Rappresentazioni di genere

Rappresentazioni di genere

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di Federico Sandri, Roberta Marchiori, Tommaso Bonavigo

Federico Sandri: Sessuologo, docente di Psicologia Clinica presso l’Università degli Studi di Trieste, docente presso il Centro Italiano di Sessuologia di Bologna sandrifede@yahoo.it.

Roberta Marchiori: Psicologa, psicoterapeuta, mediatore familiare, didatta del Centro Milanese di Terapia della Famiglia, docente del Centro Padovano di Terapia della Famiglia, socio Formatore A.I.M.S. info@cptf.org.

Tommaso Bonavigo: Medico Chirurgo, Specialista in Psichiatria e Psicoterapia presso il Dipartimento di Salute Mentale di Trieste.

Rettificare i nomi. […]
Se i nomi non sono corretti,
cioè se non corrispondono alla realtà,
il linguaggio è privo di oggetto.
Se il linguaggio è privo di oggetto,
allora agire diventa complicato,
tutte le faccende umane vanno a rotoli
e gestirle diventa impossibile
e senza senso.
Per questo il vero compito
di un uomo di Stato
è rettificare i nomi.
(Thaiti, in Passeggeri notturni di Gianrico Carofiglio)

 

Introduzione

Come sottolineato in letteratura, la disforia di genere – definita come marcata incongruenza tra il genere esperito/espresso e il genere assegnato (APA, 2014) – è associata quasi sempre a grande sofferenza psicologica che può manifestarsi attraverso ansia, depressione, difficoltà relazionali fino all’ideazione suicidaria. Tali sintomi risultano strettamente connessi alle difficoltà di accettazione da parte della famiglia e del sistema sociale rispetto a questa manifestazione identitaria (Rigobello, Gamba, 2016). Le ricerche dei più importanti studiosi dell’ambito indicano, infatti, che il rischio psicopatologico non è legato specificatamente all’incongruenza di genere in sé, quanto piuttosto ai traumi che questi bambini e bambine subiscono in famiglia, a scuola e negli altri ambienti di vita, perché non vedono riconosciuta quella che sentono essere la loro identità psicologica e sessuale (Lingiardi, Giovanardi, 2017). Questo stato di non accettazione, da parte della comunità, persiste in età adulta ed è amplificato, come sappiamo, dagli stereotipi culturali.
Negli anni di lavoro clinico a sostegno dell’attività di ricerca presso la Clinica Psichiatrica di Trieste e nell’attività di supporto ad enti di promozione territoriale e culturale in ambito di minoranze a rischio di esclusione sociale [1], l’uso dell’approccio sistemico ha permesso di ampliare la percezione del coinvolgimento della famiglia nelle dinamiche inerenti l’iter che conduce alla Riattribuzione Chirurgica del Sesso (RCS). Nei percorsi di consulenza si è sempre ritenuto opportuno analizzare e orientare il lavoro verso l’intero sistema nel quale la persona transessuale vive e si esprime, non solo per tentare di tutelare l’espressione del suo cambiamento, ma anche per dare un senso ai dubbi, alle riflessioni ed ai modi di intendere la transessualità nell’intero sistema.
L’intreccio tra questa esperienza di lavoro specifica (Sandri, 2013, 2015, 2016) e l’esperienza nel lavoro con le diverse composizioni familiari in ottica sistemica (Marchiori, 2012, 2013, 2015, 2016) ci ha portato a riflettere sull’utilizzo di tecniche conversative e strumenti clinici tipici del modello relazionale, come il genogramma trigenerazionale, nei casi in cui si affrontano queste complesse transizioni.
Come rilevato da Marchiori e Viaro (2015), il modo di raccogliere e di rappresentare graficamente dei dati quantitativi, qualitativi e narrativi influenzerà le decisioni e le azioni che ne seguiranno; il genogramma proprio perché richiede una selezione e una riorganizzazione dei dati è di per sé un’operazione di ristrutturazione legata sia alle premesse teoriche sia alle esigenze cliniche.
Alcune proposte e riflessioni presentate nello studio di Sandri, Bonavigo e Marchiori (2016) rispetto alle rappresentazioni grafiche delle persone transgender costituiscono il punto di partenza, assieme all’analisi di un caso, per ulteriori considerazioni relative al lavoro con le famiglie nelle quali emerge il tema sfaccettato dell’identità di genere.

