di Gianluca Ganda e Riccardo Canova
Alpes, Roma, 2023
Letto da Massimo Schinco
Psicologo Psicoterapeuta, è docente di Psicoterapia Relazionale Sistemica presso la Scuola del Centro Studi Eteropoiesi di Torino. È inoltre Adjunct Professor presso il Dipartimento del Design del Politecnico di Milano. studio@massimoschinco.it)
Una decina di anni fa il collega Massimo Giuliani e il sottoscritto parteciparono a un convegno internazionale presso l’Università Jagellonica di Cracovia. Il nostro mandato era quello di presentare il modello di Milano a persone che in molti casi non ne avevano mai sentito parlare e nemmeno avevano una formazione sistemica. Ci dividemmo i compiti: approfittando della posizione che allora coprivo come Co-direttore del CMTF, feci in modo che a Giuliani toccasse la parte più difficile e compromettente, cioè presentare in modo molto sintetico, accattivante e rigoroso, le principali caratteristiche del modello. Io invece mi riservai un compito più libero e leggero, e cioè una introduzione in cui volevo mettere a fuoco, e anche legittimare da un punto di vista disciplinare, una caratteristica che riguarda tutte le forme di psicoterapia, e quelle di ispirazione sistemica in modo più accentuato. E cioè il fatto che quando un terapeuta diventa anche un autore c’è sempre una discrepanza più o meno accentuata tra la sua descrizione di ciò che fa in terapia e ciò che fa veramente. Il fatto che a questo vincolo non si possa sfuggire non vuol dire che sia un fatto negativo; al contrario, se considerato in modo consapevole e attivo è un indice di garanzia dell’autenticità della relazione terapeutica e di sviluppo della disciplina stessa. Le presentazioni andarono bene, Giuliani non me ne volle per l’abuso di ufficio e se il lettore è curioso di vedere le slide le trova qui oppure qui.
Scherzi a parte, cito questo aneddoto perché ha a che vedere con tutto il libro di Ganda e Canova, a partire dal titolo, che è particolarmente felice e ci fa “volare alto”, orientando la nostra attenzione sulla condizione contestuale che caratterizza l’esistenza umana: quella del mistero. Il filosofo francese Gabriel Marcel distingueva bene tra problema e mistero (Marcel, G., 1945, Homo Viator. Paris, Aubier). Un problema è qualcosa rispetto a cui possiamo metterci in posizione esterna, e da lì osservarlo e manipolarlo. Un mistero invece è una condizione in cui siamo immersi; possiamo parteciparvi, muoverci all’interno di esso, ma non possiamo osservarlo e manipolarlo dall’esterno, come si fa con un oggetto separato dal soggetto. Ricorderete come, all’inizio e per un certo numero di anni, in ambito sistemico-relazionale la parola “problema” la fece da padrone, tornando e ritornando nel gergo più praticato: “la soluzione è il problema, formazione e soluzione dei problemi, esternalizzazione dei problemi”… Le sedute si aprivano con domande come: “qual è il problema”? A sostegno di questo modo di pensare e comunicare non c’erano solo assunti teorico-tecnici; c’era l’ansia di sdrammatizzare il “disturbo della psiche”, avvicinabile solo da pochi iniziati reduci da interminabili viaggi nei mondi degli inferi, attraverso la sua traduzione in un problema relazionale sempre tecnicamente affrontabile, qualora ci si fosse adeguatamente posti in una posizione esterna, anzi “meta”. Tutto ciò creava un’atmosfera: lo studio dei terapeuti ricordava maggiormente quello del commercialista che quello segreto e inquietante dello psicoanalista, con l’aggiunta di tecnologie all’avanguardia per la videoregistrazione e l’osservazione “da fuori”. Come sappiamo, l’illusione di poter osservare e agire dall’esterno presto tramontò, e fu un tramonto felice, anzi a tratti addirittura euforizzante. Come ci è stato più volte ricordato dai protagonisti stessi, un passaggio fondamentale per i “padri fondatori” del modello di Milano fu l’essere sistematicamente osservati e descritti da gruppi di allievi, colleghi e studiosi mentre conducevano le sedute. Da un certo punto in poi, fu quasi come una corsa all’oro, in cui si cercava di arrivare primi nel trovare la definizione efficace di ciò che facevano i terapeuti in seduta, e perché una scuola di pensiero e azione sarebbe stata migliore dell’altra. Si contrapponevano approcci teorici, finezze epistemologiche, diverse esegesi delle scritture batesoniane e naturalmente anche antipatie o rivalità personali e di scuola. Eppure, in un tempo molto rapido, crebbe la consapevolezza che, soprattutto se si tratta di relazioni umane, un osservatore è sempre dentro. I confini dello spazio esistenziale e mentale che lo contengono sono definibili in tanti diversi modi, ma lo sono comunque dall’interno. A questo punto diventa importante che questi confini non impediscano al soggetto il sentimento del non detto e del mistero. Cecchin ne aveva chiara consapevolezza e scriveva (Prefazione a Schinco, M. (2002), O Divina Bellezza, O Meraviglia – Uno psicoterapeuta ascolta Turandot, Carabà. Milano pagg. 5-6) nel 2000:
(…) per quanto noi cerchiamo di imprigionare la psicoterapia in una serie di regole, strutture, tecniche o formule il compito ci è reso impossibile dal fatto che, inevitabilmente, da qualche parte filtrerà il senso del sacro, del mistero, della religiosità, dell’estetica, della morte, di Dio, del tragico, dell’imprevisto, del non descrivibile. (…) il tentativo costante di imprigionare la terapia in regole e dogmi è sempre fallito e fallirà sempre.”
