Di Chiara La Barbera e Pier Francesco Sannasardo
Nella nostra pratica clinica assistiamo ad un proliferare di differenti forme di violenza eterodiretta ed autodiretta tra gli adolescenti. Comprendere il fenomeno della violenza, nella fase adolescenziale, implica la necessità che il terapeuta assuma una posizione di curiosità e di rispetto in una epistemologia della complessità che favorisca un migliore processo di riflessività, di ipotizzazione e di connessione emotiva (Bertrando P. 2014).
Le forme di violenza che più spesso intercettiamo in terapia incontrando adolescenti sono quella eterodiretta, come la violenza tra pari o la violenza filio parentale e quella autodiretta, come il self-cutting, i tentativi di suicidio, gli attacchi al corpo, e i comportamenti sessuali promiscui.
Una delle più frequenti difficoltà iniziali che incontriamo quando affrontiamo il tema della violenza in adolescenza è l’attivazione di emozioni prevalentemente difensive, volte a garantire l’integrità del Sé del terapeuta, quali la paura, la rabbia, il bisogno di controllo. La gestione di tali emozioni è la premessa per aiutare il sistema familiare e gli altri sistemi che ruotano attorno all’adolescente ad evolvere ed evitare atteggiamenti di collusione con le emozioni difensive che contatta il terapeuta, così come gli altri sistemi che si confrontano con la violenza in adolescenza.
Per accedere più rapidamente a risonanze emotive volte all’accoglienza e alla riflessività abbiamo individuato da una parte procedure interne alla tradizionale stanza di terapia – procedure di 1° livello – e dall’altra procedure esterne al setting tradizionale – procedure di 2° livello – che coinvolgono gli altri sistemi che incontrano l’adolescente. Per procedure di 1° livello intendiamo quelle ispirate alle premesse di curiosità e rispetto per i sistemi familiari e quindi al lavoro in coppia terapeutica, all’uso delle supervisioni e intervisioni, all’utilizzo dell’équipe dietro lo specchio, al reflecting team. Ognuno di questi strumenti permette di attivare un più esteso e più efficace apparato digerente del campo emotivo generatosi nell’incontro con la violenza, permettendo l’emersione di altre emozioni più capaci di favorire processi di accoglienza e comprensione. L’idea base è che non sia utile gestire da soli casi clinici in genere complessi, come quelli dove emerge la violenza nelle sue più diverse forme; il clinico dovrebbe, in tal senso, superare qualsiasi forma di onnipotenza e comprendere di avere la necessità di attivare sistemi protettivi e facilitanti la mentalizzazione al fine di migliorare la propria riflessività. Fin qui siamo nel solco tracciato dai padri fondatori del Milan Approach.
Quelle che abbiamo indicato come procedure esterne alla tradizionale stanza di terapia, o di 2° livello, sono ispirate al concetto batesoniano di mente terapeutica (Bateson G. 1984) che prevede l’incontro con gli altri sistemi relazionali a cui fa riferimento l’adolescente (la scuola, i servizi sociali, i sistemi giudiziari, etc.), cui vengono comunicati e con cui si condividono sia gli aspetti legati alla comprensione del fenomeno violento in una dimensione relazionale, sia gli aspetti emotivi progressivamente registrati dai terapeuti nelle tappe del trattamento con l’adolescente e la sua famiglia. E’ qui, nell’alleanza con gli altri sistemi che ruotano attorno all’adolescente che si può creare una cordata di accudimento, sempre all’interno di una riattivazione intersistemica del sistema di cooperazione tra sottosistemi.
Stiamo parlando di quella che abbiamo definito “lente multicontestuale sistemica” che permette, superando il perimetro della stanza di terapia, di mettere a fuoco e valorizzare tutte le azioni che il clinico fa negli altri contesti che contribuiscono al cambiamento della famiglia e delle teorie sulla violenza. (Barbetta P., Telfener U., a cura, 2019). È come se, oltre allo specchio unidirezionale della stanza di terapia, si aprisse un più ampio vetro, trasparente, che consente a ciascun professionista coinvolto di partecipare, dal proprio contesto, all’interazione clinica, traendone spunto per le proprie azioni e nel contempo offrendo spunti di riflessione al contesto psicoterapeutico. La prospettiva che proponiamo comporta, pertanto, una complessificazione del tradizionale concetto di setting che non è più limitato allo spazio di interazione terapeuta-famiglia; esso lascia il posto ai setting dei molteplici livelli contestuali contemporaneamente impegnati nello stesso caso. La mente terapeutica, intesa come «mente che cura», (Bateson, 1976) non è più visualizzabile solo all’interno di un unico specifico contesto d’incontro, né di trattamento, ma si genera “tra” i diversi contesti di cura, educativi e di controllo che interagiscono con lo stesso sistema destinatario dell’intervento. Il terapeuta errante esce dalla stanza di terapia e va verso gli altri sistemi che, a loro volta, hanno la possibilità di vedere cosa avviene nella stanza di terapia attraverso il racconto del clinico che rende trasparenti le pareti del setting tradizionale.
