di Claudia Trombetta
Psicologa clinica e di comunità, psicoterapeuta, formatrice e mamma di una bambina con Sindrome di Down. Centro Verba Manent, Relazioni e Benessere. claudia.trombetta@email.it
Quanti danni hanno provocato le nozioni di norma e categorie,
tanto presenti oggigiorno in forma inconscia, ossessiva, nevrotica!
Chi non vede gli inconvenienti che sia l’una sia l’altra comportano?
Entrambe oppongono, emarginano e rinchiudono.
C. Gardou
Introduzione
Negli ultimi anni nella mia attività professionale mi sembra di osservare un’eccessiva diffusione di diagnosi categoriali in età evolutiva, con il rischio di un effetto boomerang proprio nei confronti di quei bambini con fragilità che la diagnosi stessa vorrebbe aiutare.
A questa preoccupazione si affianca anche un’amara riflessione emersa nell’intreccio tra la mia vita professionale e quella personale, di mamma di una bambina con Sindrome di Down: ci si accorge che, una volta attribuita l’etichetta diagnostica ad un bambino con disabilità, a fronte di un’apparente offerta di servizi e possibilità, si sperimenta spesso una notevole riduzione di scenari e scelte possibili nelle proprie esistenze.
La diagnosi categoriale, infatti, tende a predisporre un percorso di cura, riabilitazione e vita piuttosto univoco a tal punto che scegliere qualcosa di diverso, rispetto a quanto la scienza e la società hanno deciso essere appropriato per quella specifica diagnosi, diventa un costante impegno quotidiano. Provo, dunque, a declinare i miei dubbi circa l’utilità e l’efficacia di questa diffusione della diagnosi categoriale in età evolutiva.
Sintomi della diagnosite
Cos’è la diagnosi, in particolare in ambito psicologico e psichiatrico? Un importante strumento a disposizione dei professionisti della salute per conoscere ed aiutare meglio persone che vivono e presentano delle fragilità. Recuperandone il significato etimologico, vediamo che diagnosi significa proprio “conoscere attraverso” e “conoscere separando”. Separare dunque, differenziare, per conoscere meglio. Sappiamo, infatti, che la conoscenza avviene nella percezione della differenza: se non conoscessi il “ruvido”, non potrei sentire il “liscio”, se non conoscessi il dolore, non conoscerei la gioia, se non si definisse la normalità, non ci sarebbe neanche l’anormalità. Differenziare ci aiuta a conoscere ed a dare forma al nostro sapere. La diagnosi dunque dovrebbe evidenziare delle differenze, che permettono di includere le persone in alcune categorie ed escluderle da altre e questo dovrebbe aiutare i professionisti a definire meglio percorsi di cura, riabilitativi, educativi e di inclusione.
Tuttavia, stiamo vivendo un periodo socio-culturale in cui rischiamo di essere troppo affascinati dal tecnicismo e specialismo scientifico, dall’idea che la scienza e le tecniche possano risolvere ogni problema, riducendo la complessità umana ad un insieme di organi, caratteristiche o sintomi indipendenti, sui quali pensiamo di avere il controllo nel momento in cui li categorizziamo.
Su questo humus culturale facilmente può svilupparsi e diffondersi il virus della diagnosite, ironico neologismo che ho sentito pronunciare da Andrea Canevaro in occasione di un convegno e che ho deciso di adottare perché ricco di sollecitazioni positivamente provocatorie.
La diagnosite è quella patologia che attacca la diagnosi infiammandola, irrigidendola, rendendola poco flessibile e funzionale e riducendo le sue potenzialità conoscitive. Quando ci si ammala di diagnosite? Ogni esperto ed ogni società può ammalarsi di diagnosite quando spegne la curiosità verso la persona riducendola alla sua diagnosi, spesso semplice “somma di sintomi”, che poco aggiunge alla comprensione delle dinamiche psicologiche, esistenziali, relazionali e sociali della persona. Mi sembra che oggi il virus della diagnosite stia diventando molto resistente e si stia diffondendo in modo epidemico, come se avessimo un bisogno ossessivo di etichettare e definire ogni sfaccettatura e differenza presente nella nostra natura di esseri umani per poterla controllare e per poter ridurre i livelli di ansia collettivi di fronte alle numerose diversità presenti oggi nelle nostre società. Così accade che ciò che prima era semplicemente diverso, forse anche bizzarro, oggi è patologico. Ci risulta difficile accogliere e rispettare ciò che esce dalla norma, spesso ci sentiamo destabilizzati dalle diversità e pensiamo che la miglior forma di gestione sia il controllo e la separazione, che ci garantiscono un buon livello di rassicurazione.
Anche chi ha dedicato la propria vita professionale ai processi di categorizzazione diagnostica come Allen Frances, psichiatra alla guida del gruppo che ha pubblicato il DSM-IV, oltre che membro del comitato che ha redatto il DSM III, pone con forza riflessioni critiche alla comunità scientifica:
Le prove dell’inflazione diagnostica sono ovunque.
