Sintomi, pattern e prescrizioni: dagli interventi strategici alle pratiche di rispetto

Sintomi, pattern e prescrizioni: dagli interventi strategici alle pratiche di rispetto

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di Gianluca Ganda

La storia della sistemica milanese si avvicina al mezzo secolo. Dai primi anni Settanta si sono succedute influenze e perturbazioni provenienti da più parti, con una prima svolta dalla psicoanalisi alla Pragmatica della comunicazione (1967), una seconda più sostanziale verso il pensiero di Bateson per poi incrociare il pensiero di altri epistemologi quali von Foerster, Maturana e Varela; infine vari filosofi hanno arricchito quello che si può sempre più definire un metamodello dall’identità chiara. Come accade nella storia della scienza e del pensiero, il Milan Approach è stato influenzato e influenzante: non sarebbe onesto definirlo progenitore, meglio stimolo, suggestione o coautore, delle trasformazioni della terapia sistemica e familiare verso l’uso dell’emotività, del reflecting team, degli interventi dialogici e delle visioni narrative.

Il “Milan Approach” si differenzia da altri approcci grazie alla coesione – risultanza di interazioni e dibattiti – mostrata dal pensiero di Boscolo e Cecchin negli anni, tale da renderlo un insieme di azioni e sguardi particolari. L’eredità di Gianfranco e Luigi si presenta come un ricco complesso di pratiche, elastiche quanto fertili, ancora aperte all’evoluzione. Si pone quindi come un modello centrale nel movimento sistemico e della terapia familiare. Sicuramente potremmo identificare nelle basi del DNA sistemico elementi quali il contesto, la relazione, l’epistemologia – le premesse e la loro declinazione, da cui deriva la ricorsività – oltre alla molteplicità narrativa, il pluriverso di storie possibili. Concetti che trovano nel lavoro di Bateson, von Foerster, Maturana e Varela un riferimento primario e vedono viaLeopardiquale uno – se non il più deciso – dei luoghi in cui sono stati applicati in psicoterapia. Questo codice genetico, le premesse del lavoro sistemico, è base del lavoro di Boscolo e Cecchin, in piena linea con il pensiero della complessità che prende dalle premesse la propria direzione (Bocchi, Ceruti, 1985, Ceruti, 2018).

Le loro terapie erano fatte di domande e ascolto e nessuna interpretazione. Pochi i commenti e le riletture dei vissuti dei singoli, seppure negli scambi, nel campo della terapia, comparisse l’emotività: non veniva approfondita, descritta, ma riconosciuta e accolta. Emergevano i vissuti e i pregiudizi, cioè le premesse cui un sistema si richiamava per rivendicare la propria identità e quindi il senso di originalità, di particolarità, di famiglia. Il dialogo prima costruiva i contesti in cui particolari relazioni trovavano esistenza per decostruirli poi e ricrearli con altre parole, dava accenti diversi ai racconti dei singoli, in un gioco di chiaroscuro che metteva in luce altri contesti, altre forme relazionali possibili.

La struttura che connette è un’ipotesi

Accade oggi come già avveniva ieri, in una continuità all’insegna dell’attenzione a relazioni e contesti. I colloqui vanno alla ricerca delle modalità con cui le persone si mettono insieme, mantengono un legame o uno spazio di interazione e conservano la coesione del sistema. Il terapeuta incontra i modi originali e personali con cui ogni membro si approccia all’esistenza e abita il proprio mondo, ognuno con i propri pregiudizi ed emotività: sono queste premesse le epistemologie di cui parliamo. Sono il modo in cui ognuno si abitua a dare senso alle situazioni e rispondervi, a conoscere e operare nella vita, secondo un modello personale di costruzione e ricostruzione costante dell’universo personale in cui si muove. Epistemologie che ognuno confronta con quelle di chi gli sta intorno. Non sempre questo processo avviene in maniera chiara, il discorso di una famiglia o di una coppia non è una discussione filosofica, asettica o fatta di pensiero, di idee e cognizioni, sebbene si dibatta sui metodi o sulle premesse con cui si affronta la vita. È un confronto che coinvolge emotività e azione, scelte intrise di pathos, di gioia e dolore, di mosse, comportamenti ed eventi. Scenari drammatici, sature di sofferenza, si incrociano con trame dense e panorami bloccati, in cui la ripetizione di strade tortuose è più fatica che dolore perché i cammini complicati tengono lontani dai percorsi più proficui.