Il terapeuta tende a coordinare le varie premesse e spiegazioni lineari dei vari contesti, senza giudicarle, anzi spesso utilizzandole, soprattutto nella fase iniziale, per creare alleanze e utilizzare un linguaggio comune, con la consapevolezza che nel tempo potrà contribuire a generare un effetto riflessivo, generativo e circolare in queste stesse premesse. La riflessività tra i vari sistemi si attiva solo se si crea alleanza tra tutti i sistemi, aumentando il livello di comprensione dei singoli, rispettando ruoli e funzioni di ognuno. Il terapeuta non si limita pertanto alla sola ricerca di alleanza con il sistema familiare, ma estende la ricerca di alleanza a tutti i sistemi che interagiscono con la famiglia. Solo un alto livello di coordinazione-alleanza-cooperazione con il sistema scolastico, giudiziario e/o socio-sanitario, può facilitare l’accesso al cambiamento.
Come sottolineato, le premesse sistemiche che facilitano sia le procedure interne, o di 1° livello, che le procedure esterne, o di 2° livello, sono identificabili nella postura del terapeuta della “Curiosità” e del “Rispetto” (Cecchin, 1997). “Curiosità” come postura attenta verso l’unicità della storia, verso cui non si è mai giudicanti o direttivi, che ci permette di non fermarci alla prima ricostruzione narrativa plausibile ma sperimentare come, da altri vertici e punteggiature, si possano sviluppare storie differenti. “Rispetto” come posizione opposta a quella classificatoria/giudicante, che non prevede la ricerca degli errori nelle relazioni familiari, ma la ricerca di coerenze nei sistemi, magari spostandosi nell’analisi del livello logico di osservazione. Il Rispetto, originariamente rivolto ai contesti familiari, va esteso a tutti i sistemi sociali, così da attivare più facilmente alleanza, cooperazione. Coerentemente con il pensiero di G. Cecchin, se i terapeuti trattano i sistemi sociali, sanitari, educativi, familiari con rispetto, essi saranno più facilmente in grado di mettere in discussione i propri pregiudizi; se invece i terapeuti accusano questi stessi sistemi di sbagliare, questi continueranno a difendere la propria visione del mondo (Cecchin G, Apolloni T. 2003).
Quando si incontra la violenza, si riduce fortemente la possibilità di mentalizzare anche da parte di servizi istituzionali con molta esperienza. La capacità riflessiva si attiva di solito attraverso azioni conversative che i terapeuti avviano con ciascuno dei contesti coinvolti, promuovendo un progressivo coordinamento dei significati ed una progressiva esplicitazione degli aspetti emotivi nel terapeuta e negli altri sistemi, rispetto alla lettura della violenza e al tema del controllo.
La nostra idea è che riconoscere e nominare le emozioni provate dai terapeuti nell’incontro con la violenza facilita la stessa operazione di riconoscimento non solo nei membri del sistema familiare, ma anche negli operatori degli altri servizi che si sentono più legittimati nel provare e nominare le proprie emozioni e possono quindi riconoscere il proprio ruolo nell’attivazione di alcune azioni (ad esempio di chiusura), talvolta poco collegate ai bisogni dell’adolescente e della sua famiglia, ma rispondenti alle proprie esigenze emotive difensive.
Si tratta pertanto di applicare la tradizionale pratica della Self Disclosure non solo al setting tradizionale con l’adolescente e la sua famiglia, ma anche al setting che la lente multicontestuale sistemica permette di estendere agli altri sistemi che si confrontano con il medesimo adolescente violento, più spesso quello scolastico.
Nasce così la pratica della Self Disclosure Sistemica, che vede il terapeuta condividere, ad esempio con l’insegnante, non solo le ipotesi trigenerazionali sulla costruzione del comportamento violento fino ad allora formulate nella tradizionale stanza di terapia, ma in primo luogo l’impatto emotivo che si è attivato nel terapeuta che incontra la violenza.