Ci sono state quattro micidiali epidemie di disturbi mentali negli ultimi quindici anni. Il Disturbo Bipolare Infantile è, come per miracolo, aumentato di quaranta volte; l’Autismo, in modo spettacolare, di venti volte; il Disturbo da Deficit di Attenzione ed Iperattività ha triplicato la sua prevalenza.
Quando l’incidenza schizza alle stelle, un segmento di crescita è dovuto a casi autentici che prima non venivano individuati: persone davvero bisognose di diagnosi e terapia. Ma un’attività diagnostica più accurata non può, da sola, spiegare perché così tanta gente, e specialmente bambini, abbia improvvisamente cominciato ad ammalarsi in modo così serio (Frances, 2013, p. 128).
In Italia la diagnosi di autismo è aumentata in modo esponenziale negli ultimi anni, quella di ADHD si sta diffondendo velocemente. La prossima invasione sarà quella di Disturbo Bipolare Infantile? Ora che abbiamo definito la diagnosite e compreso che la sua diffusione può suscitare legittime preoccupazioni, proverò ad elencarne i sintomi per poterla riconoscere.
Primo sintomo: egemonia medico-clinica
Ci ammaliamo di diagnosite quando attribuiamo alla diagnosi medico-clinica un ruolo centrale, gerarchicamente prioritario e non paritario ad altre forme di conoscenza della persona come quella antropologica, educativa, relazionale e sociale. Da questa scelta derivano conseguenze pericolose e limitanti, prima fra tutte l’idea che il disabile sia un malato. Un malato cronico peraltro, perché la disabilità, nella maggior parte dei casi, permane tutta la vita. La disabilità può avere complicanze mediche, ma non è una malattia: è solo una possibile condizione dell’esistenza umana. Eppure permane di fondo l’idea che il disabile sia malato e che, quindi, sia necessario intervenire terapeuticamente affinché guarisca, pur sapendo che non guarirà mai.
Un paradosso poco scientifico che riduce le possibilità esistenziali anziché ampliarle, come ci fa notare Montobbio:
[…] il convincimento che la sindrome di Down (e l’handicap in genere) appartenga alla sfera della malattia. Questo rimando conduce a pensare che la persona disabile debba essere valutata e curata e che il medico non sia solo competente per gli aspetti morbosi ma sia la figura che può dettare le regole della sua vita personale. In molti casi lo strumento di cura viene confuso con il suo fine (che è quello di consentire al disabile di vivere in mezzo a noi) per cui viene messa in atto una sorte di riabilitazione interminabile che di fatto cancella l’esistenza. (Montobbio,1994, p.19-20)
Se la persona, nella sua complessità esistenziale scompare e rimane solo “il malato”, ne consegue che ogni proposta per la sua vita sia di tipo terapeutico-sanitario: fisioterapia, logopedia, psicomotricità, terapia occupazionale, ippoterapia. Un disabile non può andare a fare una passeggiata a cavallo per come e per quanto è nelle sue possibilità: no, il disabile fa ippoterapia! Non può fare ginnastica per come e per quanto è nelle sue possibilità: no, il disabile fa fisioterapia! Il disabile non può intrattenersi in attività manuali o ludiche o occuparsi delle faccende quotidiane per come e per quanto è nelle sue possibilità: no, il disabile fa terapia occupazionale.
Ovviamente le terapie non si fanno nei luoghi “di tutti”, ma in luoghi sanitari, specializzati e, pertanto, separati, con evidenti conseguenze dannose sia rispetto ai processi di costruzione della propria identità personale e sociale sia rispetto alle dinamiche ed alle possibilità di inclusione e partecipazione sociale. Poiché, ovviamente, il disabile non guarisce e spesso neanche migliora, talvolta si aumentano le terapie in quantità ed intensità talaltra ci si lamenta per la scarsa collaborazione e le condotte oppositive, interpretate come indice della mancata accettazione della disabilità da parte sua o della famiglia.
Altre volte ancora, subentrano questioni di altro genere: economiche, organizzativo-istituzionali o di stanchezza e burn out. Allora si rinuncia alla cura ed il disabile-malato diventa un disabile-assistito, dal quale si ritira ogni speranza ed ogni investimento progettuale.
Purtroppo, però, tutto questo agire è frutto di un fraintendimento che nasce dall’idea di fondo che la disabilità sia una malattia e che il medico che fa la diagnosi sia colui che ha titolarità di definire il percorso di vita della persona disabile. Claudio Imprudente esprime con la sua consueta semplicità e straordinaria ironia questo fraintendimento originario:
[…] Vengo spesso invitato a varie manifestazioni e convegni. Quindi mi capita di essere invitato anche alle famose feste dell’ammalato. Sapete come mi comporto in queste circostanze? Mi misuro la febbre: se ho la febbre, ovviamente non ci vado perché sono malato. Se non ho la febbre vuol dire che non sono malato e quindi… non ci vado. (Imprudente, 2003, p. 99).
Il paradigma clinico non può essere considerato centrale e gerarchicamente superiore agli altri quando si parla di disabilità: ha giustamente una sua importanza e autorevolezza, di pari livello rispetto alla conoscenza della persona maturata a partire da altri punti di osservazione: psicologico, familiare, relazionale, scolastico, comunitario e sociale.
