Ombre corte, 2021.
Letto da Giada Cola.
Psicoanalisi e rivoluzione. Psicologia critica per i movimenti di liberazione nasce durante la pandemia dal lavoro a quattro mani di Ian Parker e David Pavón-Cuéllar. Tradotto da Enrico Valtellina per Ombre Corte, il manifesto intreccia idee difficili da trasporre sul piano narrativo. Richiede un’opera di traduzione pratica su due livelli, uno clinico e l’altro politico, vicendevolmente implicati tra loro.
La lettura di queste pagine è un processo frenetico, perché febbrile e urgente è la questione che ci sottopongono. Come possiamo riconsiderare quelli che vengono diagnosticati e trattati come problemi psicologici individuali, riconoscendone la dimensione politica, storica e sociale? La sofferenza che abita gli esseri umani è un mero indicatore di disfunzioni psicopatologiche che necessitano un riadattamento individuale, oppure lo sfruttamento lavorativo, la precarietà, l’imperativo performante che abita il nostro tempo c’entrano qualcosa e richiedono un ingaggio collettivo, che porti al cambiamento?
Sembra che le odierne tendenze psy abbiano uno sguardo riparativo e riabilitante. Biografie straordinariamente articolate tra luoghi, generazioni e legami, una volta immesse nel circuito della cura finiscono per essere prosciugate in racconti granitici, fermi ad un tempo presente, che non ammette trasformazioni. Il sintomo è in questo senso un rigurgito indesiderato dell’inconscio, visto come hostis – nemico, da espugnare con l’esercizio della consapevolezza e da domare attraverso la normalizzazione. L’ambiente che causa, circonda e alimenta la sofferenza è considerato esterno all’individuo e contrapposto ad esso: da ciò deriva un atteggiamento (anche clinico) di parcellizzazione e frammentazione, nonché una pericolosa adesione intellettuale ed etica a un presunto ordine naturale. Un ordine contraddistinto da sfruttamento, oppressione e da un dilagante senso di alienazione nei confronti degli altri e dell’ambiente. Un ordine che celebra l’autonomia e bandisce la possibilità di scoprirsi reciprocamente dipendenti nelle relazioni, influenzabili da ciò che incontri, scontri e conflitti riescono a generare in termini di possibilità e cambiamento.
La considerazione di mente e di Io come proprietà individuali contribuisce a reificarli e la scienza che si presta a questo discorso si trasforma da strumento di comprensione a dispositivo di previsione e controllo. Opera al fine di ricondurre l’eterogeneità e la complessità ad un modello dominante di umanità, quello che si è affermato attraverso il colonialismo, il capitalismo, il patriarcato. Persiste l’idea darwiniana di omogeneità come fattore cruciale per la sopravvivenza, al punto tale che ogni differenza viene negata o patologizzata e solo di rado riconosciuta come elemento indispensabile per generare effetti e favorire mutamenti. Questa razionalità sostiene anche un certo tipo di ricerca e di approccio alla conoscenza, accumulata ed espulsa in un circuito bulimico di uso e consumo e solo raramente attenta agli aspetti individuali, qualitativi e singolari.
Il manifesto di Parker e Cuéllar non si limita ad auspicare una rivoluzione del pensiero. La realizza, scegliendo parole che agiscono una trasformazione e presentando la psicoanalisi come possibile alleata. Lungi dall’essere la celebrazione in termini assoluti di una disciplina, la proposta degli autori muove da una contestualizzazione della psicoanalisi come prodotto storico e sociale ben definito, dotato di potenzialità e limiti. Alla sua versione conservatrice, affezionata alla lotta piccolo borghese dell’Io contro pulsioni, istinto e natura, viene contrapposta una psicoanalisi rivoluzionaria. Una psicoanalisi capace di sostenere i movimenti di liberazione e l’attivismo, perché in grado di riconoscere l’umana tendenza a replicare nelle storie autobiografiche e familiari le strutture ideologiche ed economiche dominanti.
L’invito è quello di dar voce alla frattura intimamente percepita quando avvertiamo a un tempo sopraffazione e desiderio di liberazione, ma anche godimento nel reiterare le stesse dinamiche di potere che ci affannano. La liberazione sembra allora passare dalle corde vocali, dal corpo, da respiri e odori condivisi nella stanza di analisi. Spazio a sua volta mai completamente avulso da dinamiche di potere e sopraffazione. Si pensi ad esempio all’applicazione del modello psicoanalitico come principio esplicativo di tutto ciò che emerge dentro e fuori dal contesto clinico, o all’afonia a cui è ridotto l’analizzato, quando lo psicoanalista s’intestardisce parlando al posto suo. Anche la relazione d’aiuto è intrisa di dinamiche di potere e di potenziale sopraffazione: saperle riconoscere e problematizzare è indispensabile per non abusarne. “Liberare la psicoanalisi”, scrivono gli autori, è un processo cruciale affinché essa possa fungere da risorsa e sostenere la liberazione.
Ciò sembra essere particolarmente importante nel lavoro clinico con le famiglie, strutture sociali intrise di un’ideologia normativa e inserite in matrici strutturali che replicano l’organizzazione sociale. Organizzazione nella quale la felicità è raggiungibile a patto che vi sia un’adesione capillare al modello dominante: tutti i legami che si discostano da esso, corrono il rischio di essere percepiti come carenti ed esser ricondotti a percorsi di sviluppo “normali”. Ferreira scrive che l’elemento centrale di un mito familiare è la condivisione di modelli di distorsione della realtà. Il termine distorsione non è da intendersi in senso psicopatologico. Esso denota piuttosto l’abilità di costruire e mantenere credenze complementari circa i ruoli familiari, trovando senso e giustificazione ai propri modelli relazionali. Forse la distinzione dei ruoli e conseguentemente delle aspettative che ciascuno sviluppa nei confronti degli altri è un processo intrinsecamente sociale e politico, a cui nemmeno l’analista è estraneo. Ciò rende necessario non sentirsi esonerati, in quanto professionisti della cura e della salute, dal problematizzare i propri sistemi di credenze, riuscendo a coglierne l’influenza e il potere che sono in grado di esercitare nell’incontro con l’altro.
Uno spunto interessante a questo proposito potrebbe arrivare dalla sistemica e dalle riflessioni di Gianfranco Cecchin sul tema del linguaggio: il significato delle parole è solo apparentemente generato da chi le pronuncia e molto più verosimilmente attribuito da parte di chi le ascolta. Se una forma di influenzamento è inevitabile, anche nella relazione terapeutica, possiamo pensare che una terapia finisca “bene” quando il cliente diventa e si percepisce attivo nella ridefinizione della propria storia e della propria posizione.
I movimenti femministi, l’attivismo disabile, i tentativi di affermazione delle persone con fragilità psichica, le lotte delle minoranze etniche, sessuali, identitarie possono trovare un valido alleato nella psicoanalisi rivoluzionaria che Parker e Pavón-Cuéllar raccontano in queste pagine. Al contempo, possono a loro volta essere validi alleati per quei professionisti e quelle professioniste della cura che avvertono con dolore il sottile confine tra cura e controllo e provano costantemente a non scadere nella psicologizzazione dei soggetti, guardandosi bene dall’adattarli all’ideale normativo, che non rende alcuna giustizia alla meravigliosa diversità che ci contraddistingue.