Caso clinico: prima parte

La famiglia Vanzi è stata inviata al dr. Sandri da un collega per un percorso familiare. Il nucleo è composto dalla madre Donatella di 46 anni, impiegata presso le poste, dal padre Manlio di 45 anni, guardia di finanza, dal figlio Luigi di 19 anni, studente di ingegneria meccanica a Trieste, e da Luisa di 17 anni che frequenta il quarto anno di un liceo linguistico di Padova.

Nel primo colloquio, mentre si raccolgono dati e informazioni a livello familiare trigenerazionale e sul contesto sociale di riferimento, emergono conflitti evidenti fra madre e figlia. In particolare, sembra che l’atteggiamento (definito dalla madre) “inquieto e disfattista” con cui Luisa affronta la formazione scolastica e la vita, abbia il fine di palesare un disagio che nel corso delle sedute successive diventerà sempre più esplicito.
Luisa è fidanzata da più di un anno con una ragazza della sua età (Maria); questo rapporto rende la madre “perplessa e un po’ preoccupata” sia per la scelta della figlia sia perché si chiede “che cosa accadrà quando i parenti lo sapranno”. Manlio appare coinvolto più a sostegno di Luisa che della madre, che viene reputata “eccessivamente apprensiva rispetto a momenti normali nella vita di un adolescente”; il padre cerca di comprendere i motivi che portano la figlia a sentirsi, come dice, “inquieta e disorientata”. Il fratello sembra essere in ascolto di quanto accade nel sistema piuttosto che reattivo verso la definizione di soluzioni o modelli alternativi di relazione.

In seconda seduta emerge un’informazione fondamentale che porta nuovi elementi alla relazione familiare. Luisa comunica di sentirsi “infelice perché uomo intrappolato in un corpo di donna” e di farsi chiamare, già da un anno, Cristian nelle relazioni amicali più significative e nella relazione con la compagna. Questa affermazione fa trasalire la madre, e il padre chiede chiarimenti al terapeuta per sincerarsi rispetto a quello che è appena stato detto dalla figlia; Luigi resta ammutolito. La seduta si chiude con i familiari interdetti mentre il terapeuta rassicura la famiglia in merito ad uno spazio che verrà dato nella prossima seduta per comprendere meglio quanto affermato.

In terza seduta, dopo aver proposto alcune riflessioni sugli effetti sortiti successivamente alla dichiarazione della figlia, la madre e il padre si mostrano sconcertati e ancora disorientati, soprattutto perché Luisa/Cristian appare risoluta e convinta di quanto affermato; i genitori hanno la sensazione di “vivere tempi diversi rispetto a quelli della figlia che è già così determinata”. Luigi sbotta e dice fra le lacrime: “Rimani come sei!”; la madre in chiusura di seduta afferma “mi sembra di aver vissuto con una persona che non conosco, un intruso sotto mentite spoglie”.

Tenuto conto dell’ampio carico emotivo, si pensa utile lasciar sedimentare alcuni vissuti emergenti che verranno ripresi in seguito e si sposta l’attenzione su altri piani tematici. Dopo aver spiegato la differenza fra identità di genere e orientamento sessuale, cercando di aiutare la famiglia a chiarire i diversi interrogativi, viene anticipato che, nel colloquio successivo, verrà ripreso il lavoro sulle relazioni familiari.

