppie, al titolo “Sembravano così felici” segue un sottotitolo interessante: “amori e disamori nel tempo dell’incertezza”. Perché Silvana Quadrino sa raccontare quell’incertezza: nell’incertezza si muovono i suoi personaggi, e lo fanno come possono, ciascuno a modo proprio. L’incertezza è soprattutto quella delle quotidiane difficoltà di crescere dei figli, ma è anche quella, storica, di un momento in cui i modelli di famiglia e di genitorialità sono in piena trasformazione e qualunque pretesa di avere un manuale attendibile e definitivo resta delusa. Incertezza che è raccontata ancora una volta con simpatia e con rispetto. Dicevo del linguaggio, ma un’altra caratteristica del lavoro sistemico è la sua premessa che le persone fanno quello che possono. Fanno quello che pensano sia utile a stare meglio, e in ogni momento fanno quello che in quel momento la situazione permette loro. I sistemi, nella loro intelligenza sistemica, se potessero fare una cosa migliore la farebbero. Un punto di vista che aiuta chi osserva le fatiche dei genitori a non cadere nel tranello del giudizio morale.
Che poi nei media abbia un certo successo la teoria per cui un professionista dell’aiuto è tanto più utile ai genitori quanto più li biasima e dà loro degli incapaci, è un fatto in qualche misura inspiegabile, ma che altri autori riescano a parlare alle famiglie in modo dolce e rispettoso è una buona notizia e indica una direzione possibile.
Chi legge questo libro prova la stessa simpatia e tenerezza per questa umanità: la penna di Silvana Quadrino e le matite di Alberto Madrigal lo avvicinano ai personaggi e sanno, insieme, tratteggiare un mondo in cui riconoscersi.