Ricordando il passato, immaginando il futuro: l’interazione come cardine della prassi terapeutica

Ricordando il passato, immaginando il futuro: l’interazione come cardine della prassi terapeutica

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di Umberta Telfener

Umberta Telfener, psicologa sistemica, è didatta della Scuola di Milano in cui svolge il ruolo di responsabile dei rapporti coll’estero e vice presidente dell’EFTA-Tic (la sezione dell’Efta che si occupa dei training e delle scuole di formazione) e insegna alla Scuola di specializzazione in Psicologia della salute dell’Università di Roma La Sapienza.

Sono molto onorata di aprire una serie di articoli clinici dei didatti della scuola di Milano che speriamo permettano di fare il punto sulla nostra scuola, sui percorsi che ciascuno di noi ha intrapreso. Siamo partiti da una matrice comune molto forte sia cognitivamente che emozionalmente, quella che ci è stata data da Gianfranco Cecchin e Luigi Boscolo, i nostri maestri. Sarebbe anacronistico pensare che siamo rimasti ancorati unicamente a ipotizzazione, circolarità e curiosità senza aver portato avanti la nostra teorizzazione: i bisogni delle persone cambiano molto rapidamente nel tempo, così le tecniche narrative per incontrarli. Ci siamo dovuti adattare a ciò che i nostri clienti ci chiedono; anche la nostra vita è andata avanti, siamo diventati autonomi e abbiamo ampliato le differenze tra didatti, pur riconoscendoci in maniera molto forte nella scuola di Milano. Tutti abbiamo mantenuto un rigore epistemologico indiscutibile. Circolarità, neutralità e curiosità restano i capisaldi nella nostra prassi clinica, concetti cui non rinunceremmo mai, assieme agli atteggiamenti di trasparenza, irriverenza, all’importanza data al tempo e all’idea del rischio di cadere nelle idee perfette. A questi capisaldi abbiamo aggiunto alcune aree di interesse personale e l’attenzione individuale ad alcuni temi e ad alcuni processi.
Personalmente ho la sensazione che sempre più ci sia una sorta di assuefazione al discorso psicologico e che le persone arrivino da noi avendo già ricevuto ipotesi ai loro problemi, magari da persone troppo coinvolte o troppo periferiche (la vicina di casa, la vecchia zia, il fratello, tanti operatori diversi, che hanno spesso ascoltato senza un progetto unitario e spesso senza che sia avvenuta una presa in carico). Gli utenti arrivano con ipotesi anche triadiche, plurime, che rendono difficile ridefinire le loro narrazioni. Assistiamo ad una contaminazione esagerata, che ci obbliga ad utilizzare al massimo la relazione e a sottolineare aspetti ancora muti che mettiamo in primo piano, attenti ai processi e al campo morfico che si crea con loro (Sheldrake, 1995).
Il costruttivismo modifica il rapporto stesso con i processi di conoscenza: il clinico non andrà più a cercare i giochi specifici o a scoprire la ‘realtà’ dei pazienti; il lavoro clinico non sarà più un processo per risolvere i problemi quanto per definirli e ridefinirli. Come sostiene Bianciardi (Bianciardi, Telfener 2016), in una prospettiva costruttivista, il terapeuta non sa di più e meglio del paziente: le sue teorie, le sue ipotesi, le sue narrazioni non sono né vere né false, sono plausibili esattamente quanto lo sono quelle del paziente. Ciò che le differenzia, piuttosto, è il fatto che le ipotesi del clinico debbono porsi e mantenersi ad un differente ordine logico rispetto a quelle del paziente: non al livello dei contenuti di conoscenza, bensì dei processi che costruiscono la conoscenza; non al livello di primo ordine del conoscere, bensì al livello di secondo ordine del conoscere la conoscenza. Mentre il paziente porta una narrazione credendola una descrizione oggettiva della propria realtà, il terapeuta propone ipotesi alternative, al fine di verificarne l’utilità. Il terapeuta, quindi, è (e deve essere) colui/colei che sa di sapere (sa che le conoscenze sono costruite e autoreferenziali), e sa di non sapere (sa che ogni conoscenza è soggettiva, parziale, riduttiva, contaminata, provvisoria). Non solo, il terapeuta deve anche esser consapevole di non sapere di non sapere, ovvero della ineludibile presenza di punti ciechi:

Cosa ho imparato dalla scuola di Milano

Tanti sono i processi, le posizioni, i ragionamenti che devo alla scuola di Milano, agli insegnamenti di Boscolo e Cecchin. Vorrei evidenziarne alcuni.