Lo sguardo sistemico cerca di far luce sulle dinamiche di confronto tra le idee, le premesse, spesso implicite e non dichiarate, le emozioni e le azioni di un sistema. Il risultato di questo processo è una negoziazione implicita su più livelli che chiamiamo “pattern che connette”, proprietà emergente dell’interazione. Guardiamo a questi elementi per costruire un’ipotesi sulla rete di relazioni interne al sistema e sul modo in cui esso e i suoi membri si interfacciano con l’esterno: cerchiamo di individuare la struttura del sistema e le funzioni che in esso vengono svolte dai suoi membri.

Digressioni teoriche sulla struttura

Bateson, con Mente e Natura (1984), ci regala una grande ricerca sul “pattern che connette”, la struttura presente nel mondo del vivente. La riflessione sulla sacra unità del mondo della “Creatura” è uno sguardo sul mondo della Mente, l’ecologia dove le idee e le differenze tra esse stanno in “una relazione metaforica con la vita”, (Bateson, Bateson, 1989, 294, Ingrosso, 2007,138) non originando qualcosa a cui credere, come una religione, bensì una struttura di idee con l’effetto pragmatico di disporre all’azione. Dalla memoria riemerge una domanda: “Quale struttura connette il granchio con l’aragosta, l’orchidea con la primula e tutti e quattro con me?” (Bateson, 1984, 21). Per Bateson la struttura è l’insieme delle “caratteristiche di un sistema che definiscono le sue risposte agli eventi ambientali, e regolano i suoi equilibri interni. Corrispondono alle soglie e ai limiti del funzionamento, così come in un disegno i contorni definiscono i solidi raffigurati.” (Bateson, Bateson, 1989, 318). Proprietà peculiari di un sistema che creano un dominio di possibilità: nella stanza di terapia si traduce con l’insieme dei discorsi che affermano “la nostra famiglia funziona così”. Di struttura ci parlano anche Maturana e Varela (1987), identificandola come “l’insieme dei componenti e dei rapporti che, concretamente, costituiscono una unità particolarenella realizzazione della sua organizzazione” (corsivo mio, ibidem, 62). Il corsivo è necessario: per gli studiosi cileni il concetto di struttura va guardato in rapporto a quello di organizzazione: questa è “l’insieme dei rapporti che devono esistere fra i componenti di un qualcosa perché questo possa essere considerato come appartenente ad una classe particolare” (corsivo mio, ibidem, 62).

Il sistema che incontriamo è quindi unico nel suo genere, mantiene delle caratteristiche proprie e si definisce autonomamente come “famiglia” o “coppia”, pur assumendo una forma diversa da altri sistemi che si definiscono allo stesso modo. Per parafrasare l’incipit di Anna Karenina potremmo dire che tutte le famiglie si somigliano per alcune caratteristiche ma ogni famiglia è fatta a modo suo, felice o infelice che sia.

La struttura che imprigiona: dalle premesse al dialogo

Tra le premesse sistemiche c’è la ricerca delle ricorsività e la ricerca di una struttura, il pattern che connette è il punto di arrivo di questa indagine. Tra le premesse dei terapeuti relazionali è annoverata la tendenza a vedere la coppia o la famiglia come una unità, un sistema che prende senso nella sua interezza, con la struttura che risalta maggiormente rispetto alle possibilità dei singoli elementi. Ogni famiglia mantiene la propria identità e si differenzia dalle altre per la particolare struttura che assume. Come ogni sistema umano è una organizzazione particolare e si sente di esistere fintanto che sono rispettate delle proprietà da essa stessa stabilite, identitarie, che le permettono di distinguersi da altri sistemi umani.

Quando guardiamo a queste regole, formatesi nel lungo tempo delle interazioni, ricerchiamo il pattern al fine di comprendere e riflettere su quale sia l’essenza e la logica del gruppo, per quanto talvolta illogica a un osservatore esterno. La accettiamo con curiosità, attribuendole uno statuto di normalità, secondo l’etica del rispetto dell’originalità. Il terapeuta cerca di narrare questo pattern attraverso la descrizione delle ricorsività che coglie nelle interazioni, insegue nel discorso col sistema un consenso sulla narrazione che emerge. Produce così una ipotesi descrittiva. In quanto tale non va sposata, è importante che sia tenuta aperta, passibile di modifiche prodotte sia dal sistema sia da noi, per diventare sempre più un abito su misura, tanto più efficace quanto in grado di unire in sé tutti i membri del gruppo e i molteplici livelli con cui fanno esperienza della vita.

