di Mauro Piccinin e Deborah D’Andrea
Abstract
Sono ormai noti diversi studi che hanno focalizzato l’attenzione sugli effetti che l’abuso sessuale e il maltrattrattamento intrafamiliare producono sulle vittime sia a breve sia a lungo termine, e su come l’aver subito tali soprusi in tenera età interagisca sullo sviluppo psico-affettivo della vittima influenzandola, una volta divenuta adulta e lei stessa genitore, sulla sua capacità di mettere in atto delle misure protettive nei confronti della prole. Allo stesso modo, il ruolo delle istituzioni, oltre che a tutelare il minore con una serie di azioni protettive, ha l’obbligo di attivare una serie di interventi che comprenda anche il recupero delle funzioni genitoriali dei caregivers. Attraverso l’analisi di un caso clinico, il presente lavoro cerca di evidenziare come la qualità della relazione, che gli operatori sociali instaurano con l’utente, ne influenzi profondamente gli aspetti identitari, favorendo o bloccando la rielaborazione del trauma.
The relationship as a reparative function of trauma: what is the role of social workers?
Different surveys focusing on the short- and long-term effects sexual abuse and inter-familial maltreatment may produce on the victims have already been published. These studies have also pointed out how suffering from these abuses during childhood may influence the victim’s psycho-emotional development, because once he/she has become an adult and a parent, he/she may find difficult to be able to be protective towards his/her children.
At the same time the institutions, besides defending the child employing several protective actions, must activate a series of aids including even the rehabilitation of the caregivers’ parenting. Through the analysis of a clinical case, we have tried to focus on the quality of the relationship between the social providers and the victim since this may really influence the victim’s identity, encouraging and stopping the reworking of trauma.
Introduzione
Negli ultimi trent’anni è stato possibile registrare un continuo incremento, tanto a livello mass-mediatico quanto nei procedimenti penali, di abusi sessuali perpetrati nei confronti di vittime minorenni (Goodman et al., 1998). Tuttavia non è possibile disporre di dati certi sulla reale gravità di tale fenomeno, in quanto esso tende a proliferare soprattutto all’interno di sistemi parentali, dove diventa più difficile per le giovani vittime chiedere aiuto al di fuori della famiglia. Quando, infatti, l’abuso si consuma all’interno delle mura domestiche, nelle vittime si sviluppa il timore di perdere le figure di riferimento; quando, invece, l’abusante è un estraneo o un conoscente compare nel bambino un grande senso di vergogna che può inibire l’intenzione di denunciare l’accaduto (De Leo & Patrizi, 2002).
Nonostante queste rilevanti difficoltà, l’attenzione verso questo fenomeno costantemente in crescita ha fatto sì che nascesse la necessità di sviluppare interventi protettivi nei confronti delle vittime di abuso, sia da un punto di vista psicologico sia legislativo, che tenessero ampiamente conto del danno provocato dagli episodi di abuso e maltrattamento, anche in funzione di un possibile percorso terapeutico in grado di riabilitare le funzioni psicologiche delle vittime. Per questa ragione sono stati condotti diversi studi che hanno focalizzato l’attenzione sugli effetti che l’abuso sessuale e il maltrattamento intrafamiliare producono sulle vittime, sia a breve sia a lungo termine, e su come l’aver subito tali soprusi in tenera età interagisca sullo sviluppo psico-affettivo della vittima influenzandola, una volta divenuta adulta e lei stessa genitore, sulla sua capacità di mettere in atto delle misure protettive nei confronti della prole. Inoltre, l’aumento dei procedimenti penali, che contemplano tra i capi di imputazione il maltrattamento familiare (art. 572 c.p.) e l’abuso sessuale a danno di minori (artt. 609 bis, 609 ter e 609 quater c.p.), determina sempre più il coinvolgimento dei Servizi Sociali e degli psicologi chiamati dal Tribunale per i Minorenni, per svolgere valutazioni psicosociali sull’intero nucleo familiare, con lo scopo di comprendere quali siano le competenze genitoriali del genitore non abusante, quali le misure protettive messe in atto dallo stesso a favore dei figli e ad evidenziarne le risorse e gli elementi di pregiudizio.