Quindi, nel momento in cui un terapeuta fa delle scelte linguistiche ed espressive per descrivere se stesso, i termini e le modalità che usa sono importanti non solo per ciò che dicono, ma anche per ciò che non dicono, per ciò che portano con sé come in sottofondo, per ciò che evocano. Come emerge anche dal libro di Ganda e Canova Cecchin, descrivendo se stesso in quanto terapeuta usava preferibilmente alcuni termini: rispetto, curiosità, irriverenza, pregiudizi, dissidenza, conversazione … Quest’ultimo è stato uno dei termini più controversi riguardo alle definizioni che Cecchin dava di sé. Ma nell’intervista di Canova “Il mistero del rispetto” (2005), (Connessioni, rivista di consulenza e ricerca sui sistemi umani CMTF. N. 16, pag. 57) che è stata inglobata nel volume, è Cecchin stesso a darci qualche lume sul modo in cui intendeva la conversazione.
“Il sintomo è un messaggio. Significa che quella persona vuole essere rispettata, vuole che il suo linguaggio sia riconosciuto, vuole che qualcuno capisca il messaggio, che non è fatto solo di parole, ma si esprime con tutto il comportamento. Quindi il terapeuta è uno che, qualche volta, riesce a capire il messaggio e allora il rispetto c’è quando si ascolta il messaggio globale, non tanto le parole”.
Nel libro di Ganda e Canova una di queste parole diventa più importante delle altre, assumendo in qualche modo il ruolo di “marca di contesto”, ed è proprio la parola “rispetto”. Come gli Autori stessi ammettono, come mai il rispetto funzioni in terapia rimane un mistero. Con intento diligente e rispettoso verso studiosi e allievi, gli Autori elencano una serie di riferimenti che potrebbero gettar luce teorica sulla questione, dai più frequentati in ambito sistemico, come Maturana e Varela, ad altri di scuole diverse, come Nissim Momigliano in ambito psicoanalitico. È forse l’aspetto meno affascinante del libro; mettendoci nei panni degli Autori, da una parte si tratta di un atto dovuto; ma dall’altra si risolve nell’ennesima conferma che “una buona teoria”, a proposito del rispetto, non l’abbiamo ancora trovata. Viceversa, alquanto opportuna, sintetica e puntuale è la descrizione del contesto in cui le originalità del pensiero e della pratica cecchiniana hanno preso forma: l’evoluzione del modello di Milano e in particolare del sodalizio con Luigi Boscolo. Si trattava di un passaggio necessario e gli Autori lo hanno fatto bene, soffermandosi anche su aspetti specifici della poetica e dello stile terapeutico di Boscolo. Gli Autori hanno dimostrato di saper valorizzare i processi da cui emergevano le prese di posizione dell’uno e dell’altro. Per quanto le visioni di Boscolo e Cecchin si potessero differenziare, esse prendevano senso ed erano lette da tutti come “parte di” un contesto comune, anche nei momenti meno felici legati agli alti e bassi della relazione. Da questo punto di vista, per la comunità che si rifaceva a via Leopardi la morte improvvisa di Cecchin fu un trauma non solo da un punto di vista affettivo e organizzativo, ma anche da un punto di vista scientifico, perché il contesto da cui emergevano e in cui erano leggibili i contributi dell’uno e dell’altro cambiò radicalmente e in modo discontinuo. Il disorientamento fu grande e i momenti successivi in cui Luigi Boscolo radunò la comunità non solo per commemorare l’amico scomparso, ma anche e soprattutto per farne occasione di confronto professionale, scientifico e culturale furono molto preziosi; essi permisero di ricucire un tessuto che, per quanto strappato da un punto di vista materiale per l’irreversibilità della morte, doveva ritrovare continuità simbolica, relazionale e operativa.