Il terapeuta di secondo ordine fa un esercizio di irriverenza e riduce la propria presunzione di verità ricordandosi che conosce solo attraverso se stesso, con la propria sensibilità. Sa quindi che la struttura descritta al sistema non è altro che una narrazione.

“La tendenza a immaginare un universo dualistico – [la struttura e l’universo in cui è immanente] – viene facilmente corretta ricordando che spesso siamo soltanto noi a creare la nozione di struttura quando costruiamo descrizioni sintetiche a partire dai dati che ci raggiungono attraverso il filtro degli organi di senso. In questi casi non è troppo difficile ricordare che la struttura che proiettiamo sul mondo ‘esterno’ è solo un derivato delle nostre percezioni e del nostro pensiero” (Bateson, 1989, 242).

Il terapeuta è un essere che si pone in relazione ad altri esseri, all’interno del dominio del sentire, per quanto ognuno di noi possa sperimentare sensazioni e vissuti, possa fantasticare in merito alle vicende degli altri e permettersi di esprimere ciò che sorge nella propria intimità. Il terapeuta potrebbe vedere una struttura che non esiste, una sua creazione. Il pattern di cui si parla è la narrazione prodotta – talvolta immaginata – dal terapeuta sulla base di ciò che egli vive nell’interazione con altri esseri. Con un sentire più simile a quello di uno spettatore di una rappresentazione teatrale che alla conoscenza di un tecnico.

È necessario, per stare nella sacra unità della Mente, che la narrazione del pattern sia proposta come una bozza su cui il sistema terapeutico si prende l’impegno e la gioia di lavorare, per modificarlo e farlo evolvere. Un pattern che, oltre a coinvolgere i componenti della famiglia, sia in grado di incontrarli nei loro vissuti e nella loro intima esperienza ha la possibilità di renderli presenti nel dialogo della terapia e favorisce la ricontrattazione di ruoli e posizioni. Ciò comporta riconoscere a ognuno – in un ambito costruttivista – le proprie lenti e sistemi di significazione arricchendoli della logica del rispetto (Canova, 2005), rispetto dell’originalità dell’altro – la forma assunta dal sistema – come rispetto dei diversi-sentire, ognuno con la sua ricchezza. Il terapeuta crea un campo in cui possano trovare spazio gli schemi di ognuno e i vissuti di cui sono intrisi; promuove così una dinamica di confronto in grado di generare uno scambio con la creazione di accordi e disarmonie – per un processo sociocostruzionista, di costruzione nel dialogo – che si traducono in nuove forme di relazioni e nuovi schemi di interpretazione del mondo: un cambiamento dei costrutti dei membri del sistema. Troviamo qui una coincidentia oppositorumtra costruttivismo e costruzionismo, tra processo interno e sociale: le lenti dell’individuo danno forma al suo mondo e costruiscono le idee sullo stato mentale di chi interagisce con lui/lei; solo quando queste rappresentazioni sono discusse si genera un nuovo spazio relazionale. Sintesi di opposti che porta un accrescimento, un valore aggiunto. Discussioni possibili quando terapeuta e sistema lavorano insieme, riconoscendosi reciprocamente, creando un campo relazionale di rispetto, che può contenere il sentire – come la tenerezza del materno (Barbetta, 2014) – e l’eccentricità perturbante e dolorosa (Cecchin, Lane, Ray, 2005). È un campo, in cui gli opposti possono coesistere, la cui proprietà emergente è che ognuno diventa portatore di valore.

Struttura e positioning: i sintomi come proprietà emergenti

Guardare alla struttura comporta mettere a fuoco la forma assunta dal sistema, per comprendere dove si posizionano i suoi membri e quale ruolo si trovino a giocare in esso. Che funzione svolge nel gruppo la persona? Quali comportamenti e azioni le permettono di incarnarla? Il ruolo di ogni membro è frutto del processo di interazione e dialogo continuo cui ognuno contribuisce, co-costruendo il contesto e le identità, poiché chiunque accetta, rifiuta o quantomeno retroagisce sul comportamento altrui. È però importante notare che non tutti hanno la stessa forza nel limitare gli altri o nell’affermare se stessi, per questo è importante comprendere come e dove le interazioni posizionino i membri del sistema (Harré, Van Langenhove, 1999, Harré, 2012).