L’epistemologia come cornice che dà significato agli eventi e che organizza l’agire terapeutico. Sono l’epistemologia sistemica e il rispetto della complessità a organizzare qualsiasi lettura e intervento in terapia e a fare da cornice alla comprensione e alle azioni. Fedeli alla sistemica – riconosciuti tali da tutte le altre scuole italiane e non solo di psicoterapia – abbiamo sempre dato importanza al passaggio da una lettura semplice ad una polifonica, alla capacità di non “sposare” le proprie ipotesi, considerandole temporalmente valide solo se coerenti con la conversazione in atto. Abbiamo imparato a lavorare sulle nostre congetture, aperti al dubbio.

La ricorsività: la terapia è un processo auto-organizzativo, la non prevedibilità ne è un aspetto intrinseco. La ricorsività tra cosa vediamo e come organizziamo ciò che vediamo non può prescindere da una posizione riflessiva e partecipata: che cosa ci stanno portando i nostri clienti? Che significato ha la loro narrazione? Quale è e come si è costruita la relazione con noi? Le domande che il clinico si deve porre sono molteplici. Diventa quindi fondamentale riflettere sui pattern di collegamento tra individuo/famiglia e clinico e sui livelli di osservazione che si fanno più complessi: non solo ciò che il sistema porta – la sua organizzazione – occorre riflettere anche su come questa si connetta con ciò che emerge nell’incontro, tenendo conto della cultura dominante in cui tutti sono coinvolti. Solo se il clinico è in grado di riflettere sulla propria modalità di diagnosticare e, nello specifico, di diagnosticare la diagnosi effettuata, si può parlare di una piena responsabilità, intesa come la capacità di rispondere con coscienza del proprio operare.

La fiducia: la persona non è il suo sintomo, gli individui sono in costante movimento, le situazioni pure.  Fiducia nel contesto, quindi negli individui, nel processo; anche nell’inconscio che si arriva a condividere e che è amico. L’expertise è dentro le persone, ogni individuo si organizza nel migliore dei modi possibili; il nostro compito è quello di creare contesti in cui sia possibile fare emergere questa eccellenza. L’attenzione è alle risorse più che ai problemi e ogni percorso terapeutico sembra volto a sviluppare una sensibilità contestuale e relazionale. Per accedere all’eccellenza processuale nel setting condiviso, ciascun operatore deve accettare di lasciarsi influenzare dal desiderio, dalla fantasia, dalla creatività, dall’improvvisazione, e imparare a stare con il provvisorio, l’indicibile, il dubbio. In pratica… un invito all’irriverenza (Cecchin et al., 1992).

L’atteggiamento di ricerca attiva ha sostituito il curare: partecip-azione in prima persona, interventing interviewing, strategizzare, futurizzare, il rischio sempre presente di diventare dottor Omeostata (Hoffman, 2002), diventano aspetti cui prestare attenzione. Il passaggio dal potere al rispetto porta alla curiosità, all’irriverenza, alla trasparenza; porta al rispetto del problema presentato, attraverso la co-costruzione di una nuova coerenza narrativa. È necessario altresì non ignorare la nostra ignoranza, non dimenticare cioè che è inevitabile: la presenza di punti ciechi, l’esistenza di informazioni che non cogliamo e di collusioni e risonanze nelle quali cadiamo e delle quali rimaniamo inconsapevoli (von Foerster, 1987).