Il confronto reciproco del reparto emotivo facilita il ripristino della mentalizzazione (Fonagy P., Target M. 2001) che, prima di tutto, dovrebbe avvenire nei sistemi di cura, a volte schiacciati dagli effetti che provoca la violenza. In particolare, la legittimazione delle emozioni difensive provate ad esempio dall’insegnante, attraverso un’analoga esplicitazione da parte del terapeuta delle difese iniziali da lui sperimentate in terapia, può permettere, al corpo docente coinvolto, di sintonizzarsi successivamente con altre emozioni sottese ad esempio alla paura e alla rabbia, come ad esempio la tenerezza e la compassione; queste ultime emozioni sono quelle che anche il terapeuta può avere contattato, in una fase successiva al primo impatto emotivo con la violenza, ovvero dopo avere costruito un’ipotesi sul funzionamento di quell’adolescente e della sua famiglia. Questo diventa il presupposto per attivare l’alleanza tra contesto di psicoterapia-scuola, docente-allievo adolescente, terapeuta-adolescente-famiglia.
Mentre la più frequente accezione di Self Disclosure fa riferimento al “movimento empatico che parte da un’attenzione introspettiva al sé familiare del terapeuta” (Berrini R., Vannotti M., 2013) che comunica tale risonanza personale al sistema familiare, la Self Disclosure Sistemica fa riferimento alla comunicazione che il terapeuta trasferisce all’insegnante dell’adolescente violento, delle emozioni che si sono attivate in lui nel sistema terapeuta-famiglia. Tale operazione risponde a nostro avviso agli stessi “criteri di autenticità e di apertura di sé al mondo, all’altro” che caratterizzano un inquadramento tradizionale della self disclosure, ma li trasferisce fuori dal tradizionale setting di terapia, in una dimensione del ruolo terapeutico che non è più confinato alla stanza dell’incontro con la famiglia.
Rendere trasparenti i vetri del setting tradizionale di psicoterapia familiare agli occhi di questi adulti, superando così la limitazione dello specchio unidirezionale, permette una conversazione meno sbilanciata, meno asimmetrica e più vicina ad un piano di reciprocità tra i vari adulti interessati alla medesima storia a partire da contesti e ruoli diversi.
Ciò che poi accadrà nell’incontro tra terapeuta e insegnate, sarà circolarmente riportato nella stanza di terapia con l’adolescente e la famiglia, in un processo di co-costruzione non solo degli aspetti cognitivi del fenomeno violenza ma anche di quelli emotivi.
Caso clinico
Aki, all’anagrafe al momento Chiara, ha 17 anni e frequenta il quarto anno di un liceo. Dall’età di 12 anni comincia a manifestare sintomi ansiogeni e depressivi per cui i genitori richiedono, nell’arco dei successivi tre anni, una consulenza a due psicoterapeuti e due psichiatri, i quali faranno una diagnosi di soggetto con disturbo ansiogeno, attacchi di panico e umore depresso. I due psichiatri prescriveranno anche una terapia farmacologica coerente con la diagnosi. Aki/Chiara non parlerà della propria disforia di genere in quanto non le verranno poste delle domande in tale area, né parlerà dell’essere stata vittima di bullismo per tutto il periodo della scuola media sempre, a suo dire, perché non le verrà mai chiesto. Ai genitori, in un momento di profonda tensione, racconterà, al primo liceo, di non identificarsi con il proprio corpo e di non riconoscersi nel proprio corpo femminile. I genitori inizialmente non accetteranno di chiamarlo col nome maschile con il quale lui chiede di essere chiamato, non accetteranno la sua disforia e lì inizieranno le prime forme di violenza filio parentale di Aki/Chiara verso i genitori, oltre che una sempre maggiore chiusura e isolamento all’interno del gruppo dei pari nel contesto scolastico. «Per me non è facile fare amicizie, mi sento e sono diverso dagli altri, quando conosco persone nuove non so come presentarmi. I miei genitori hanno sempre sottovalutato la mia disforia pensando che fosse una cosa momentanea e non sono mai riusciti a capire come mi sento. Per me questa è una forma di disinteresse da parte loro verso di me. I miei compagni adesso sanno della mia disforia ma continuo ad essere isolata dal gruppo. Con i miei professori non ne ho mai parlato, non so cosa abbiano capito di me».
Il lavoro clinico con Aki/Chiara si è sviluppato attraverso diverse fasi. La prima azione è stata quella di lavorare sul significato della diagnosi psichiatrica precedente e sull’accompagnamento ad un nuovo sistema psichiatrico con il quale ci si è connessi costruendo la premessa per un lavoro integrato.