Ogni membro ha un proprio ruolo, le interazioni glielo assegnano: proprietà emergente dall’autorganizzazione, è la parte che la persona si trova a interpretare per far andare avanti il copione familiare, una parte che può essere scomoda e generatrice di disagio. Vediamo cosa si trova a fare il singolo a partire dalla struttura in cui è inserito. Non è possibile la sua contrattazione, così si genera il sintomo. La struttura è proprietà emergente, per definizione non è “il massimo che il sistema può fare” né “tutto ciò che può fare” ma ciò che in quel contesto, in quello spazio e in quel tempo è permesso o si manifesta. Questo processo arriva a connotare il comportamento dei singoli come sintomatico. L’individuo non ha un pieno controllo dei comportamenti che gli sono permessi, ammessi dal contesto e dal pattern del sistema; il sintomo è espressione della struttura e del sistema, una persona si trova a incarnarlo, a esprimerlo senza volerlo. Sintomi non come espressione di malattia, bensì di disagio, proprietà emergenti contrattate con e nell’interazione, vantaggiose per qualcuno, non per tutti.

Il positioninginveste sia i clienti sia il terapeuta: anch’egli è posto in una posizione particolare dal sistema. I suoi membri non hanno la chiarezza di agire e manifestare un sintomo per effetto dell’interazione. Chiedono risposte e azioni alla terapia, il terapeuta ha la responsabilità di essere conscio della posizione in cui è posto dal sistema. Difensore dei diritti delle donne, dei mariti, dei figli, esperto, dispensatore di affetto, moralizzatore: questi sono solo alcuni dei ruoli che i clienti chiedono abitualmente al terapeuta di interpretare. Il terapeuta ha la responsabilità di comprendere ciò che la famiglia desidera, e per fare emergere l’epistemologia e la struttura che lo connette al sistema dovrà essere non esperto e curioso. Due atteggiamenti terapeutici ascrivibili sia a Boscolo sia a Cecchin, sottintendono un processo di ricerca con il sistema volto a decostruire il motivo per cui il terapeuta è arruolato e permettergli così di ritornare in una posizione di libertà, priva delle oppressioni di una struttura rigida e vincolante, di un discorso dove si può dire solo ciò che altri hanno stabilito.

Pattern drammatici e tragedie evolutive

Nell’ipotesi narrativa del pattern i sintomi possono allora essere proposti come comunicazioni, informazioni che il singolo dà al sistema: espressioni attraverso cui il singolo reclama una co-costruzione diversa, la possibilità di avere una posizione nuova. Li intendo come messaggi di contestazione, critica, dissenso, disturbo, polemica, protesta, ribellione, sabotaggio, sottomissione, piuttosto che di accettazione, asservimento, alleanza, ubbidienza.

Processo che rimanda a The tree of life, film di Malick (2011) che ci racconta il disagio relazionale di una famiglia americana che si trascina nelle generazioni. Giocato sulla dinamica tra la grazia accogliente e natura prorompente, mette in luce quanto la rigidità del sistema schiacci queste diverse caratteristiche, fino a farle diventare opposti conflittuali. Troviamo invece una coincidentia oppositorumfruttuosa e fonte di armonia nell’opera di Nietzsche sulla tragedia. Perché in terapia incontriamo spesso tragedie: eventi traumatici e drammatici che segnano la vita delle persone ma permettono loro di rialzarsi come situazioni che si strascicano immobili nel tempo bloccato della ripetizione, melodrammi monotoni che si negano vie d’uscita.

L’ipotesi nietzschiana vuole che la tragedia nasca dall’incrocio fruttuoso di due spinte, differenti e complementari. L’apollineo, forma esteriore dai volumi ben distribuiti, armonia che è rigidità statica, come nella scultura, si incontra col dionisiaco, la perturbazione dell’eccesso, potenza della vita che erompe e porta al movimento creativo della danza. Due opposti che ritroviamo nei sistemi, dove qualcuno sta fuori dagli schemi, la struttura, e altri ve lo vogliono ricondurre, costringere. Apollo e Dioniso simboli di grazia e impeto, forza che definisce l’individuo nel suo apparire e potenza incontenibile e selvaggia della natura. Il terapeuta, per fare uscire la famiglia dal dramma in cui si trova cerca di ridare mobilità al copione del sistema e fare uscire dalle posizioni scomode chi è portatore dei sintomi. Cerca di ridare armonia e mobilità al copione, dare a una struttura perfetta e bloccata la mobilità e imprevedibilità della musica e del movimento.