Il piacere della danza implica considerarsi parte integrante del sistema e delle premesse in campo. L’analisi della domanda (tra gli altri, Ugazio, 1991; Telfener, 2011) diventa il pattern di collegamento per formare il sistema osservante, di cui il terapeuta si considera sempre più un ‘perturbatore’. Il terapeuta quindi partecipa ad una mente comune, mantiene aperto il dialogo per favorire una attività di produzione di senso; si impegna con i partecipanti a costruire una nuova narrazione condivisa. Ogni seduta è costruita allo scopo di utilizzare le informazioni per restituire una versione nuova e coerente di un racconto che si snoda senza fine. Conoscere diventa un’azione il cui significato emerge attraverso la coordinazione della coordinazione delle narrazioni di tutte le persone coinvolte.

A Milano abbiamo imparato nel tempo che: 1. operiamo su indecidibili e indeterminabili; 2. sappiamo di non sapere e che esistono punti ciechi; 3. è sempre necessaria almeno una doppia posizione. Non si tratta di acquisire nuove tecniche, di inventare nuove teorie per leggere i sistemi e i contesti, si tratta di riflettere sempre di più sulla propria operatività e sulle mosse che già conosciamo/mettiamo in atto, al fine di costruire una prassi evolutiva, responsabile e partecipata. Perché gli interventi che facciamo non sono procedure oggettive ma emergono dalla danza che mettiamo in atto con gli altri. Perché l’oggetto di osservazione consiste nell’atto stesso di osservare l’oggetto.

Quale percorso personale ho integrato nel lavoro milanese

Iniziamo con un caso per poi identificare alcune operazioni che ritengo importanti nel processo terapeutico e di cui ho già scritto, concordando sulla loro utilità con altri didatti:
Renata è una giovane donna di 26 anni, che si presenta alla prima seduta con i suoi zii cui è stata “regalata” quando aveva quattro anni (la zia è la sorella della madre). È arrivata a Roma con loro per frequentare l’asilo, provenendo da uno sperduto paese della Calabria dove i suoi genitori fanno i contadini. È l’ultima di tre figli. Gli zii a Roma sono ambedue impiegati statali e “hanno avuto successo”. Renata è arrabbiata, triste, oppositiva; dall’età di 17 anni soffre di attacchi di panico che la tengono relegata in casa, terrorizzata ad organizzarsi una vita autonoma. Non ha mai frequentato un ragazzo e segue l’Università in maniera saltuaria, essendo molto in ritardo con gli esami di medicina.

Il valore adattativo del sintomo

Ogni sintomo ha un suo significato precipuo: serve per dichiarare qualcosa, è il modo migliore che una persona ha di prendere posizione nel contesto, seppur inconsapevolmente e di funzionare al momento presente; anche di affrontare alcuni nodi evolutivi e di passare ad un altro livello di vita. I sintomi possono nascere anche casualmente ma si ripetono nel gioco relazionale di un sistema, perché soddisfano necessità inconsapevoli, diventando abitudini consolidate e spesso diventano pratiche difficili da interrompere. Cercare il valore adattativo del sintomo significa individuare una delle possibili ragioni per cui è emerso e per cui persiste nel tempo.
Il sintomo di R. è importante nella sua vita e gioca un ruolo al fine di farla restare nel nucleo della zia che R. dichiara di “odiare”. Il sintomo le permette di rimanere chiusa in casa, di obbedire suo malgrado alle ferree regole della casa in cui abita e di stare lì non per libera scelta ma perché costretta. La paura della paura la rende un burattino nelle mani degli zii, obbediente anche alle regole dei genitori, malgrado i desideri/intenti di ribellione. R. non obbedisce agli zii ma al sintomo. Non a caso i problemi sono iniziati quando è arrivata all’età dello svincolo. R. sembra congelata, non ha desideri propri, si dichiara sola al mondo, sente tutti contro, si descrive debole e spaventata, malgrado in realtà venga descritta dai famigliari come prepotente, rabbiosa, insoddisfatta e sempre delusa. È invasa di rabbia e di paura.