Dobbiamo fare molta attenzione: se sbagliamo le premesse, inevitabilmente sbagliamo gli interventi che ne derivano, come sostiene Medeghini:
[…] L’egemonia culturale del modello biomedico individuale nella definizione della disabilità ha condizionato anche gli studi accademici, siano essi sociologici, pedagogici e altri. La dimensione “abilista” è l’elemento centrale che condiziona e spinge ad affermare: “Dobbiamo abilitare le persone con disabilità, dobbiamo dare loro le competenze in modo che si adattino alla scuola ed al contesto sociale”. Eppure queste esperienze si sono rivelate deboli perché non mettono in discussione i contesti ed il loro ruolo disabilitante ed il potere del linguaggio nel togliere voce alle persone con disabilità. (Medeghini, 2013)
Secondo sintomo: ipertrofia della categoria diagnostica
Quando siamo affetti da diagnosite, riteniamo che le persone che appartengono alla stessa categoria diagnostica abbiano stessi bisogni, limiti, caratteristiche cognitive, emotive e di personalità. In verità, spesso teorizziamo che ogni persona si differenzia dalle altre, che non si può generalizzare, che siamo tutti diversi, che è necessario attivare percorsi personalizzati, ma ci comportiamo come se le persone con la stessa diagnosi fossero tutte uguali. Vediamo la diagnosi prima della persona e ricerchiamo, spesso inconsciamente, tutte quelle caratteristiche e quegli atteggiamenti che pensiamo essere propri della categoria, trascurando invece quelli che si discostano da essa e perdendo così occasioni di conoscenza vera. Infatti la nostra mente tende a cercare conferma alle proprie teorie enfatizzando i dati che le sostengono, minimizzando quelli che le disconfermano e producendo attraverso le profezie che si autoavverano effetti pragmatici importanti nelle relazioni e nei contesti in cui viviamo e operiamo (Watzlawick, Von Foester, Rosenhan, 1988). Quando la categoria diagnostica diventa ipertrofica e vediamo le persone all’interno della stessa categoria come “tutte uguali”, il protocollo di intervento diviene anch’esso presuntuoso ed egocentrico, inducendoci ad adattare la persona al protocollo anziché il protocollo alla persona. Propongo, ora, un’esperienza personale vissuta con la mia bambina con Sindrome di Down.
Siamo arrivati ai due anni e mezzo di Irene riuscendo ad evitare, grazia alla nostra illuminata neuropsichiatra, l’inserimento nel classico protocollo, il più diffuso per la Sindrome di Down. Questo percorso prevede che, di fronte ad un neonato con Sindrome di Down, si attui un intervento precoce agendo in questo modo: da subito fisioterapia, poi psicomotricità, poi logopedia. Se non c’è posto ancora in logopedia, terapia occupazionale nel frattempo, giusto per non far oziare questi bambini che, si sa, sono pigri di natura!
Con l’imminente inserimento di Irene alla scuola dell’infanzia ci troviamo, però, a dover affrontare l’iter burocratico per la certificazione di alunno in stato di handicap. Per questo prendo contatto con la UONPIA. Io e Irene facciamo un primo ed unico colloquio con la NPI che mi fissa un colloquio con la logopedista. Mi presento dalla logopedista, pensando che l’incontro fosse necessario per la certificazione di Irene. Solo durante il colloquio stesso scopro casualmente che la valutazione logopedica non è necessaria ai fini della certificazione. Allora, perché sono lì? Perché mi hanno dato un appuntamento da uno specialista per avviare un intervento senza spiegarmene il senso e senza chiedere il mio parere? La logopedista stessa non si pone neanche il problema: è ovvio iniziare l’intervento.
Probabilmente è il protocollo di quel servizio. Valido per ogni bambino con Sindrome di Down. Ma il protocollo non va spiegato e concordato con la famiglia? Quando arrivo alla soglia del suo studio, la logopedista è al telefono e mi fa cenno di entrare. Discute animatamente con una mamma al telefono, dicendo che non può assolutamente prendere in carico il bambino prima di qualche mese, perché non ha tempo. La mamma probabilmente insiste, la logopedista ribadisce le proprie posizioni. La telefonata dura qualche minuto. Poi la logopedista esausta ripone la cornetta del telefono, si rivolge a me mostrandomi la sua agenda “Guardi, guardi se non è vero! Ho l’agenda piena, più di così non posso fare. Guardi, guardi”. Guardo, mi spiace per lei e per il suo burn out.