Tornando alla tematica principale del libro, io sono dell’idea che il rispetto funzioni proprio perché è un mistero, così come lo sono le persone. Con questo, rimane la grande curiosità di capire come faceva Cecchin a “far emergere” il vissuto del rispetto nell’interazione con individui, famiglie, curanti. Con oculatezza gli Autori fanno parlare direttamente Cecchin attraverso brani di interviste o di altri testi, riportando brani di sedute, narrazioni di terapie da lui condotte o ispirate dal suo modo di lavorare. Era la cosa giusta da fare, perché in questo modo, se non in presa diretta ma perlomeno attraverso resoconti fedeli, sarà l’operato stesso di Cecchin che andrà a stimolare l’immaginario e i pensieri di chi non lo ha conosciuto di persona, di chi è cresciuto professionalmente in un clima diverso da quello di allora e con riferimenti teorici che dopo tanto tempo possono essere diversi e nuovi.
Per conto mio, pensando alle terapie viste, a quelle di cui Cecchin e io parlammo, a quelle in cui fui direttamente coinvolto con lui, c’è voluto del tempo elaborare un’idea definita. Nella mia lettura, il rispetto praticato da Cecchin emergeva dall’interezza di un processo comunicativo in cui il setting terapeutico tipico della Scuola di Milano aveva un peso molto rilevante. Il processo si articolava grosso modo come segue. Per sua stessa ammissione Cecchin era animato da una grande curiosità nei confronti dei pazienti. Questa curiosità non poteva certo essere saziata dalle diagnosi, dalle narrative standard o peggio ancora da quelle cronicizzate in anni di disagio familiare, sociale e sanitario. Cecchin desiderava fortemente comprendere le persone incomprensibili o ritenute tali. Era un gioco che gli piaceva moltissimo e che conduceva con grande e contagiosa vitalità. Era inevitabile che le persone in questione percepissero questo piacere e, prima ancora di sentirsi rispettate, si sentissero desiderate. Una discontinuità potente e positiva per chi era abituato a sentirsi incomprensibile, indesiderabile, inadeguato, patologico, disturbante e via dicendo. L’impatto era tale per cui i pazienti e le famiglie, nonostante Cecchin amasse le provocazioni, gli interventi, i commenti le letture abissalmente distanti dal buon senso comune e dall’empatia come è ordinariamente intesa, chiedevano di poter intensificare gli incontri, di potersi vedere più spesso. E regolarmente Cecchin opponeva un rifiuto a queste richieste, il cui accoglimento avrebbe rallentato il processo terapeutico e avrebbe inevitabilmente annoiato il terapeuta. Qui subentrava un aspetto importante, in cui Cecchin dimostrava grande maestria. Una volta soddisfatta la curiosità, metteva in moto il processo del distacco, a volte in tempo reale, fino al punto di innescare la sensazione della simultaneità: lo si sentiva così vicino, e così distaccato nello stesso tempo. Il distacco doveva subentrare quando nei pazienti le sensazioni relative al sentirsi visti, accettati e apprezzati erano ancora vive, e prima che, anche involontariamente, il terapeuta ne suscitasse altre di segno diverso. Se il gioco si fosse trascinato e il terapeuta l’avesse continuato senza l’attivazione che lo aveva contraddistinto, le persone coinvolte avrebbero iniziato a sentirsi noiose o bisognose di compassione e pazienza. Nulla di più distante dall’ideale cecchiniano. Ora, se immaginiamo una dinamica di questo tipo fuori dal contesto terapeutico, e cioè nella ordinaria vita di relazione, essa ci appare come una potenziale fonte di guai. Relazionandosi costantemente in questo modo, non appena si supera il livello dello “small talk” e della convivialità, si possono infilare vere e proprie autostrade di seduzione, abbandono, competizione e solitudine. Viceversa, all’interno del setting terapeutico, che è per natura caratterizzato dalla provvisorietà, questo gioco diventava utile, responsabilizzante e rispettoso delle persone. Utile perché dal momento in cui in seduta le persone sperimentano di essere non solo interessanti, ma addirittura desiderate e desiderabili subentra la fiducia di poterlo essere fuori dalla terapia. Naturalmente, perché un gioco simile in terapia funzioni, innanzitutto è fondamentale il dosaggio. È inevitabile che, per designazione sociale e per effetto del setting, il terapeuta sia “up” e il paziente “down”. Se somministrato in piccole dosi, questo dislivello di potere può creare un contesto protetto sia per le persone sofferenti che per il terapeuta. Il paziente diviene libero di dare il peggio di sé senza essere considerato un cattivo paziente; il terapeuta è sufficientemente al sicuro su più di un piano: si sente parte di un