Libro di Massimo Giuliani
Durango Edizioni, 2016 (e-book), 2017 (cartaceo)
Letto da Enrico Valtellina
In Verità e menzogna in senso extramorale, Nietzsche parla della verità come di un “mobile esercito di metafore, metonimie e antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane”, leggendo il libro di Massimo Giuliani mi è riaffiorato alla mente, perché esattamente di ciò tratta, della metafora come relazione umana (embodied, incarnata), e dei suoi effetti di verità.
Prima di dire cosa può essere la metafora nel lavoro clinico, si tratta di dire cosa non è. Non è quello che per lo più si ritiene che sia, uno strumento utile ad assecondare strategie, finalità esplicite o implicite nel discorso del terapeuta, per dire cose in modo indiretto, per abbellire, stemperare i toni forti del discorso. “Come alternativa a questa concezione vorrei proporre la curiosità sul processo di metaforizzazione come parte integrante del nostro modo di conoscere la realtà astratta – dunque il mondo interno e le relazioni – e l’attenzione al dominio metaforico come luogo nel quale è possibile negoziare significati e premesse e prendersi cura delle emozioni” (p. 20).
Il legame tra pensiero, corpo fisico e metafora è al centro dell’elaborazione delle scienze cognitive recenti, si pensi a Lakoff e Johnson e (talvolta in diretta contrapposizione a questi) Pinker, e alle loro elaborazioni si appoggia la contestualizzazione della natura costitutivamente embodied della metafora, molto più che la semplice figura del rimando della retorica classica, la metafora sostanzia il pensiero raccordandolo al mondo, come ricordano Lakoff e Johnson, “Il nostro sistema concettuale è in larga misura metaforico”. E ciò ha evidentemente una rilevanza assoluta in terapia, in quanto “le metafore hanno delle conseguenze: il modo di concettualizzare qualcosa di astratto definisce l’esperienza che ne abbiamo” (p. 52).
Da ciò procede una critica puntuale delle metafore correlate agli interventi strategici in terapia, all’arte della guerra, condotta con maestria e accortezza da terapeuti armati di strumenti affilati e appuntiti, ma che finiscono per accanirsi non sul sintomo, ma sul paziente.
Fedele allo spirito batesoniano, Giuliani diffida della finalità cosciente, e la metafora può assumere il ruolo di suo correttivo, assolvendo pertanto un compito ben differente da quello di strumento strategico. Si tratta di “spostare l’attenzione dall’uso della metafora come costruzione di interventi ed etichette metaforiche a qualcosa di un po’ più ambizioso: cioè il compito del terapeuta di condurre il colloquio con una sensibilità al piano metaforico del linguaggio; ascoltare e ascoltarsi per cogliere le metafore che emergono; e poi, autoriflessivamente, essere attento alle metafore con le quali concettualizza quello che sta facendo e alle cornici di senso che esse costruiscono nella conversazione” (p. 69). La metaforizzazione è intimamente legata all’immaginazione (come pensata dal Foucault dell’introduzione a Sogno ed esistenza di Binswanger), ha un potere di trascendimento, indica il luogo di una proliferazione del possibile, della libertà, un’attenzione al suo dispiegarsi e il successivo lavoro autoriflessivo che ciò rende possibile apre spazi di rinegoziazione delle relazioni, come emerge dal racconto di situazioni tratte dal proprio lavoro clinico.
L’emergere della metafora “giusta”, in una seduta terapeutica, non è qualcosa che si possa provocare, è un evento, accade, e necessita di un’attenzione e una disposizione in grado di propiziarlo e di coglierne la valenza. Questa emergenza di un concreto di senso, di un attrattore, in grado di risignificare le circostanze e la loro percezione da parte degli attori, mi evoca un’altra concettualizzazione della terapia sistemica contemporanea, ciò che Marcelo Pakman chiama “momento poetico”, nei due casi si compie la rottura delle immagini che il Foucault prima evocato attribuiva alla poesia, e la trascendenza immaginativa porta con sé l’apertura al mutamento, la moltiplicazione delle possibilità.