Le nuove famiglie e le famiglie di sempre

Nel panorama occidentale contemporaneo appare sempre più evidente ciò che forse da sempre è accaduto in contesti meno eteronormativi e genderisti: la famiglia si manifesta come dispositivo tutt’altro che definito secondo leggi “naturali”. “Non c’è niente di meno naturale della famiglia”, scrive Saraceno (2012); il che non vuol dire che è innaturale, ma la famiglia è una costruzione sociale, legale e normativa che – come direbbe Durkheim (1999) – da costrutto sociale è diventata “fatto sociale”, dato per scontato sia come modello organizzativo per la società sia come mappa mentale che guida le scelte soggettive.
Come fatto sociale la famiglia è un nucleo cisgender eterosessuale, formata secondo un incrocio bi genitoriale, eppure se guardiamo la famiglia da un punto di vista antropologico e storico, scopriamo che il modo in cui questo processo normativo è avvenuto è variato molto nel tempo e nello spazio. Si parla di famiglie caleidoscopio definite anche soggettivamente rispetto ai confini ed alle appartenenze: c’è chi considera parte della famiglia una nonna sì e l’altra no, chi la compagna del padre, chi la propria balia; in questa lettura viene dato valore dominante alla colorazione degli affetti piuttosto che alla genealogia. Le “nuove famiglie sono le famiglie di sempre” nella misura in cui ora, in questo frangente storico, hanno trovato il modo di darsi una definizione che le conduca fuori dall’ombra di una normatività subita; hanno trovato nomi per definirsi ed elementi di distinzione che non rimandano a paradigmi dicotomici, ma sono famiglie che hanno sempre avuto una loro dignità emotiva anche se socialmente non erano così rappresentate [2].
“Famiglie arcobaleno” (Ferrari, 2015) è una delle possibili definizione di un sistema nel quale uno o più membri della coppia sono omosessuali, tuttavia questo è solo un nome che comunica una caratteristica dell’orientamento sessuale dei genitori, ma nulla dice degli orientamenti degli altri, delle identità di genere, della composizione del sistema familiare. Mancano i modi per comunicare una complessità e le diverse strategie per negoziarla ed elaborarla in un contesto in cui difettano (ancora) le parole per esprimerla.