L’attenzione alle ridondanze: ricercare la trama ripetitiva

Non vi è ‘causa’ di un malessere che si possa scoprire, in ottica sistemica non c’è una teoria eziopatogenetica che spicchi come teoria forte. L’attenzione torna sul processo clinico e come operatori ci ritroviamo una funzione fondamentale, quella di gestire le spiegazioni della situazione in atto – patologia compresa. Questa è la nostra specifica responsabilità. Per far questo dobbiamo stare all’interno di una relazione di fiducia e autorevolezza, caratterizzata da un linguaggio empatico e da una narrazione comune, per rintracciare i pattern che si ripetono tra le persone implicate nel sistema determinato dal problema (Anderson, Goolishian, 1988), nella relazione tra operatori e clienti, nella relazione specifica con noi. Lo scopo è quello di arrivare al cuore di ogni situazione attraverso una forza “debole” che permetta intuitivamente di trovare il punto di resistenza della narrazione; la ricerca dei pattern ripetitivi, al di là delle parole dette, emerge dal rapporto agito e include un commento, una frase che riesca a introdurre un punto di vista alternativo, qualcosa che crei rumore e permetta di alleggerire una situazione.

C’è più di un pattern che si ripete nella storia di R., ne sottolineo uno, si tratta del suo non permettersi di provare emozioni positive. Sembra quasi che abbia fatto un patto con se stessa: vengo a Roma ma senza entusiasmo, senza voler più bene a nessuno. Si mostra infatti gelida quando incontra i genitori, da cui si sente costantemente tradita; è fredda con i fratelli cui si sente distante mille miglia e verso cui si sente in colpa per avere maggiori opportunità e privilegi. È fredda, critica e distaccata con gli zii che la adorano ma dai quali si sente tenuta prigioniera. Anche dai ragazzi sta lontana, non si è mai presa una cotta né tantomeno si è incuriosita di nessuno. “I ragazzi hanno sempre un secondo fine” mi dice sospettosa, ripetendo i pregiudizi degli zii e le paure dei genitori, come fossero verità assolute. Il suo sintomo le permette di far uscire alcune emozioni negative di straforo: non sono sue, derivano dalla sintomatologia. La volta che riconosco il suo diritto alla rabbia e alla paura per il futuro mi dirà: “Già da piccola mi sentivo sbagliata a dire che non volevo stare con gli zii. Non li volevo amare, non volevo farmi incantare da loro”. Il suo sintomo permette agli zii di dare un senso alla loro vita e “punisce” attraverso la sua immobilità i genitori.

La conoscenza che si accompagna all’ignoranza e apre all’intuizione

La nostra posizione all’interno del contesto della seduta non contempla solo le nostre conoscenze (ciò di cui siamo esperti, il processo e le teorie sul cambiamento) ma anche la nostra ignoranza (ciò che sappiamo di non sapere e ciò che non sappiamo di non sapere). Non siamo solo sapiens, anche demenz. Il nostro conoscere è sempre incompleto, provvisorio, autoreferenziale e comporta una cecità costitutiva e ineliminabile che non è sotto la nostra giurisdizione: abbiamo a che fare sempre con “inconoscibili” e “indeterminabili” (von Foerster, 1987). La conoscenza – un processo nella relazione tra parte e tutto che serve per decodificare il mondo – è qualcosa su cui riflettere costantemente: è sempre necessario ragionare sulle griglie che si utilizzano per decodificare gli eventi e sulle categorie che emergono nella narrazione, per allontanarsene e ascoltare il non detto. Attiviamo infatti spesso un processo di “decostruzione” delle spiegazioni usuali, che permette di aprire un varco a vedere e comportarsi in maniere alternative, di esplorare altre vie senza definire a priori una meta.
Mi è chiaro da subito che R. è stata per ventidue anni in un non luogo. Sono però tante le cose che non so di lei, va bene così. Quello che non so mi permette di uscire dal razionale “delirio” di controllare la sua storia e di accedere invece alle intuizioni, alle fantasie, alle strade inesplorate. Mi viene in mente di darle come compito a casa l’opportunità di scrivere una lettera agli zii, per recuperare almeno in parte quello che hanno fatto per lei e per ringraziarli della loro cura, dal momento che per ora – presa tra due lealtà – si è solo opposta a loro. Le chiedo di scrivere la lettera come esercizio, senza che debba in alcun modo consegnarla. R. mi proporrà subito dopo di scrivere anche una lettera ai genitori, per annunciare che seguirà i valori degli zii e che uscirà dalla paralisi in cui è stata fin ora, che aveva lo scopo di non tradire nessuno.