Arriviamo a noi e mi dice che con Irene bisogna subito intervenire “ormai ha più di tre anni”. “No guardi” dico io “ha ancora due anni e mezzo”. Lei procede con la sua idea: facciamo un programma indiretto. “Bisogna che l’insegnante di sostegno venga una volta al mese da settembre qui da me”. “Mah, guardi” dico io “quest’anno abbiamo scelto di inserirla alla materna senza insegnante di sostegno”. Rimane quasi sconvolta. Con ancor più convinzione riprende il suo programma: “Allora vada in Comune e chieda di darle un educatore”. Mi sembra di essere su scherzi a parte. “Guardi” dico io “è diversi mesi che stiamo discutendo con la scuola perché accolga la nostra idea di non usufruire dell’insegnate di sostegno, è una scelta molto ponderata quella di non chiedere sostegni specialistici per il momento. Ora che la scuola è d’accordo, non mi sembra proprio il caso di andare in Comune a chiedere l’educatore”. La logopedista non demorde e si gioca la carta del terrorismo dicendomi qualcosa del tipo: “Signora, sappia che bisogna intervenire presto, perché a quattro anni si chiude la prima fase per l’apprendimento dei prerequisiti del linguaggio ed a sei anni definitivamente la seconda. Allora adesso le do dei questionari da fare a casa, lei me li riporta settimana prossima e poi iniziamo il trattamento indiretto con voi genitori. Va bene che ogni bambino è diverso, però la Sindrome di Down è la Sindrome di Down”. E mi fissa un appuntamento dopo due settimane nella sua pienissima agenda. Mi viene spontaneo chiederle se farà in tempo ad analizzare i risultati dei questionari prima del nostro prossimo appuntamento. Mi sembra di notare un po’ di stupore e poi risponde: “Certo, mi porto anche a casa il lavoro”. Le chiedo allora se non ritiene opportuno vedere Irene, prima di iniziare qualsiasi trattamento. Me lo concede, per la volta successiva.
Che confusione ho provato uscendo da quello studio! Quante domande allora, quante domande anche oggi mi sorgono su quell’incontro. Non aveva desiderio di vedere Irene per capire cosa fare per lei? Non sapeva proprio niente di lei: aveva sbagliato anche l’età! Perché non mi ha chiesto niente di lei? Perché non mi ha chiesto com’era a casa? Né cosa faceva. Né com’era al nido. Se aveva fratelli, sorelle. Se giocava oppure no, da sola o con altri. Niente. Perché non mi ha chiesto cosa pensava di lei la neuropsichiatra che la seguiva da quand’era nata? Non aveva desiderio di capire chi era questa bambina, attraverso lo sguardo delle persone che la conoscevano visto che lei non la conosceva? Come può una professionista, anche tecnicamente ben preparata a quanto ho successivamente saputo, ad iniziare un trattamento senza né vedere la persona né chiedere nulla su di lei. Ecco perché la sua agenda era così piena! Non era così piena forse perché valutava male con chi, quando e come iniziare un trattamento?
Non mi ha neanche chiesto perché ero lì. Se me l’avesse chiesto le avrei detto subito che ero lì per la pratica amministrativa di iscrizione alla scuola dell’infanzia. Lei mi avrebbe detto che invece non era necessaria la valutazione logopedica per tale pratica. Avremmo subito compreso che non dovevo né volevo essere lì e ci saremmo cordialmente salutate, nel rispetto delle scelte di entrambe. E lei avrebbe avuto più spazio disponibile per altri nella sua agenda strapiena. E poi, perché la neuropsichiatra non mi aveva chiesto se volevo un appuntamento dalla logopedista? Perché si è arrogata il diritto di decidere per noi? Al posto nostro? Poteva darci un consiglio, una sua indicazione terapeutica, ma non dare per scontato che la sua decisione su quello che noi avremmo dovuto fare era ovvia e da seguire.
Perché mi sono sentita così frustrata, così confusa, così umiliata uscendo da quel colloquio? Perché lì dentro non c’ero io, con la mia storia, la mia bambina, la nostra storia. In quella testa ed in quella relazione c’era solo un’etichetta diagnostica: “Sindrome di Down”. Di noi, non importava nulla a nessuno. Così la diagnosi da strumento di conoscenza, diventa strumento di pregiudizio. La categoria diagnostica si impossessa dell’individuo, beffandosi delle differenze individuali. Perde il suo valore di strumento “per conoscere meglio” e diventa strumento che ostacola una conoscenza sincera, profonda, interessata alla persona. Se questa “non conoscenza” viene spacciata, attraverso termini altisonanti e volutamente incomprensibili, per conoscenza scientifica, non è difficile comprendere quanti danni possa provocare. Quanti problemi aggiuntivi nelle vite già impegnative delle persone e delle famiglie con disabilità.
Terzo sintomo: banalità diagnostica ed illusione prognostica
Quando siamo affetti da diagnosite, ci allontaniamo da un serio e continuativo processo diagnostico per affidarci eccessivamente alla categorizzazione diagnostica che, spesso, non solo limita le possibilità di conoscenza, ma propone anche illusioni prognostiche prive di scientificità frequentemente smentite. Il principio dormitivo di insegnamento batesoniano (Bateson, 1984) ci aiuta a comprendere quella che ho definito “banalità diagnostica”, tipica di quando utilizziamo etichette apparentemente esplicative che invece sono mere tautologie, spiegazioni che non contengono alcuna informazione aggiuntiva.
