
a cura di Barbara Trotta
L’esperienza raccontata da un allievo
Francesco Paolo Montalto, allievo II° anno CMTF, sede di Palermo
Quando ho deciso di partecipare a questo seminario ho preferito la modalità in presenza perché la ritenevo fondamentale per poter interagire meglio con il relatore e con i colleghi in sala; la possibilità di confrontarsi anche durane le pause, di scambiare opinioni, riflessioni è un valore aggiunto che in un contesto virtuale è più difficile da ottenere. Certo anche con la modalità online è possibile discutere, ma spesso si interagisce solo con chi già si conosce.
Pensando a un seminario sul suicidio, quello che avevo in mente era un incontro altamente tecnico in cui sarebbero stati forniti test, strumenti come interviste e questionari, tecniche specifiche per affrontare il tema e una solida base teorica trasmessa in modo didattico e frontale. Nonostante conosca l’approccio della dottoressa Mascellani mi aspettavo un seminario metodico, forse quasi medico, in cui il tema sarebbe stato trattato in maniera didattica e impersonale. Immaginavo che ci sarebbero state delle narrazioni di casi clinici per illustrare quali strumenti diagnostici e quali strategie terapeutiche fossero più adatte e in quale caso.
Sono invece rimasto piacevolmente sorpreso quando ho assistito alla narrazione di un’esperienza, di un percorso, di un processo clinico.
La prima emozione che ho provato è stata la trepidazione: affrontare il tema del suicidio mi sembrava un passaggio fondamentale per la mia crescita professionale, sono uno psicologo di 25 anni che ha appena aperto il suo studio, consapevole di non avere abbastanza strumenti per poter affrontare un tema così complesso. Non penso di certo di essere diventato competente con un solo seminario, del resto nessuna formazione può mai essere completamente esaustiva relativamente a tale tematica, ma sicuramente ora mi sento più orientato e più sicuro, anche qualora dovessi curare l’invio a un collega più esperto o nell’eventualità della conduzione di una co-terapia con un collega psicoterapeuta già formato.
Oltre la trepidazione, sono stato attraversato da tanta curiosità… Poi la sorpresa per la modalità di conduzione del seminario: è stato di fatto un racconto esperienziale che ha permesso di entrare nel vivo della tematica senza il filtro della didattica, così da poter cogliere le sfumature più umane e profonde della relazione terapeutica.
Infine il sollievo, è sempre estremamente rassicurante vedere modalità di lavoro non patologizzanti e rispettose della sofferenza. Spesso quello che si vede è un incasellamento del dolore in categorie diagnostiche rigide riducendolo a una serie di sintomi da trattare con protocolli. Questo seminario ha mostrato un’alternativa, un approccio in cui la sofferenza viene accolta senza essere ridotta a una diagnosi, senza farle perdere la sua dimensione umana.
È un approccio che ci mostrano e ci insegnano alla scuola di specializzazione, un approccio di cui si parla spesso con alcuni colleghi, ma il fatto che venga condiviso e divulgato anche in realtà più ampie aumenta la sensazione che ci sia una mente più ampia che condivide le stesse premesse. Mi ha ricordato che forse il gap percepito tra un approccio centrato sul problema e un approccio centrato sulla persona non è poi così ampio come sembra, almeno nel nostro mondo sistemico!
Dal punto di vista professionale ho appreso che l’approccio al suicidio in terapia non deve necessariamente basarsi su protocolli rigidi e tecniche standardizzate, in quanto l’elemento più importante è la creazione di uno spazio sicuro in cui il paziente possa sentirsi accolto e ascoltato senza essere ridotto a una diagnosi. Il seminario ha sottolineato come il dolore, per quanto intenso e a volte pericoloso, ha sempre un senso e una dignità che va riconosciuta e accompagnata nel modo più rispettoso possibile.
Ho riflettuto molto sul modo in cui affrontiamo la sofferenza, sia la nostra che altrui. Spesso siamo condizionati dal bisogno di dare risposte immediate e soluzioni concrete, in realtà sembra che ciò che è più utile, nel setting clinico, è la capacità di stare accanto senza la pressione di dover aggiustare qualcosa, offrendo piuttosto una presenza, non giudicante e autentica, ricordandosi comunque di pensare per prima cosa alla messa in sicurezza della persona e delle persone che le stanno attorno, quando c’è il rischio di un suicidio.
Il messaggio più forte che mi ha lasciato questo seminario è che la sofferenza non è solo un problema da risolvere, è qualcosa che può essere compresa, ascoltata e accompagnata con rispetto, offrendo uno spazio in cui questa può sentirsi vista e riconosciuta dentro una narrazione familiare che non può che essere trigenerazionale. Il modo in cui scegliamo di guardare la sofferenza fa la differenza tanto per chi la vive quanto per chi ha il compito della cura.
Foto di cottonbro studio