Relativamente al contesto scolastico sono state fatte delle azioni con il consiglio di classe per la definizione di un PDP per aspetti di fragilità emotiva, a seguito di un confronto con il corpo docente, in cui sono state esplicitate le emozioni iniziali provate dal terapeuta che ha incontrato il dolore di Aki/Chiara. “Non ho mai sentito tutta questa rabbia e disprezzo verso i genitori. Ho sentito la sua profonda solitudine e il suo non sentirsi compreso, così come l’assoluta mancanza di cura verso se stesso. Ho provato paura per il suo stato depressivo profondo, ma anche il suo desiderio di essere riconosciuto».
Il terapeuta riporta al contempo nel contesto scolastico, così come concordato con il sistema familiare di Aki/Chiara, alcune ipotesi provvisorie circa la psicodinamica relazionale che sostiene le forme di violenza dell’adolescente.
Gli insegnanti a quel punto legittimati nelle loro emozioni iniziali di paura, sgomento, difficoltà nella gestione delle dinamiche interne al gruppo classe, a seguito del confronto con il clinico, hanno deciso di attivare degli interventi in classe di promozione di comportamenti prosociali e di collaborazione oltre che portare avanti tematiche connesse alla carriera alias all’interno dell’istituto scolastico.
I genitori di Aki/Chiara, dopo le prime sedute del percorso terapeutico, hanno deciso di accompagnare il figlio nel percorso di transizione di genere e alle prime consulenze mediche, ma gli hanno chiesto di attendere il compimento del diciottesimo anno di età al fine di condividere la responsabilità della scelta.
Tutti questi passaggi sono sempre stati resi espliciti ad Aki/Chiara nel setting individuale e ai genitori nel parallelo setting genitoriale.
Pz: “Con gli altri due terapeuti precedenti non riuscivo ad aprirmi, io sono una persona difficile, questo ho capito, sono io che ho qualcosa che non va”.
T: “Come mai secondo te tra di noi si è creata questa relazione di fiducia?”
Pz: “Non lo so forse tu hai qualcosa che gli altri non hanno, forse sei più brava.”
TP: “Se io non fossi più brava e ci fosse stato qualche altra aspetto che ci ha permesso di creare questa relazione, quale potrebbe essere?”
Pz: “Beh forse tu mi hai sempre parlato delle tue emozioni, di come mi vedi e da te mi sono sentito riconosciuto. Non hai mantenuto mai nessun segreto e mi hai sempre raccontato tutto quello che sentivi, vedevi e dicevi quando hai incontrato i miei genitori e i miei professori».
Conclusioni
Riassumendo possiamo affermare che le emozioni iniziali del terapeuta che incontra la violenza, come ad esempio la rabbia, il disgusto, la paura, l’impotenza, vengono meglio gestite grazie alla presenza di un co-terapeuta, al lavoro di supervisione e intervisione, alla postura del rispetto e della curiosità per i sistemi e alle mappe trigenerazionali che restituiscono coerenza al comportamento violento attraverso la co-costruzione di un’ipotesi sistemica. A sua volta, la costruzione di un’ipotesi sistemica sviluppa l’accessibilità nei terapeuti, nei familiari e negli operatori degli altri contesti a quei sentimenti di tenerezza e commozione, che sono le emozioni per attivare protezione e vicinanza. Se infine le emozioni di tenerezza contagiano tutti gli adulti coinvolti nel progetto di crescita del minore, come ad esempio gli insegnanti, è molto più probabile che si attivi fiducia reciproca e torni a svilupparsi una mobilità intersistemica (Baldascini L., 2009) da parte dell’adolescente, con superamento del blocco evolutivo.
Bibliografia
Bateson G. (1984) “Mente e natura”, Adelphi, Milano
Bateson G. (1976) “Verso un’ecologia della mente”, Adelphi, Milano
Barbetta P., Telfener U. (a cura di), (2019) “Complessità e psicoterapia. L’eredità di Boscolo e Cecchin”, Raffaello Cortina, Milano
Baldascini L. (a cura di), (2009) ”Le voci dell’adolescenza”, Franco Angeli, Milano
Berrini R., Vannotti M. (2013) “Self-disclosure e autenticità”, Terapia Familiare n° 103, F. Angeli, Milano
Bertrando P. (2014)“Il terapeuta e le emozioni. Un modello sistemico-dialogico”, Raffaello Cortina, Milano
Cecchin G., Lane G., Ray W.A. (1997) “Verità e pregiudizi. Un approccio sistemico alla psicoterapia”, Raffaello Cortina, Milano
Cecchin G., Apolloni T. (2003) “Idee perfette”, Franco Angeli, Milano
Fonagy P., Target M. (2001) “Attaccamento e funzione riflessiva”, Raffaello Cortina, Milano.
Foto di Dimitris Vetsikas da Pixabay