È in un quadro così complesso e delicato che si stabilisce la relazione tra le famiglie multiproblematiche e gli operatori dei servizi, i quali, chiamati a svolgere il loro intervento, sono gli unici, a volte, a cui è offerta la possibilità di restituire dignità, fiducia, ma soprattutto un’identità maggiormente integrata a chi per troppo tempo ha conosciuto solo deprivazione e violenza (Amodio, Donati, Rosa, 2002).
Dignità, fiducia e “identità” che invece rischiano di essere non solo restituite ma, anzi, messe a più dura prova proprio dall’intervento dei Servizi stessi.
Cercando di uscire da una prospettiva meramente lineare del trauma, appare chiaro come si possa ipotizzare che attraverso la relazione con l’altro, seppur nel ruolo di operatore sociale, le conseguenze dell’evento traumatico possono essere amplificate, attenuate, risignificate, riviste.
Conseguenze psicologiche dell’abuso sessuale e del maltrattamento dall’infanzia all’età adulta
La vittimizzazione all’interno della famiglia comporta rilevanti danni psicologici nella vittima, poiché tali esperienze traumatiche avvengono all’interno dell’ambiente che, in realtà, dovrebbe essere deputato ad assicurare protezione e sicurezza ai propri membri, requisiti necessari per lo sviluppo di un’identità personale integra (Lieberman, Van Horn, 2007). L’interruzione dei normali processi di sviluppo costituisce una delle conseguenze psicologiche maggiormente presenti nei bambini vittime di violenza intrafamiliare.
I danni psicologici dell’abuso e del maltrattamento subiti nell’infanzia possono avere gravi ripercussioni sulla vittima anche in età adulta, in particolar modo, sulla sua percezione di sé, sul suo legame di attaccamento nella relazione genitore-figlio, sulle sue competenze genitoriali, e sulla capacità di ostacolare ed interrompere la trasmissione intergenerazionale degli episodi traumatici (Pynoos, Nader, 1988; Pedrocco Biancardi, Soavi, 2009; Eth, Pynoos, 1985).
La percezione che hanno di sé gli adulti abusati dai propri genitori da bambini è strettamente correlata all’esperienza traumatica che hanno vissuto. Oltre ad avere una scarsa autostima e una bassa autoefficacia personale, i soggetti in questione precipitano in una dimensione affettiva connotata dalla paura ancestrale dell’abbandono, dalla paura di morire, dall’incertezza, dall’ambivalenza e dalla perversione, che minano due aspetti cruciali del loro sviluppo: la formazione della capacità di giudizio, e quindi l’incapacità di distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato sia per sé stessi che per gli altri, e la capacità empatica (Bosio, Cheli, 2007).
Tra le conseguenze a lungo termine del maltrattamento infantile si riscontrano condizioni psicopatologiche di tipo ansioso e depressivo, sintomi dissociativi, deficit cognitivi, alterazioni neurobiologiche, compromissione della capacità di regolazione degli stati affettivi, inefficace modulazione degli impulsi e difficoltà nella costruzione di un adeguato senso del Sé (Nicolais et al, 2009).
Anche la vergogna e il senso di colpa per essersi sentiti responsabili dell’abuso subito, come se fossero stati loro a provocare con la loro presenza il genitore abusante, rappresentano parte del bagaglio doloroso procurato dall’azione incestuosa spesso censurati da meccanismi di difesa quali la scissione, la rimozione e la negazione nel tentativo ultimo di mettersi in salvo da una realtà impossibile da tollerare.
Ma il piano individuale non è l’unico che viene compromesso. Studi empirici condotti negli ultimi anni (ibidem), hanno messo in evidenza come esperienze relazionali traumatiche siano in grado di influenzare lo stato mentale genitoriale rispetto all’attaccamento, compromettendo in questo modo il processo di regolazione affettiva diadica.
Infatti nelle donne che hanno un vissuto traumatico, la responsività materna appare fortemente compromessa, limitando la qualità degli scambi interattivi. Non solo, ma compromessa è anche la presenza nelle madri di un’adeguata conoscenza delle capacità di regolazione dei figli, derivante da una buona disponibilità emotiva nei confronti delle loro espressioni (Biringen, 2000; Emde, 1980) esponendo i bambini al rischio di esiti psicopatologici sin dai primi anni di vita (Garbarino, Gilliam, 1980) e mettendosi loro stesse nella condizione di non essere in grado di attivarsi in modo efficace per proteggere i minori da un eventuale abuso, neppure davanti a rilevanti richieste di aiuto (Cuzzola, 2007). Quindi ciò che ne deriva, è nel complesso il rischio di compromettere le proprie competenze genitoriali.