gruppo che lo sostiene e che lo aiuta ad allargare la visuale; inoltre, si espone in terapia per tempi sufficientemente brevi da essere emotivamente sostenibili anche se le emozioni in gioco, e il modo di comunicarle, sono molto difficili. Infine, il setting concede al terapeuta la libertà di fare quello che “là fuori”, nella vita di tutti i giorni, non è concesso fare. Può cioè riconoscere, non solo “a parole” ma con “tutto il comportamento”, quanto sono bravi pazienti e famiglie a mettere in scena le loro patologie, pur di comunicare, sopravvivere, farsi vedere, diventare interessanti. Chiunque di notte sogni di essere sedotto da qualche meravigliosa creatura, al mattino si alza magari con un certo rimpianto, ma anche con la voglia di trasferire nella vita diurna almeno un po’ di quella fantastica esperienza. La seduta cecchiniana somigliava a quel sogno però in meglio, perché la presenza degli altri non era solo fantasticata, ma tangibile. Tutti ricordiamo che anche nelle terapie individuali, Cecchin invitava i pazienti a portarsi qualcuno, a non venire da soli. Al “risveglio”, quando la seduta finiva, individui e famiglie scoprivano di essere interessanti e desiderabili, di aver fatto esperienza che si può comunicare meglio e più autenticamente, che ci si era detti tante cose e il pavimento non era sprofondato precipitandoli nell’abisso né il cielo era loro caduto sulla testa. Scoprivano che il terapeuta era soddisfatto così, e oltre al pagamento della parcella, non avevano contratto debiti o stretto vincoli di altro tipo con lui.
Con un po’ di leggerezza, si potrebbe dire che Cecchin in terapia era molto rispettoso anche perché aveva delle grandi competenze come seduttore; nella cornice simil-onirica del setting terapeutico, con le giuste dosi, questo faceva bene ai suoi pazienti. D’altronde, da sempre i farmaci si ricavano dalle sostanze più pericolose, trasformandole in principi attivi che vengono poi accuratamente dosati, insieme a eccipiente e placebo, e sapientemente somministrati. È chiaro che tutto ciò non si improvvisa, o meglio: si improvvisa dopo anni di meticoloso perfezionamento di sé e delle proprie capacità. Così come le ho esposte, queste considerazioni potrebbero apparire un po’ banalizzanti. Molto meglio di me si è espresso a suo tempo Henri Bergson (1934) (La Pensée et le Mouvant. Essais et conférences. Alcan, Paris):
“si può conoscere e comprendere solo ciò che si può in qualche misura reinventare”.
Di fatto, nella comunicazione terapeutica di Cecchin, il gioco della conoscenza e comprensione era tutt’uno con quello della re-invenzione. Il famoso “reframing” non avveniva in chiusura di seduta, dopo l’intervista e l’investigazione, ma durante. Ciò era possibile perché in seduta Cecchin reinventata continuamente se stesso, e ne traeva piacere. Senza averla concepita come una lezione, tutt’al più come un gioco, con l’averci mostrato mille e mille volte questa esperienza e con l’averci coinvolti in essa, Cecchin ci ha lasciato una grande lezione. Ci ha invitati, come terapeuti, a re-inventarci di continuo, attraverso il riuso creativo non solo delle parti “più nobili” del nostro sé, ma anche di quelle discutibili, purché siano vive. E il contesto in cui ciò si è generato, quello della collaborazione con Luigi Boscolo, ci ha mostrato in modo affascinante quanto questo gioco richieda misura, finezza, capacità di dosare e di seguire il tempo proprio dei processi relazionali. C’è infatti un tempo per tutto: uno per rispettarsi, uno per mancarsi di rispetto, uno per desiderarsi, uno per rifiutarsi e uno per lasciarsi in pace … e questi tempi variano a seconda del contesto, delle finalità, delle specificità dei protagonisti.
E infine c’è un tempo anche per scrivere libri. Il libro di Ganda e Canova ne ha richiesto molto, e leggendolo si sente il sapore del “precipitato” di esperienze, memorie, riflessioni, conversazioni, fatiche interiori che la sua realizzazione ha comportato. Si sente il sincero affetto degli Autori, affetto che si manifesta nell’andare oltre gli aneddoti, soprattutto quelli relativi alla “maschera” brillante e spiritosa di cui Cecchin divenne un poco prigioniero, forse anche con una certa sua complicità. D’altronde, anche conoscere e comprendere Cecchin implica in qualche misura il re-inventarlo. E la misura giusta, nella scelta dei due Autori, sembra quella per cui si oltrepassa il personaggio, che è appartenuto a un’epoca straordinaria, irripetibile del tempo passato; Ganda e Canova ci invitano a guardare al futuro, nella direzione che Cecchin e Boscolo hanno additato, quella di una pratica terapeutica sempre più autenticamente viva e inclusiva.