Una forma comune di spiegazione vuota è il ricorso a quelli che ho chiamato “principi dormitivi”, prendendo il termine dormitivo da Molière. Nel Malade imaginaire c’è una coda in latino maccheronico nella quale viene rappresentato sulla scena l’esame orale medioevale di un candidato dottore. Gli esaminatori chiedono all’esaminando perché l’oppio faccia dormire e quello risponde trionfante: “Perché, sapienti dottori, esso contiene un principio dormitivo” (Bateson, 1984, p. 118).
Non raramente le diagnosi categoriali contengono informazioni inutili ed inutilizzabili sul piano progettuale, riabilitativo, educativo, se non addirittura pericolosamente utilizzabili. Facciamo l’esempio del valore del QI (Quoziente Intellettivo) come elemento cardine nella formulazione di una diagnosi di disabilità intellettiva.
Giorgio, ritardo cognitivo e psicomotorio, ha un’età anagrafica di otto anni e mentale di tre anni e mezzo. Cosa significa? Cosa indica esattamente il QI? A cosa ci serve? Come utilizziamo questa informazione? Significa che abbiamo di fronte un bambino di otto anni ma è come se, in tutto e per tutto, ne avesse tre e mezzo? Quindi come ci relazioniamo a lui? Gli chiediamo le cose che chiederemmo ad un bambino di tre anni mezzo? Lo trattiamo come un bambino di tre anni e mezzo? Gli chiediamo di svolgere compiti ed attività che svolgerebbe un bambino di tre anni e mezzo? Non pensate possa essere pericoloso? Non pensate possa diventare una profezia che si auto avvera? Quando questo bambino di otto anni, continuerà a comportarsi come un bambino di tre e mezzo, diremo che questo comportamento è connesso al suo deficit o al fatto che l’abbiamo trattato, istruito ed educato anche a otto anni come se fosse un bambino di tre e mezzo?
Joseph Espinas, ci spiega molto bene questo concetto, scrivendo a sua figlia Olga, ragazza di ventisei anni con Sindrome di Down:
[…] Gli esperti parlano dell’età mentale delle ragazze come te. Cosa vuoi che ti dica, non sono completamente d’accordo. Qual è la tua età mentale, ora? C’è sicuramente qualche test che ci dirà sei anni, o otto o dieci, non lo so. È una falsità camuffata dalle cifre. Non sai fare le operazioni che una bambina di sette anni è in grado di risolvere, però hai una visione dei comportamenti umani, dei rapporti sociali, del valore di ciò che dicono gli altri che un bambino non ha. Non mi sembra affatto che tu abbia una mente infantile e sono convinto che mischiare il coefficiente intellettivo con l’effettiva età mentale è una stupidaggine. Sei fortemente inadeguata per l’apprendimento di molte materie che costituiscono il tradizionale insegnamento scolastico, ma la mente è un’altra cosa e la tua mente funziona così correttamente in determinati aspetti – aspetti che io valuto molto, dal punto di vista umano – che la trovo adulta quanto il tuo corpo. (Espinas, 1990, p.28)
Olga forse ha un’età mentale di sette anni, ma ha fatto così tante esperienze in più di una bambina di sette anni. Ha dovuto affrontare così tante fatiche e delusioni in più. Ha potuto provare così tante gioie e soddisfazioni in più. A livello sociale, relazionale, emotivo ha vissuto così tanto di più di una bambina di 7 anni. Allora, per conoscerla davvero, a cosa ci serve sapere che la sua età mentale è di sette anni?
Associata alla banalità diagnostica, incontriamo l’illusione prognostica, cioè l’idea di poter prevedere il futuro della persona con disabilità a partire dalla diagnosi categoriale. Essendo un’illusione, frequentemente viene smentita, come ci racconta, tra gli altri, con semplicità e simpatia Claudio Imprudente sulle pagine del libro di Candido Cannavò:
[…] Sai cosa disse il medico a mia madre il giorno in cui fu chiaro che il suo unico figlio era afflitto da tetraparesi spastica? “Signora, questo bambino sarà un vegetale”. Un giorno io mi resi conto del mio destino e feci una scelta: se devo essere un vegetale, preferisco il geranio”.
Come mai un geranio? “È una pianta che mi piace, un fiore che resiste nel tempo. (Cannavò, 2005, p. 38)
Oggi Claudio è scrittore, formatore, conferenziere e presidente del Centro Documentazione Handicap di Bologna, grazie alla testarda opposizione della sua famiglia alle nefaste previsioni mediche. Quante volte ho sentito insegnanti rassegnati ed impotenti dirsi: “Gli esperti hanno detto che questo bambino non parlerà mai” oppure: “Il neuropsichiatra ha detto che non potrà mai raggiungere apprendimenti didattici, bisogna solo proporgli delle attività concrete”. Cosa fa riporre così tanta fiducia in una diagnosi? Non ci pare propria della superstizione vestita di pseudoscientificità l’idea che una diagnosi psicologica o psichiatrica possa prevedere il futuro? Non troviamo molto pericoloso nei suoi effetti stigmatizzanti ed invalidanti considerarla così veritiera?