Riflessioni ed ampliamenti

Per rappresentare il mondo abbiamo tutti la necessità di utilizzare concetti, categorie e schemi almeno in parte condivisibili. Il genere funge da variabile minima, incarnata e monadica, quasi mai sottoposta a critica e si propone come categoria automatica per catalogare le persone (Graglia, 2012). Le relazioni familiari emergono come costituzioni derivanti dalla messa in comune di significati nati dall’interazione degli individui che partecipano attivamente ad una narrazione collettiva, costituita da un livello intrapsichico ed uno interpsichico e relazionale, e dalle loro commistioni. I significati nel tempo hanno partecipato alla costruzione di una matrice vivente che si rimappa attraverso circuiti comunicativi che danno definizione e consistenza agli eventi a cui i membri partecipano. Gli schemi stabilizzati nel tempo trigenerazionale costruiscono le mitologie familiari come suggerito da Bozormenyi-Nagy (2014). In qualsiasi relazione – scrivono Andolfi e Angelo (1987) – si viene a creare un mito ed i vuoti di informazione nel processo di costruzione del legame e della reciproca conoscenza vengono colmati attraverso la formazione di stereotipi.
Come suggerito da Butler (2005) il genere, nel suo valore psichico, è un mito certamente molto stabile e statisticamente meno discusso di altri; dato che il bambino vuole continuare a vivere, sia psichicamente sia socialmente, egli non potrà emergere al di fuori dell’attaccamento e del mito che gli ha dato l’appartenenza e l’amore. Come tutti i sistemi, la famiglia tende alla conservazione, alla stabilità e all’omeostasi (Jackson, 1967); questo stato di equilibrio, che trascende l’individuo, permette al sistema di inferire una logica di tipo lineare ed il mantenimento delle aspettative.
Non ci si aspetta che si verifichi un evento così inatteso e statisticamente infrequente come una Disforia di Genere (DG): a tale evento il sistema reagisce manifestando discordanze emozionali e comportamentali sovente legate a questioni non risolte. Come già evidenziato da Andolfi e Mascelloni (2010) nel caso delle famiglie con bambini DSD (Disordini della Differenziazione Sessuale), riteniamo che la narrazione dei vissuti del sistema sia fondamentale per fornire alle famiglie un sostegno rispetto ai vissuti di inadeguatezza, colpa ed emarginazione frequentemente sperimentati.
Le famiglie hanno bisogno di sostegno per tollerare l’incertezza e l’ansia riguardo allo sviluppo dell’identità (Monceri, 2015). Le ricerche di McCubbin e Patterson (1983) hanno mostrato che a parità di situazioni stressanti e critiche, la famiglia che aveva proceduto a una ricostruzione condivisa del significato del problema era riuscita a riequilibrare il proprio sistema in senso positivo. Secondo l’ipotesi di Olson (1990), quanto più un individuo o una famiglia privilegiano, nei momenti di stress, la vicinanza emotiva e la flessibilità alle regole e alle strutture di potere e sviluppano una buona comunicazione, tanto più hanno la possibilità di superare l’evento stressante (Mariotti 2002).
L’alterazione del parametro del genere, di per sé ritenuto immutabile, costringe i genitori della persona transgender a mettere in discussione le rappresentazioni mentali interiorizzate rispetto ai figli (Massara et al., 2012). Vengono messi in crisi molti schemi dell’interazione familiare: spesso i membri comunicano di sentirsi traditi da una comunicazione scorretta o falsificata [3], mettono in discussione i dialoghi avvenuti nel passato e la buona fede del membro che sta ridiscutendo le regole dell’interazione, che si è comportato, come asseriva la madre della paziente, da “intruso sotto mentite spoglie”; si sentono emotivamente distanti perché feriti ed empatizzano con difficoltà rispetto al vissuto del soggetto disforico (Lev, 2013). Come suggeriscono Massara et al. (2012) riguardo ai casi di DSD, il sistema si trova a dover sostenere un forte livello di “indeterminatezza”, l’alterazione del genere può essere maggiormente destabilizzante di una psicopatologia o di un altro evento critico, perché chiede ai membri del sistema un ri-orientamento in tempi molto veloci e spesso le persone non sono in grado di rispondere adeguatamente.
Nel caso di alcuni eventi avversi, il sistema si riorganizza alla ricerca delle soluzioni condivise, discusse e negoziate; nel caso dell’evento “DG” le soluzioni che di primo acchito il sistema propone riguardano, nella maggior parte dei casi, tentativi di normalizzazione (Rigobello et al., 2016) e la ricomprensione nei ranghi del genere biologico (come accade nel caso citato in cui il fratello dice “rimani come sei!”, che non è di fatto una proposta accettabile per l’individuo e pertanto viene rigettata, spesso esacerbando il conflitto e l’incomprensione).
Il sistema non ha ancora un alfabeto per comprendere quanto sta accadendo ed è già accaduto. Come evidenziato da Watzlawick (1971), un fenomeno rimane inspiegabile finché la gamma delle osservazioni non è ampia abbastanza da includere il contesto nel quale quel fenomeno si verifica. Omettendo di considerare la relazione tra l’evento e la matrice nel quale ha luogo, tra un organismo e il suo ambiente, l’osservatore si troverà di fronte a qualcosa di “misterioso”, di sconcertante oppure finirà per attribuire all’evento proprietà che quello potrebbe non possedere (Watzlawick et al., 1971). La famiglia rimane sospesa nell’inspiegabilità di un evento che fenotipicamente “non ha senso” per alcuni membri, ma che tuttavia per uno di essi ha un valore di realtà che non ammette discussioni e critiche, che non dà tempo.