La relazione tra gli operatori dei Servizi e le famiglie multiproblematiche: relazione d’aiuto?
È proprio sulla valutazione delle competenze genitoriali che vengono sempre più sovente chiamati ad esprimersi gli operatori della Tutela nei casi di maltrattamento e abuso all’infanzia. Questo incontro tra due realtà così complesse, i Servizi da una parte e le famiglie multiproblematiche dall’altra, fa emergere la necessità di interrogarsi sul significato che assume per i genitori, che spesso hanno alle spalle, a loro volta, storie di relazioni traumatiche e stili di attaccamento disorganizzati, la presa in carico da parte dei servizi. È fondamentale, infatti, la tipologia di relazione che si viene a creare tra gli operatori e i singoli individui di nuclei familiari perché questa a volte può rappresentare per quest’ultimi l’unica possibilità di riappropriarsi di un’identità e di un senso di Sé che sia all’altezza del ruolo che ricoprono. Ma molteplici sono gli ostacoli e i pregiudizi da superare affinché tutto ciò sia possibile.
Da una parte, infatti, ci sono dei genitori che presentano numerose difficoltà individuali (malattie psichiatriche, disturbi affettivi e post-traumatici da stress, depressione, uso ed abuso di sostanze) che compromettono la loro capacità di fornire cure sicure ed efficaci ai loro bambini. Genitori che hanno anche poche aspettative e ripongono poca fiducia negli operatori come conseguenza sia del loro vissuto, carente di figure affettive che trasmettessero loro l’idea di protezione, sia per aver avuto esperienze piuttosto mediocri con le figure che rappresentano l’autorità credendo quindi di non potersi rivolgere a nessuno per ricevere sostegno o assistenza (Samerof, McDonough, Rosenblum, 2006).
Dall’altra ci sono degli operatori che nel trattare tematiche come l’abuso e il maltrattamento sono costretti ad entrare in contatto con le proprie emozioni, i propri pregiudizi, le proprie paure, ad affrontare la propria confusione emotiva e riconoscere quei meccanismi di difesa che inconsciamente vengono messi in atto per proteggersi dall’impatto che questi tipi di reati commessi su minori esercitano su chi ne viene a contatto (Acquistapace, Milani, 2005).
Ovviamente l’incontro tra queste due parti non sempre risulta facile in quanto, come spiega Imber-Black (1988) i genitori possono sentirsi intrappolati, giudicati, controllati o anche trattati duramente dagli operatori a dispetto delle reali intenzioni e allo stesso tempo gli operatori possono sentirsi fraintesi, non apprezzati e criticati sia dalle famiglie con cui lavorano che dai colleghi.
Nonostante queste difficoltà, gli operatori diventano strutturalmente parte del sistema familiare dentro cui si trovano a lavorare (Minuchin, 1974) e questo fa sì che siano chiamati ad assumere un ruolo di grande responsabilità circa la presa di consapevolezza e il conseguente cambiamento che può avvenire all’interno del sistema familiare, perché, pur non essendo chiamati a svolgere un intervento terapeutico, vero è che la percezione che di sé hanno gli utenti si modella anche in base alla “restituzione” esplicita ed implicita di loro fatta dagli operatori.
Restituzione che è proposta relazionale. Proposta, che “tradisce” le premesse degli operatori sulle persone che hanno di fronte. Premesse che influenzano l’idea (e l’identità) che gli utenti hanno di sé, come persone, donne, uomini, mogli, mariti, madri, padri.
È necessario quindi che gli operatori facciano molta attenzione alle emozioni che vengono suscitate da quella persona, in quella determinata situazione ed in quel singolo incontro. È necessario che sempre più, in un approccio riflessivo, pongano attenzione alle proprie premesse con quella necessaria irriverenza così poco conosciuta nei Servizi Sociali. Perché è proprio da queste premesse che la relazione in modo “misterioso” (Bateson) ed imprevedibile influenzerà l’identità dell’utente.