[…] Una descrizione può rendere più chiara una data situazione, sottolineando risorse e possibilità o può mistificare e impedire sviluppi, come quando dice: “ Il tuo comportamento è causato da una malattia incurabile e irreversibile, determinata geneticamente, sicché tu sei destinato ad essere fragile e dipendente da noi esperti per il resto della tua vita” (C. Meyer, Le narrative del Centro al Dragonato, inedito, p. 1)
Anche David Tzuriel riflette su utilità e discutibilità delle sentenze prodotte da strumenti diagnostici anche molto accreditati nella comunità scientifica, quali i test:
[…] Non capirò mai cosa spinga gli psicologi a voler essere degli indovini. È una magra consolazione sapere che i nostri test riescono a predire accuratamente che un dato bambino avrà uno scarso rendimento scolastico. Ci sono numerose fonti da cui provengono le informazioni predittive. Noi abbiamo bisogno di strumenti ed approcci che ci dicano come vanificare queste vere e proprie predizioni! (Tzuriel, 2004)
Quando la diagnosite attacca, il rischio è che la diagnosi anziché aiutarci a capire ed agire offra solo informazioni stereotipate ed invalidanti. Ciò che dovrebbe aprire ad una vita migliore, rischia di diventare strumento che limita occasioni e possibilità di crescita, privando individuo e famiglia della possibilità di sognare, di cambiare, di costruire un futuro che nessuno, proprio nessuno può prevedere.
Quinto sintomo: se non si accordano con la teoria, tanto peggio per i fatti
Capita che mi torni in mente il detto attribuito a Hegel: “Se i fatti non si adeguano alla teoria, tanto peggio per i fatti”. Per descrivere questo sintomo della diagnosite basta un racconto. In supervisione un’educatrice mi racconta di seguire un ragazzino segnalato alle elementari per ritardo cognitivo lieve, come emerso dalla somministrazione del test intellettivo Wais. Vengono quindi, per legge e per abitudine, attivati l’insegnante di sostegno e l’educatrice.
Dopo averlo conosciuto ed accompagnato per un certo periodo nell’educatrice sorgono alcuni dubbi: il bambino appare piuttosto adeguato sia relativamente alla didattica sia sul piano socio-relazionale e, forse, la presenza di aiuti e sostegni rischia più di nuocere che di aiutare. Porta quindi la questione alla neuropsichiatra, mettendo in discussione con molta professionalità la necessità e l’opportunità del suo intervento educativo. La neuropsichiatra non è molto convinta, ma sollecitata da queste riflessioni decide di rifare il test. In Test Veritas Est! Il test conferma il Quoziente Intellettivo sotto la media. Quindi non ci sono storie: il bambino necessita degli aiuti didattico ed educativo. Lo dice il test. “Il bambino però a scuola è adeguato, ci sta bene e va bene” sostiene l’educatrice. “Probabilmente, con altre abilità, riesce a compensare il QI basso. Però il QI è basso!” risponde la neuropsichiatra.
Nell’ascoltare questo racconto, mi sento intristire. La mente si riempie di quesiti. Davvero un test può essere così onnipotente nel classificare? Davvero quanto ne emerge “è la Verità”? Davvero il valore del Quoziente Intellettivo prodotto da un test può efficacemente predire le capacità e, soprattutto, la qualità di vita di una persona? Ed ancor più di un bambino? Cosa significa “Probabilmente, con altre abilità, riesce a compensare il QI basso. Però il QI è basso. Quindi manteniamo gli aiuti?”
Non è forse quello che facciamo tutti noi, quotidianamente: compensare i nostri limiti cognitivi, sociali, relazionali, fisici utilizzando le nostre qualità e competenze migliori? Non è proprio questo uno degli obiettivi principali della scuola e dell’educazione: permettere a ciascuno di sviluppare al meglio le proprie specifiche e personali potenzialità riducendo i limiti? C’è forse qualcuno di noi che non cerca di compensare i propri limiti con le proprie qualità?
Quando siamo affetti da diagnosite, pensiamo che non sia importante che il bambino sappia intelligentemente gestire i suoi limiti e le sue potenzialità e riuscire così a vivere sufficientemente bene. La cosa più importante sono i numeri del test.
La terapia della diagnosite
Non è il dubbio che rende pazzi, ma la certezza
Musil
Fortunatamente, a fronte di un quadro sintomatologico così complesso, abbiamo a disposizione valide terapie per affrontare la diagnosite ed per contenerne la diffusione nel campo della disabilità. Ne suggerisco alcune.
Prima risorsa terapeutica: la diagnosi sbocconcellata
Una prima risorsa per guarire dalla diagnosite è il recupero di un modello teorico ed operativo che esprima nella diagnosi un processo continuo e sempre perfettibile di ricerca di senso e possibilità. Il virus della diagnosite si indebolisce progressivamente, se rallentiamo la corsa alla diagnosi categoriale e ci concediamo tempo per conoscere approfonditamente il bambino, le sue fragilità e le risorse individuali, relazionali, familiari e sociali.