La necessità che il clinico rifletta sul proprio posizionamento

Una psicoterapia è come un’avventura in mezzo al mare: dipende da molti fattori, dal clima, dal mare, dalla compagnia, dal tipo di imbarcazione, dalle correnti, dal vento… Ciascun elemento è una piccola componente dell’equazione. Il processo terapeutico implica fare accadere cose, fare ipotesi, interrogarsi sulle azioni intraprese, lasciarsi andare a ipotesi e intuizioni e accettare il limite del sistema e la sua capacità auto-organizzativa. Possono succedere cose straordinarie e del tutto inattese, che faranno cambiare anche noi. Proporre la leggerezza è sicuramente utile in quanto permette di cambiare il livello di attenzione, di slittare nel discorso, di uscire da una logica troppo stretta. La terapia come la vita implicano la capacità di improvvisare, di non percorrere strade già tracciate, di non mettere il pilota automatico, di sperimentare, di fidarsi dell’intuito, di mettersi a cercare un segreto come fa un cane da tartufi finché non trova. Non c’è una risposta giusta quanto piuttosto un processo, una creazione collettiva e collaborativa che avviene in un gruppo emergente di relazioni e pattern, in continuo cambiamento. Il processo relazionale condiviso include vedere l’invisibile, lavorare sul non detto, essere capaci di non saturare.
Mi fido di R., lei si fida di me? Che posizione emotiva ho verso gli zii? È importante che come sua psicoterapeuta non divento il terzo polo tra le alleanze che già la paralizzano. Gli attacchi di panico sono il simbolo della sua mancanza di libertà, le fanno dire “poverina” di se stessa e denigrare la sua situazione psicologica, la fanno piangere per la sua sorte. Con l’idea di essere “poverina” non riesce assolutamente a decollare, resta incastrate nel gioco. Il rispetto dei confini nella relazione sia con gli zii che con i genitori diventa un leitmotiv delle sedute: che cosa desidera per sé, quali idee la tengono prigioniera, quali convinzioni non le permettono di decollare? R. deve imparare a dire “io sono mia” anziché giocare di rimessa e non definirsi quasi mai. Li definisco la famiglia “Invischini”, dato il loro invischiamento, ironizzo su alcune interazioni che mi vengono descritte, cerco di non cadere nella trappola di detestare gli zii, esattamente come lei. Per questo anch’io mi definisco rispetto a lei, elencando quando posso le sue risorse. Così rispecchio la possibilità di assumersi una responsabilità per la propria vita, oltre a tentare di stare dalla sua parte, senza denigrare gli altri partecipanti al suo gioco e il suo passato rabbioso.

La necessità di futurizzare

Cercare la coerenza locale e far emergere storie su come si è costruita la realtà attuale, significa immaginare un futuro processuale per il sistema cui siamo venuti a far parte. La capacità di immaginare il futuro permette che il processo terapeutico rimanga evolutivo ed evita che il clinico diventi “Dottor Omeostata” e la situazione diventi cronica. Futurizzare significa immaginare un futuro plausibile per quel sistema specifico, proiettarsi in una realtà differente ma possibile, più variegata di quella attuale. Implica che il discorso rimanga aperto, che la storia che ci viene narrata continui ad avere elementi di mistero, disponibili alla possibilità che le micro-trasformazioni che produciamo non siano sotto il nostro diretto controllo. È importante lasciare abbastanza spazio perché la vita possa emergere senza che noi la dobbiamo definire.
Aiuto R. ad immaginarsi con un ragazzo nell’appartamento che gli zii hanno allestito per lei, che per ora è collegato alla loro casa da due porte sempre aperte. Cosa potrà significare entrare in una relazione amorosa e come cambieranno le alleanze? Come dovrà mettersi in gioco, quali parti di sé dovrà ingaggiare? Presentifico insieme a lei il futuro, una sua curiosità, qualcuno che la corteggia, un’attrazione, un corteggiamento, il desiderio di dire di Sì. Finché tutto questo non diventa presente e R. chiude le due porte tra gli appartamenti e si concede una storia. Naturalmente solo le fiabe finiscono bene, la sua vita continua tra alti e bassi, soddisfazioni e difficoltà, momenti di speranza e cocenti delusioni.