Non solo, ma è anche importante che i servizi, da una parte, facilitino la costruzione della fiducia nei genitori in figure che rappresentano l’autorità, dall’altra si attivino per comunicare loro che sono degni di aiuto e capaci di cambiare.
Se assumiamo una prospettiva sistemica e poniamo la relazione prima, l’individualità, l’identità, il senso di sé come essere unico e continuo nel tempo, dipende da momenti specifici e continui di apprendimento. Apprendimento dove all’interno di relazioni, l’individuo, in una continua dialettica tra sé e l’altro, si trasforma e processualmente evolve secondo le proprie potenzialità.
Cominciamo con l’idea di base che è quella… non c’è niente al di fuori della relazione (…) Il bambino neonato, appena nasce, subito tutti gli stanno addosso, lo salutano, fanno scene grandiose per la nascita e dicono “ci sei, ci sei” tanto che dopo un po’ gli danno un nome. E lui dice: “Io sono Andrea”. Lui non è nessuno, gli hanno detto che è Andrea, lui non c’è. È stato qualcuno che lo ha reso vivo, lo ha reso Andrea, se no non ci sarebbe. E così andiamo avanti: uno vive sempre avendo delle persone intorno che lo rendono esistente” (Cecchin, 2004).
Tutto questo è fondamentale, dal momento che l’identità degli utenti dipende anche dalla relazione che questi assumono con gli operatori (la proposta relazionale di questi ultimi dipenderà sostanzialmente da cosa pensano effettivamente degli utenti) e la responsabilità di poter effettivamente influire sulla percezione che l’altro ha di sé è decisamente alta.
Ma partendo da queste premesse, a quale compito sono chiamati, allora i servizi sociali?
“Le persone attraverso la relazione e l’attività terapeutica deutero-apprendono un nuovo modo di essere e pensare costruendo così nel tempo se stessi” (Bertrando, Defilippi, 2005, p. 31). Attraverso la relazione con gli operatori (o con il terapeuta nel caso di un percorso clinico) è sempre possibile che il paziente o l’utente possa fare esperienza di una relazione differente da quelle passate e che attraverso questa relazione possa davvero apprendere o vivere una relazione che sia “riparativa” del sé, di eventuali aspetti traumatici, del senso di capacità ed autoefficacia. Ma può darsi anche, che tale intervento possa addirittura, per analogia, mantenere se non peggiorare il vissuto che l’utente ha di sé e del proprio universo relazionale.
Troppo spesso questo aspetto relazionale viene sottovalutato. Con questo contributo vorremmo sottolineare come è nella relazione nel qui ed ora che gli “utenti” hanno la possibilità di esperire una relazione in cui, nonostante le anche gravi, difficoltà in cui versano, nonostante le, anche gravi, mancanze di cui sono “colpevoli”, vengono ascoltati innanzitutto come persone e, come tali, ascoltate.
Nel maggior numero dei casi, gli operatori si concentrano sui cosiddetti “progetti” o “percorsi” calandoli dall’alto senza tener presente cosa quest’azione significhi per l’altro e senza chiedersi se il “progetto” aiuti la famiglia o, sostituendo tout court alcuni aspetti di genitorialità, squalifichino i legittimi esercenti della stessa, rischiando così di proporre una relazione sull’assistenza cronica piuttosto che sulla partecipazione e sulla condivisione.
Senza dubbio questi sono i limiti da affrontare, affinché si possa costruire una relazione basata sull’ascolto, sull’accoglienza e sull’assenza di giudizio che permetta il costituirsi di una collaborazione sullo stesso livello tra le famiglie e gli operatori che possa produrre nel tempo cambiamenti positivi ed efficaci sia in termini di genitorialità che di individualità.
Un caso clinico
La sig.ra Silvana giunge in studio per una forte chiusura relazionale del figlio sedicenne Raffaele. Già certificato sin dalle elementari per un ritardo generalizzato dello sviluppo con compromissione della sfera cognitiva, Raffaele tende ad isolarsi sia a scuola sia a casa, dedicando il tempo libero ad attività in solitudine.