Interessante è l’idea di “diagnosi sbocconcellata” di Sergio Neri, che accosta al termine diagnosi una parola così poco scientifica, “sbocconcellata”, in un accostamento ricco di potenza evocativa e provocatore di nuovi pensieri. Questa definizione protegge la diagnosi da rischi di ambizione narcisistica e le ricorda che può solo essere parziale, precaria, limitata, costantemente rivedibile. Non è né etico né scientifico che la diagnosi definisca un destino, che si percepisca e sia percepita come stabile, irreversibile, definitiva. La “diagnosi sbocconcellata” invoca la necessità di un processo di conoscenza mai completo, in continua evoluzione, fallibile e revisionabile e, proprio per questo, scientifica secondo il principio di falsificabilità popperiano.
Seconda risorsa terapeutica: ICF, Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute
Anche l’assunzione dell’approccio teorico-metodologico proposto dall’ICF può aiutarci nella nostra battaglia contro la diagnosite. È uno strumento classificatorio che propone una svolta culturale di notevole portata, ponendo l’attenzione su due aspetti fondamentali che la diagnosi tradizionale non considera o considera poco. Il primo: l’attenzione alle funzionalità, associate alle disfunzionalità. L’ICF è la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute. Non si rivolge ad una particolare categoria di individui, ma a tutti noi in quanto dotati di funzioni e disfunzioni. Tutti noi potremmo valutare le nostre abilità e disabilità sull’ICF: provare a farlo è un’esperienza molto interessante per i professionisti della salute, dell’educazione e della relazione d’aiuto. Utilizzando quest’ottica, si mantiene al centro del ragionamento il fatto che ogni persona incarna disabilità e talenti, che vanno ricercati con la stessa attenzione. Il muro eretto per distanziare le persone con disabilità da quanti definiti normodotati si assottiglia, perché la differenza tra le due categorie di persone diventa più quantitativa che qualitativa.
Secondo aspetto innovativo è la prospettiva ecologica da cui consegue che nella diagnosi deve essere prevista anche la diagnosi del contesto e della relazione. Il contesto va analizzato a valutato nei suoi aspetti facilitanti ed ostacolanti. Il contesto, esattamente come l’individuo disabile, possiede limiti e risorse. Non ci può essere diagnosi della persona senza diagnosi del contesto. Questo concetto è facilmente comprensibile attraverso un esempio: se sono sulla sedia a rotelle e trovo una macchina parcheggiata sul marciapiede, la restrizione alla mia passeggiata non è determinata dalla mia personale menomazione, ma dalla macchina sul marciapiede.
Nell’ICF il modello medico individuale incontra il modello sociale della disabilità e ne esce un compromesso più rispettoso della complessità delle condizioni di disabilità, che non esisterebbero senza la collusione tra dimensione individuale e dimensione socio-ambientale. Nelle diagnosi attuali e nelle conseguenti pratiche riabilitative ed educative, ancora prevalentemente centrate sulla valutazione dell’individuo, la valutazione del contesto è ancora sostanzialmente assente o limitata ad un’analisi dell’ambiente familiare nei suoi aspetti di problematicità.
L’ICF, in quanto strumento classificatorio ed operativo, può aiutare a tradurre la necessaria attenzione alle potenzialità ed al contesto in pratica diagnostica, riabilitativa, didattica ed educativa. Pensiamo a quanto sarebbe più completa e sensata l’elaborazione del Progetto Educativo Individualizzato in ambito scolastico se ponessimo l’attenzione richiesta dall’ICF nella definizione di fattori facilitanti ed ostacolanti presenti nella scuola e ci ponessimo, di conseguenza, obiettivi migliorativi del contesto e non solo dell’alunno con disabilità!
Non è certo uno strumento perfetto: l’ICF è molto complesso nell’applicazione, utilizza criteri normativi e linguaggio ancora molto legati all’impostazione bio-medica individuale, presenta alcune ambiguità nella definizione di concetti centrali (Medeghini, 2013; D’Alessio, 2013).
Eppure, se diventasse parte del patrimonio professionale di chi fa diagnosi e di chi lavora a partire da una diagnosi, costringerebbe a un importante riorientamento culturale, favorendo la destabilizzazione della rappresentazione più diffusa e rassicurante della disabilità: io, normodotato abile, diagnostico e curo te, disabile, incapace e limitato.
Terza risorsa terapeutica: scetticismo scientifico
Si suppone che la diagnosi sia prodotto scientifico, pertanto autorevole, valido, oggettivo, poiché la scienza è un complesso organico e sistematico di conoscenze, determinate in base a un principio rigoroso di verifica della loro validità.
Nel mondo della scuola mi capita spesso di respirare questo clima di riverenza nei confronti della diagnosi categoriale, talvolta considerata poco comprensibile e poco utile, ma sicuramente veritiera: “È autistico, non lo diciamo noi, lo dice la diagnosi!” Forse è auspicabile, ma al momento sembra che la nostra società non possa fare a meno delle diagnosi: su di essa prendono vita conoscenze, interventi, risorse economiche ed umane, agevolazioni.