Il sintomo in movimento

Osserviamo come agisce il singolo sotto l’influenza della struttura, l’apollineo. Confrontiamo poi il suo comportamento con quello degli altri membri del sistema, per cogliere se qualcuno gode di una posizione privilegiata nella dinamica relazionale e può stabilire il dominio del discorso, cosa sia ammesso e cosa escluso dal sistema.

La prassi di lavoro di Boscolo e Cecchin aveva diversità di stile e molte similarità di obiettivo, tra cui la tendenza a liberare dalle alienazioni. Per riorientare singolo e sistema hanno complessificato le narrazioni con cui giungevano, si sono inventati moltitudini di significati alternativi. Riconosco in loro l’ottimismo di chi sa di poter trovare la sana normalità intrinseca della persona, arrivando poi a dire che sano e malato sono qualità che dipendono dall’osservatore. Entrambi hanno sempre avuto l’intenzione di ridurre le descrizioni patologizzanti, coniugandola con la ricerca delle risorse sottostanti l’apparenza: come se in una foto si potessero cogliere i movimenti che hanno preceduto l’istante dello scatto, le relazioni tra i chiari e gli scuri, tra i pieni e i vuoti discutendo su quanto questi influenzano il risultato, l’immagine che appare, rispetto a come potrebbe essere un’altra, con altri colori e differenti luci. Il comportamento del singolo ha un significato particolare per il sistema e il terapeuta si propone di aumentare le descrizioni e i messaggi che veicola, permettendo così che si modifichi il comportamento del singolo e il contesto che è una proprietà emergente dell’interazione e, come tale, ha una propria origine condizionata, spaziale e temporale. Di essa noi vediamo una manifestazione, sapendo che ce ne possono essere molte altre, e ciò che appare è legato al contesto e alla rete di relazioni. “Fare una diagnosi e dire che il sistema è così, vuol dire fare una fotografia e quindi co-creare, congelare, stabilizzare un sistema, una determinata organizzazione, senza tenere conto che essa è solo una delle tante possibili” (Boscolo, Cecchin, 1988).

Il sintomo è espressione del sistema, un solo membro può prendersi la responsabilità di incarnarlo, sebbene spesso non sembri aver scelto di agirlo, di comportarsi fino in fondo così, di mostrare il disagio che dichiara al mondo. Nell’economia del sistema svolge una funzione, ha un compito che permette agli altri membri di mantenere una propria apparente efficacia. In alcune situazioni, come nella seguente, questa dinamica assume una qualità paradossale e tragica a un tempo.

Michela, 32 anni, manifesta il proprio disagio con ansia e preoccupazioni, risvegli notturni, stanchezza nel progettare la propria vita, sembra si rifiuti di vivere la propria età. Porta una sintomatologia vicina alla depressione e alle crisi di ansia. La storia del suo ultimo anno è a dir poco tragica. Quindici mesi prima, dopo aver subito un trattamento di mobbing(le disparità di usufruire del diritto di influire sul sistema) decide di licenziarsi, sua unica possibilità. Tre mesi dopo, non appena aveva trovato un nuovo impiego, il Tribunale manda una ingiunzione di pignoramento per la casa dove vive con i genitori e un fratello, più giovane di lei di 8 anni, a causa dei debiti della ditta del padre, un artigiano. Si accolla un mutuo, segue la contabilità del padre e si preoccupa nuovamente perché il suo lavoro non porta che perdite. La madre inizia a lavorare, il fratello continua a fare l’università. Lei sembra fondamentale alla famiglia ma anche la schiava del nucleo. Vive una situazione di profonda mancanza di rispetto, perché il sistema la schiaccia, non le riconosce possibilità, le assegna rigidamente il ruolo del “breadwinner”, del buon padre di famiglia, senza che possa avere un appagamento dai propri sforzi. La narrazione del pattern vuole sottolineare quanto la rigidità della struttura sia fonte di una profonda mancanza di rispetto verso Michela. Può così confrontare questa descrizione con quella precedente, da lei accettata per molto tempo, che sembrava essere: “io sono l’unico sostegno della famiglia”. Da questa differenza nasce lo spazio del disagio: il nostro compito è trasformarlo in desiderio. Sembra fare capolino la voglia di sentirsi adulta: vorrebbe una relazione, fantastica di staccarsi dal nido, ma si sente dire che è egoista perché non vede il momento difficile della famiglia. Lei decide di prendersi degli spazi senza dire a nessuno cosa fa.