Sin dalle prime battute e per gran parte del percorso, la sig.ra Silvana descrive la propria vita e se stessa con toni sofferenti, dimessi, passivi nei confronti della vita. Stanca di questa visione di sé, vuole trovare il modo per essere “una buona madre” perché quanto fatto sino a quel momento sembra “non vada mai bene”. Durante il percorso emerge un racconto molto duro, iniziato con un padre maltrattante e violento verso la moglie ed i figli, finito poi in carcere per aver abusato sessualmente di una sorella della moglie di soli 11 anni. Di tale abuso la sig.ra S. era in qualche modo a conoscenza (“mi ricordo che si chiudevano in bagno…”). Solo l’intervento dei Servizi, su segnalazione probabilmente della stessa bambina, determinerà un collocamento comunitario per tutti i figli.
A 15 anni conosce Antonio, e, a 17 anni, Silvana decide di andarsene dalla Comunità e di sposarsi andando a vivere nella corte di proprietà della famiglia del marito.
Sembra che le cose procedano bene, i due decidono di avere un figlio e nasce Raffaele, ma quando questi ha circa 4 anni e mezzo, a seguito di alcuni comportamenti “strani” e all’interno di un percorso psicologico, inizia a raccontare che un cugino paterno, di circa 12 anni, anch’egli residente nella corte familiare, abusa di lui da circa un anno.
Parte la segnalazione della psicologa, e l’intervento dei Servizi è immediato: “È stato bruttissimo” rivela la sig.ra, “io avevo portato mio figlio dalla psicologa e avevo interrotto i rapporti con i parenti, ma loro mi urlavano che non avevo protetto mio figlio, che avrei dovuto denunciare mio nipote e che non ero una buona mamma!”.
I coniugi proseguono un percorso di coppia iniziato precedentemente e i Servizi attivano un’ ADM per Raffaele.
Dopo un paio di anni, R inizia rivelare all’educatore altri episodi di abuso. Le accuse in questo caso però vengono rivolte ad uno zio o addirittura al padre stesso.
L’educatore relaziona al servizio che segnala in Procura.
Non passano due settimane che irrompe in casa la Polizia di Stato; di mattina presto; “eravamo ancora tutti a letto”; perquisiscono casa alla ricerca di materiale pedopornografico su Raffaele e arrestano il padre.
L’evento è traumatico per tutti. La sig.ra Silvana non può crederci: “ero attenta. Non poteva essere successo, non poteva essere lui”.
Anche la psicologa dubita delle accuse di Raffaele verso il padre, ritenendo che queste siano dovute in realtà alla rabbia provata dal bambino verso una figura paterna che non era riuscita a proteggerlo.
A seguito di ciò, il padre viene allontanato, viene mantenuta l’ADM e attivata una CTU per valutare le capacità genitoriali dei due.
Il padre solo a questo punto dichiara di essere stato abusato da uno zio (lo stesso delle accuse di R e che emerge avesse abusato anche del cugino) e gli esiti della CTU sono perentori: citando varie ricerche, essendoci stati abusi sessuali in entrambe le famiglie, i genitori non sono in grado di tutelare i figli.
La psicologa di R, chiede ai servizi di occuparsene a livello psicoterapeutico e di sostenere la madre che, a suo dire e contrariamente da quanto affermato nella perizia, è riuscita, ad attivarsi per proteggere R.
Da lì sino al momento della consultazione psicologica tutto rimane invariato. L’ADM prosegue (con una nuova educatrice), Raffaele è affidato al Comune, la coppia è separata, ma non divorziata. R mantiene tutti i sintomi del trauma subito.
Le indicazioni della psicologa di prendersi cura di R per riparare gli effetti del trauma e di sostenere la sig.ra Silvana nella sua genitorialità, vengono trascurate, ma anzi viene rafforzata l’idea che la madre non sia stata in grado di proteggere suo figlio. L’ADM viene vissuta dal nucleo come un’invasione ed un controllo e mai come un sostegno.
Silvana sembra impotente e non riesce a pensare che prima di tutto è lei (e non il servizio) ad avere il diritto/dovere di intervenire direttamente sulla crescita ed educazione del figlio.
La mamma che viene in studio sembra una “madre a metà”. Non crede in se stessa né nelle sue capacità. Il presente, così come il passato, è grigio e fumoso. Ed il futuro non appare migliore.