Se, dunque, dobbiamo continuare a convivere con la diagnosi, possiamo però difenderci dalla diagnosite pensandola ed utilizzandola con scetticismo scientifico.
[…] Riconoscere la necessità di classificare non vuol dire che la classificazione attuale di malattie mentali sia buona. Infatti non lo è. Il modello concettuale di malattia che ancora domina in campo psichiatrico è quello sindromico: costellazione di sintomi e segni con decorso caratteristico. E’ un fatto deplorevole perché ne discende che le diagnosi psichiatriche sono poco attendibili e poco valide. Poco attendibili significa che psichiatri diversi arrivano facilmente a conclusioni diverse sullo stesso paziente; poco valide vuol dire che una volta fatta la diagnosi non se ne possono dedurre indicazioni molto precise né per la prognosi né per la terapia. Riconoscere che è inevitabile classificare non significa affermare che si fa sempre un buon uso delle classificazioni e delle diagnosi. E’ frequente l’uso magico del gergo scientifico: dare un nome ad un fenomeno può creare la falsa comprensione di averlo compreso. L’etichetta diagnostica può far dimenticare l’individuo ed il medico finisce per curare più la malattia che il malato. (Reda, citato in Meyer, p.3).
Quarta risorsa terapeutica: curiosità
Possiamo disporre di un’altra possibilità terapeutica per contrastare il virus della diagnosite. Si tratta di quella abilità professionale definita da Cecchin G. “curiosità”, intesa come capacità di connettersi alla persona ed al suo sistema, di appassionarsi al suo funzionamento, di investigare le modalità alternative di funzionamento, di continuare a guardare e cercare nuove connessioni tra gli eventi, senza accontentarsi di un’occhiata soltanto, senza immaginare che il rapporto causa-effetto sia negli eventi stessi (Cecchin, 1987, 2008; Telfener, 2003):
Ecco che allora il terapeuta passa ad un’altra categoria, invece di diventare maestro, moralista, esperto, diventa curioso… Ti fai domande diverse, cominci ad ammirare la loro (della famiglia) resistenza, la loro capacità di sopravvivenza’ (Cecchin, 2008, p. 60).
La curiosità, attraverso un processo circolare continuo, spinge ad esplorare ed inventare nuovi punti di vista e nuove possibilità di azioni. Allontanando dall’etichettamento e dal pregiudizio, esalta il desiderio di comprendere la persona, la sua famiglia e la sua storia incontrando e valorizzando la complessità dell’esperienza della disabilità.
La curiosità è ricerca perché apre a nuovi dubbi e nuove domande, contrastando uno dei sintomi più patologici della diagnosite: il bisogno di trovare risposte immediate e rassicuranti in diagnosi precoci o, più spesso, frettolose. La curiosità riabilita il dubbio e gli restituisce la sua funzione:
La ricerca nasce quando si inciampa in un dubbio. E cercare e ricercare, spremere le meningi, arrovellarsi fino allo spasimo, se non produce risultati immediati, di certo aumenta l’intelligenza o, almeno, la capacità di usarla al massimo (Piazza, 2005, p.36).
Curiosità è lasciarsi condurre, durante il processo diagnostico, dal racconto dei veri esperti che incontriamo. Chi è esperto? Chi fa ed ha fatto esperienza. Senza voler sminuire ruolo e competenze di professionisti specializzati con anni di esperienza diagnostica e terapeutica, i maggiori esperti di disabilità sono proprio coloro che la sperimentano quotidianamente, spesso per tutto il corso della loro vita: le persone disabili e le loro famiglie. Se ci lasciamo incuriosire da storia, vissuti, emozioni, pensieri e racconti delle persone che andiamo a diagnosticare e delle loro famiglie, forse riusciremo a rallentare questa strana e pericolosa corsa alla classificazione diagnostica, indebolendo così il virus della diagnosite.
Conclusioni
Concludo con due riflessioni.
Negli ultimi tre mesi ho visto dimettere da un noto e accreditato Ente che si occupa di disabilità quattro bambini con gravissime forme di disabilità, mentre lo stesso servizio prende in carico per percorsi riabilitativi anche intensivi bambini la cui diagnosi di disabilità appare, non solo a me, discutibile. Questo è un altro, a mio parere, terribile effetto della diagnosite che non possiamo fingere di non riconoscere e provare a contrastare, poiché nuoce sia a chi ha dei seri ostacoli sul suo percorso esistenziale che non riceve ciò di cui ha bisogno sia a chi si trova vittima di un’etichetta diagnostica impropria solo perché ha caratteristiche che non rientrano pienamente nella norma.
La seconda riflessione, conseguente, è un invito ai Disability Studies ed a tutti quegli approcci che sostengono una lettura sociale e culturale della disabilità ad entrare più concretamente nei contesti sanitari, sociali e comunitari vissuti ogni giorno dalle persone con disabilità, perché le rappresentazioni legate al modello medico sono ancora le più diffuse e profondamente radicate e chi cerca di contrastarle si sente spesso un solitario Don Chisciotte impegnato a combattere contro i mulini a vento.
Bibliografia
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