Il disagio del miglior mondo possibile

Spesso gli individui e i sistemi arrivano a trovare come unica modalità possibile quella che risulta poi per alcuni versi disfunzionale. Un sistema può essere composto dai più svariati tipi umani, basta che trovino un senso nello stare insieme, un’idea che giustifichi l’esistenza di quel gruppo e la necessità di appartenervi. Riprendendo Leibniz affermiamo che questa famiglia vive nel miglior mondo possibile; il malessere di Michela manifesta però lo squilibrio del sistema e il suo rigido positioning. Sembra necessaria un’azione liberante, volta a ridurre il senso di oppressione patito da questa giovane donna, un intervento di rispetto. Quando la struttura del sistema pone qualcuno in una posizione rigida e ne impedisce il cambiamento – spesso da vedersi come una occasione di evoluzione – si crea un deficit di rispetto: il sistema smette di accorgersi di uno dei suoi membri e rinuncia a coglierne lo spessore, la ricchezza del suo essere. Chi vive la carenza di rispetto si trova in una posizione svantaggiosa, vissuta con effetti tanto negativi da limitare la percezione delle proprie risorse e delle possibilità di rispondere agli eventi. La mia cliente è portatrice di una vita bloccata, in un sistema bloccato, in opposizione a una vita che prospera e si sviluppa: è una situazione che fa emergere segnali di disagio, comportamenti ritenuti sintomatici.

La prescrizione del sintomo

Il Milan Approach si mostra tuttora dinamico e in evoluzione. Adatta al contesto culturale odierno strumenti e processi sviluppatisi più di trenta anni fa. Il modello come una Creatura: il patrimonio genetico si riconfigura, le basi del DNA sistemico rimangono le stesse, i cromosomi si modificano, si adattano, prendendo forme differenti per rimanere adeguati al nuovo ambiente. La prescrizione del sintomo, un intervento tipico dei primi anni 70, pare essere entrata in questo processo di contestualizzazione temporale e mostra di aver trovato un nuovo spazio di azione nel processo della terapia. Ritenuta una modalità di intervento tipica del Milan Approach dell’era stategico-paradossale, può essere riletta in termini costruttivisti e costruzionisti. Spingendosi più in là, si presta per la propria plasticità a uniformarsi alle esigenze più dialogiche e collaborative della terapia. Si mostra utile per favorire l’autosservazione e la riflessività del sistema e del singolo.

La prescrizione del sintomo, insieme ai rituali e altre prescrizioni paradossali, è imparentata con la lezione di Milton Erickson, riadattata al gruppo familiare (Selvini Palazzoli et al, 1975). Il terapeuta, con un paradosso, affronta il comportamento-sintomoper porre il sistema fuori dalla trance in cui si è infilato.La prescrizione si propone di sfidare le premesse della famiglia e rompere gli schemi (pattern) di riferimento. Un processo che, se condotto secondo la prassi strategica, ha dei limiti: avviene senza comprendere a cosa servono e che significato assumono; si realizza dall’alto, quasi magicamente, in maniera direttiva. Non è favorita così la creatività delle persone, anzi è ostacolata se, come facciamo oggi, leggiamo il sintomo come un’invenzione, una mossa per restare in equilibrio, all’interno del solco segnato dal sistema e non “delirare”.

Pietro Barbetta (2003) suggerisce che Boscolo e Cecchin abbiano maturato un cambiamento di premesse alla fine degli anni 70. Entrambi erano interessati alla ricerca di modalità cliniche più inclusive e meno strategiche, più rispettose della storia, della ricchezza e della eccezionalità di ogni esistenza (vedi anche Giuliani, 2018). Un salto di paradigma che si trova nell’invito di Bateson a “esaminare le basi e la natura del sistema” (Bateson, 1976, 439] piuttosto che fare come “il medico che si concentra sui sintomi [e] rischia di proteggere o incoraggiare la patologia di cui i sintomi fanno parte” (Bateson,1976, 441).

La prescrizione di oggi parte da una posizione diversa del terapeuta, più improntata ad assumere un atteggiamento di accoglienza, ospitalità e accettazione benevola. Con queste disposizioni dilata il tempo (Boscolo et al., 1993) e fornisce alla famiglia uno spazio protetto di indagine di sé: adesso la comunicazione non è più “non cambiate” ma “conoscetevi, indagatevi”. Lo scopo: sostenere il sistema nella sua osservazione e, se gli riesce, consapevolizzazione. Il sistema che acquisisce nuove visioni e maggior chiarezza di sé può individuare le alternative all’agire sintomatico che ora può risultare sconveniente e scomodo. La ripetizione del comportamento è occasione di indagine, alla persona è richiesto di osservarsi mentre agisce – come si sente, come si vive, quanto mette in atto i suoi comportamenti – e osservare il sistema che risponde al suo comportamento – cosa fanno gli altri, accolgono o rifiutano di più, di meno.