L’attenzione agli esiti indesiderati

Il rischio è quello di cadere nella visione del mondo dei sistemi implicati, di adattarsi alla trama più gettonata, di colludere con le visioni più patologizzanti, quelle più conformi e omeostatiche, in qualche modo rassicuranti nello spiegare cosa sta avvenendo. La collusione implica sempre un processo interpersonale e la vorrei declinare qui come indispensabile e positiva per connettersi col sistema e contemporaneamente molto pericolosa, quando inconsapevole e troppo rispondente alle aspettative sociali e al pensiero main stream. In quest’ultimo caso si perde uno sguardo individuale per adeguarsi ad uno prestabilito e a priori, usualmente medico, organizzato dalla patologia e dall’omeostasi. Quando si collude si offre spazio agli esiti indesiderati e si vedono solo alcuni aspetti di una realtà complessa, si fotografa e reifica la realtà sintomatica, la si decontestualizza, la si blocca nel tempo e nello spazio, si mettono in campo pensieri/azioni che ripropongono lo status quo e si perde la spinta strategica. Altresì si può diventare totalmente alleati con le forze processuali che si perde l’equilibrio e si spinge il sistema a difendersi da noi operatori.
R. migliora e contemporaneamente prova a restare uguale, si definisce coi parenti e poi riesce a non prendere una posizione su alcuni aspetti importanti. Il cambiamento va a salti e a momenti di stasi ne seguono altri di evoluzione e altri ancora di ritorno alle modalità iniziali. Il cambiamento non è lineare e non è organizzato dalla razionalità. Quando R. si farà scoprire dagli zii a fumare uno spinello insieme al ragazzo le verranno tolti tutti i benefit che era riuscita ad ottenere; è questo il momento per chiederle una pausa nel suo processo di autonomizzazione. Personalmente mi interrogo su quanto sia il mio investimento sul suo processo di svincolo e lavoro su di me per disinvestire e accettare di buon grado la sua dipendenza dalla famiglia e ora anche dal ragazzo. Non entro in simmetria con lei, comprendo la sua necessità di andare piano, di restare ossequiosa verso chi la ama, di non avere troppo successo (tradirebbe i fratelli) e di non svincolarsi (tradirebbe gli zii). È per lei necessario venir difesa dal ragazzo che vuole decidere per lei (tradirebbe se stessa) e gli zii – ancora una volta – costituiscono una sponda per darle il tempo di crescere e decidere per conto suo.

Conclusioni

Aprire possibilità per l’azione è uno dei nostri scopi terapeutici. Il senso è una necessità biologica di ogni umano ed implica interrogarsi sulla vita e sul proprio percorso personale. La vocazione umana è diventare se stessi, in una ricerca che è un processo continuo. Si tratta di un percorso in cui noi psicoterapeuti possiamo offrire alcuni “aiuti” psicologici, in un movimento verso l’interezza. Non si tratta di mettere in atto un processo etico benevolente e buonista ma di proporre una presa d’atto, che avviene attraverso la narrazione di sé, la decostruzione di alcuni pattern usuali e la riscoperta della relazione di fiducia.
La responsabilità dello psicoterapeuta non può essere il conoscere in modo prevedibile e comportarsi secondo protocolli di intervento predefiniti; sarà piuttosto l’assumersi la responsabilità delle modalità del proprio pro-porsi e delle sue scelte, all’interno di un processo in costante divenire. Quando raggiungiamo in punto in cui le nostre azioni sono spontanee, agire non è più una decisione che riguarda cosa fare al fine di ottenere un certo risultato; agire diventa l’espressione non di ciò che vogliamo ma piuttosto di chi siamo: la possibilità di sentirsi connessi con gli altri, col mondo fuori e dentro di noi e la capacità di seguire nell’azione il punto di minore resistenza, come l’acqua che scorre.

Bibliografia

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Bianciardi M., Telfener U. (2014), Ricorsività in psicoterapia, Bollati Boringhieri, Torino.
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