Dopo circa un anno e mezzo di psicoterapia, Silvana ha un nuovo lavoro, una relazione stabile e gratificante e una nuova casa di proprietà, sta divorziando con il marito, sorride, appare più serena e sicura di se stessa. È riuscita a convincere R (che nel frattempo sta sorprendendo gli insegnanti a scuola per le capacità che inizia a permettersi di esprimere) a rivolgersi ad uno psicologo per una consultazione (cosa impensabile prima). I Servizi hanno deciso di proporre la chiusura del fascicolo (con conseguente affido dei minori ai genitori).
Per far ciò, Silvana ha dovuto riaffrontare il trauma dell’abuso subito dal figlio (“non riuscivo a dormire la notte, come poteva essere successo senza che me ne accorgessi?”) e delle proprie responsabilità, il trauma delle violenze del padre, e, purtroppo, anche il trauma di essere valutata inadeguata come madre.
L’intervento dei servizi viene vissuto a posteriori come il luogo dove è stata certificata l’incapacità di proteggere il figlio. Incapacità che nel tempo si è generalizzata nella convinzione di non essere una buona madre e di essere stata lasciata sola.
Durante la terapia, passo a passo, Silvana prende sempre più in mano la sua capacità genitoriale e mette in atto quanto i servizi anni prima le chiedevano di fare.
Conclusioni
Dalle ricerche è ormai noto come l’abuso sessuale intrafamiliare provochi dei danni nei soggetti di notevole intensità e durata. Ritiro sociale, deficit cognitivi, ritardi dello sviluppo, prosecuzione del trauma, incapacità di proteggere i figli, ecc. sono solo alcuni dei segni che rimangono a seguito di esperienze così intensamente traumatiche.
Compito primario dei Servizi di Tutela all’Infanzia non può essere che quello di proteggere il minore e, appena possibile, attivare tutti quegli interventi necessari alla riparazione dei danni causati dal trauma sia verso i minori sia nei confronti dei caregivers.
Come più sopra evidenziato, il processo di riparazione non può aver luogo se non attraverso la relazione con gli operatori medesimi e la presa in carico dell’intero nucleo, qualora sia possibile.
Come nel caso presentato, se gli interventi sono sovente precisi e tempestivi nella fase di protezione del minore, non sempre si può dire lo stesso della fase di cura. Di cura anche delle capacità genitoriali, di quelle mamme e di quei papà che, nonostante non siano riusciti a proteggere i propri figli, così come l’operatore (o le norme a protezione dei minori) si sarebbe aspettato, necessitano di cure da parte dei servizi per poter a loro volte prendersi cura in modo più organico dei propri figli.
Cura che non può concludersi con una serie di interventi (sociali, psicologici, educativi), ma che principalmente si concretizza attraverso una sostanziale attenzione della relazione tra il singolo operatore e l’utente. Relazioni giudicanti o implicitamente squalificanti, portano a far rivivere alle persone proprio quegli aspetti traumatici che li hanno portati ad essere in un Servizio di Tutela all’Infanzia. Relazioni accudenti, anche nella crudezza del dover affrontare ed esplicitare argomenti tanto duri, portano a possibili riparazioni ed evoluzioni positive.
A fronte di una visione relazionale, che dà al singolo operatore queste grandi possibilità di intervento nella relazione con l’utente, la responsabilità etica e professionale di questi diviene enorme.
Prendersi cura della relazione con l’altro, diviene così uno degli strumenti principali in possesso all’operatore. Si suggerisce quindi di passare da una posizione dove “si fanno degli interventi” sulla famiglia, ad una dove la cura della relazione passa anche dal tentativo di accompagnare l’altro a comprendere il senso e le ragioni dei nostri interventi, anche nei casi dove questi sono tanto perturbativi degli equilibri familiari. Si propone di passare da una visione “meccanicistica” dell’altro (dove ho il potere di fare degli interventi sull’altro con l’idea di poter controllare unidirezionalmente la relazione), ad una di accompagnamento/condivisione di significato, in una visione umanizzata sia dell’utente che dell’operatore medesimo. Sarà dell’utente la responsabilità di seguirci o meno in questa nuova modalità relazionale, ma rimarrà all’operatore la responsabilità di provarci.
Si ritiene quindi che l’atto di mantenere una costante attenzione e cura alla relazione con l’utente, sia uno dei pilastri fondamentali che un Servizio di Tutela all’Infanzia debba assumere come prassi e principio etico prima ancora che lavorativo.
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