“Agire per aumentare la possibilità di scelta” – principio di etica vonfosteriana – implica permettere al cliente di muoversi liberamente garantendogli quell’ampiezza di campo di azione che conferisce la facoltà di scegliere. Possibilità, alternative di azioni e di scelta come spazio, un più ampio dominio del possibile.

Un incidente sul lavoro spinge Edoardo a chiamarmi: ha 29 anni, ha studiato come designer ma l’unico lavoro che ha trovato è in un laboratorio di falegnameria. Oltre a realizzare e istallare mobili avrebbe dovuto disegnarli ma non ha mai questa opportunità. Ora si è tagliato un dito e sembra che non gli verrà riconosciuto neppure un indennizzo. Vuole fare un master ma dovrebbe smettere di lavorare. Il suo malcontento è forte, ne risente pure la relazione con Nicoletta, la sua compagna. Edoardo si lamenta della propria condizione, non si sente realizzato, diventa passivo, fatica a manifestare le proprie emozioni, si sente bloccato. Le sue recriminazioni rendono Nicoletta distante.

Gli offro una prescrizione: “Ora non puoi fare da solo, consentiti di chiedere un sostegno economico, a Nicoletta, ai tuoi genitori, spiegando loro a cosa punti” Lo scopo sarà osservarsi, dovrà rilevare come è andata e come si è sentito. È più facile con la compagna, meno con i familiari: emerge quanto sia più difficile parlare con loro dei sui progetti. Approfondiamo questo tema, riesce a spiegarsi meglio e ottiene il sostegno dei suoi genitori. Inizia il master di design e ben presto trova un lavoro, sebbene si stia ancora facendo sostenere dai genitori: vive ancora il suo malessere, ritiene di non valere molto, di non essere riconosciuto nelle sue capacità. Vuole abbandonare il master, gli sembra di sfruttare genitori e fidanzata. L’osservazione di sé ora gli permette di dare forma al suo disagio: non si limita a cercare una soddisfazione personale, vuole una risposta positiva dal proprio pubblico, con cui ha un debito antico. La sua storia evidenzia quanto temesse di venire giudicato negativamente e quindi allontanato dal padre. Ora teme di non ripagare nessuno.

Le prescrizioni portano a presentificare le tragiche dinamiche del passato. È necessario vederle per lasciarle andare e permettersi di modificarle. Qui la prescrizione del sintomo incontra la coazione a ripetere e la pone sul teatro dell’azione al fine di rendere visibile a tutto il sistema ciò che si cela dietro l’etichetta di sintomo: da espressione negativa di malattia, elemento da togliere, la lettura complessa lo rende un comportamento, comunicazione. La prescrizione diventa una strada per conoscere meglio questi sistemi di significato e un messaggio positivo verso di essi, di accettazione, di non-giudizio. Ogni sistema si assesta sulla migliore condizione possibile, se vogliamo produrre un cambiamento dobbiamo partire dall’accettazione di tale stato: permettere al disagio di esserci e creare le condizioni della evoluzione, prima l’adattamento, poi il cambiamento.

La reiterazione del sintomo o la posposizione del suo cambiamento permettono di abbracciare il disagio, osservarlo e conoscerlo. Il terapeuta ha la responsabilità di creare uno spazio di interazione relazionale accogliente e sicuro, rispettoso di ognuno: né tenero né duro, né pietistico né svalutante. Compassionevole, di accoglienza della sofferenza, senza che si sostituisca alle persone o ne diriga le scelte. Il terapeuta si offre insomma come un sostegno per i clienti e permette che si crei un tempo e spazio di riflessione del sistema su di sé. Introducendo il tempo e l’invito a circumnavigare le interazioni, la prescrizione agisce affinché il numero delle possibilità cresca. La visione si unisce all’azione – se vuoi vedere, impara ad agire – crea consapevolezza, connota cioè le azioni di quel carattere etico che rendono ogni persona protagonista della propria esistenza. Ci sono più possibilità, il sintomo è una di queste: invece di giudicarlo lo pone in una cornice etica, in cui ognuno si può chiedere se sia il comportamento più efficace e prendersi la responsabilità di attuarlo.

Gentili e non esperti: per una terapia di rispetto

Nel dispiegarsi di tempo e spazio avvengono le interazioni che generano, in maniera codipendente dalle variabili nel campo, i pattern. Attraverso tempo e spazio emergono le strutture che sclerotizzano posizioni, funzioni e copioni, consolidano abitudini e schemi. Ricostruire e osservare questi processi permette di cogliere quanto le risultanze siano illusionismi, mentre è terapeutico uscire dalla “trance” per rendersi poi, se c’è la possibilità, consapevoli di cosa ci fanno vedere i filtri della nostra mente. Incontri terapeutici come spazio di azione, di sperimentazione, come tempo per osservarsi e sospendere le narrazioni definitive, oltre che luogo dove essere presenti ai propri stati emotivi e ai propri schemi, con il terapeuta che si lascia toccare dai vissuti nel proprio essere, disponibile a sentire piuttosto che codificare con gli schemi mentali.

La gentilezza sostiene chi assume la posizione di non esperto, con la chiarezza di non sapere abbastanza degli altri e della loro sofferenza: gentilezza che permette al cliente di affacciarsi e osservare con i propri tempi e modi la sofferenza. Il terapeuta gentile fa molto di più che dedicare tempo e spazio al sistema: offre la propria presenza per ospitarlo. Accogliere la vita dei clienti, ciò che raccontano e ciò che comunicano, senza dirlo. L’assenza di condizioni per occuparsi di una persona crea la condizione per farla sentire riconosciuta in quanto essere che esiste. Gentilezza e rispetto originano apertura e accoglienza. Il terapeuta amplifica la propria presenza nella relazione, come accettazione e inclusione, basi del cambiamento etico, che rispetta l’altro.

Al terapeuta gentile è richiesta la competenza tecnica e umana. Incontra il sistema da una prospettiva di non conoscenza, con lo scopo di stimolare in esso qualche nuova forma di conoscenza, diretta a farlo fiorire. Possibilità di nuovi sguardi dove tempo e spazio da intuizioni pure divengono dimensioni plastiche: filtri di conoscenza che agiscono in un universo più ampio, più complesso, spingendo sia il terapeuta sia i clienti a comprendere, come dice Moltoni (2018, 124), che “noi non siamo le nostre densità e i nostri stati emotivi transitori ma siamo la Presenza che osserva, vasta e spaziosa. Ed è davvero toccante e liberatorio scoprirlo!”

Luigi Boscolo è un esperto – di tecnica, di vissuti e di storie di vita – che si pone da non esperto delle scelte degli altri, tutte egualmente plausibili e sostenibili. Ricerca l’armonia tra i tempi interni del singolo e del sistema, e di questi con l’ampio contesto sociale di vita.

Inseguire una nuova armonia tra i rapporti, una struttura che non schiaccia e opprime, bensì sostiene e incoraggia alla vita: il terapeuta di Cecchin vuole liberare, con un metodo terapeutico non oppressivo, che rende l’Altro capace, valorizzandolo.

La complessità del rispetto è tutto questo e sfocia nella costruzione di occasioni che eliminano la sopraffazione e la prevaricazione nelle relazioni, con la possibilità di rompere le forme e i sistemi più rigidi.

Dall’alto della sua competenza Luigi Boscolo ci ha mostrato lo stile del terapeuta gentile, che “non sa”, non si nasconde dietro il proprio sapere, ma favorisce un incontro democratico e di liberazione attraverso la sintonizzazione sull’Altro: “Un contesto terapeutico in cui siano massimi l’ascolto, l’empatia e il rispetto” (Boscolo, Bertrando, 1996, 84). La capacità di avvicinarsi ai clienti per farli sentire visti e considerati permetteva a Gianfranco Cecchin di incarnare l’atteggiamento di “non sapere” con dialoghi non oppressivi e di rispetto. Il terapeuta gentile è chiamato a essere molto competente, agisce al servizio di chi porta in sé malessere, entra in questo mondo senza farsene intrappolare. Piuttosto che curare il sistema togliendogli una presunta malattia si cura di esso, lo invita a descriversi per guardarsi. Mette così il cliente nella condizione di osservarsi e contemplare con uguale gentilezza la sua vita, ciclo discontinuo di gioia e inquietudine, frutto dell’impossibilità di vivere una soddisfazione costante in un mondo imperfetto ma da accettare così com’è. That’s life!La condizione umana ha una propria peculiare dimensione tragica, in cui coesistono gioie e dolori, nell’inestricabile turbamento e disagio insiti nell’esistenza.

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