Secondo Claudia Hammond (2013) l’esperienza del tempo viene creata in modo attivo dalla mente di ogni persona: le emozioni, la concentrazione in un’attività più o meno piacevole, l’età, le aspettative e molti altri fattori contribuiscono a produrre una percezione soggettiva del tempo.
La variabile “tempo” corre su due binari distinti: la persona con DG, che ha dichiarato quanto da sempre taciuto, richiede e pretende un riconoscimento immediato, nel tempo presente, con una forza che ha quasi il sapore di un risarcimento del tempo trascorso ad occultare ciò che era emotivamente già evidente. Per gli altri membri della famiglia, che vivono lo sconcerto, c’è bisogno di un tempo per prendere coscienza di quanto emerso: è un tempo mediato e ragionato, mai davvero terminato, che va a perdersi ricercando gli indizi di un accenno, di una espressione in cui poteva essere carpito quel segreto che nello spazio attuale rende tutto irreale. I genitori rievocano nella mente il tempo della nascita, le precoci esperienze di crescita, verificano mentalmente l’esistenza di un corpo neonato e poi bambino, adolescente ed adulto che è sempre stato lo stesso, coerente e corrispondente alla loro lettura al genere biologico.
André Green (1983) ipotizza che il primo tra gli organizzatori dell’identità sessuale sia l’attribuzione precoce ed inconscia di un sesso al bambino da parte dei genitori; dopo la nascita, secondo l’Infant Research, esistono etichette inconsce (unconscious labels) che trasmettono, in modo molto sottile, in ogni interazione, il vissuto del padre e della madre riguardo alla femminilità o alla mascolinità del bambino. I lavori di Mahler e coll. (1975) sulle modalità con cui attraverso il contatto fisico con la madre, il bambino e la bambina pervengono ad una percezione di sé come essere dotato di un corpo sessuato, hanno evidenziato l’importanza che la percezione del proprio Sé corporeo assume nell’acquisizione del sentimento di identità. Tuttavia non va dimenticato che, mentre il/la bambino/a costruisce una sua identità di genere, la madre ed il padre assumono che questa sia assimilabile al suo genere biologico: per loro è un evento totalmente sovrapponibile ed acquisito che statisticamente non apre nessun interrogativo.
Mentre il genitore è disponibile a credere che esista nel bambino un gusto dissimile al proprio per quanto riguarda cibi, bevande, colori e, anzi, ritiene che questo possa essere un valore importante per la crescita e l’individuazione, quasi sempre ignora che vi possa essere un vissuto di incongruità tra il sesso di nascita e le manifestazioni psicologiche e comportamentali dell’identità di genere (e quando gli viene palesato lo ritiene spesso un disvalore piuttosto che una varianza contemplabile). Una volta che l’etichettamento è stato negoziato ed accettato dalla famiglia, tutti i comportamenti avvengono in virtù di quella etichetta (Fruggeri, 2015).
Qualora un sistema sia sufficientemente in grado di riadattarsi e di trovare lo spazio rispetto ad un disorientamento iniziale, può accadere che accolga in senso dicotomico la DG del parente: in alcuni casi, anche in modo difensivo, sembra che le famiglie propongano una possibilità maschio/femmina che tuttavia suona comunque come ingiunzione.
Come suggerito da Nestle et al. (2002) e Malpas (2011), uno dei principali obiettivi, non solo con i pazienti transessuali, ma soprattutto con le famiglie, è spostare, anche cognitivamente, l’ottica del genere da una posizione either/or verso una both/and [4]; da un approccio classificatorio verso posizioni di maggiore flessibilità. Di Ceglie (2014) afferma che spesso – anche in accordo con l’evolversi dei tempi e delle definizioni sempre più sfumate del genere, come sancito anche dal DSM 5 (APA, 2014) – molti pazienti chiedono ai terapeuti e alle famiglie, più o meno esplicitamente, di superare le costrizioni degli stereotipi di genere e di aiutarli a trovare posizioni e combinazioni nuove (Factor et al. 2008 Alegria, 2016).

Genogramma e identità di genere

Il genogramma è uno strumento che si propone di leggere l’identità di genere come variabile unica e significativa descritta entro termini polari; all’epoca della definizione teorica dello strumento si faceva riferimento a due generi: maschile e femminile (McGoldrick et al., 1985). Successivamente sono state proposte nuove codifiche per l’orientamento sessuale (Hof, Berman, 1996), e ad oggi alcune revisioni danno spazio anche alle identità di genere (Belous et al., 2012) e alle nuove emergenti identità non-convenzionali (McGoldrick et al., 1985). Abbiamo già osservato che il genogramma non è uno strumento normativo, ma definisce una rappresentazione che va ampliata dalle narrazioni del sistema che partecipa alla compilazione (Sorrentino, 2008; Cirillo, 2011): come notava Bowen (1980) ed altri autori (Jolly et al., 1980; Hardy et al., 1995; Lupoi et al., 2002) la finalità terapeutica dello strumento è rintracciabile proprio nella co-costruzione congiunta fra sistema, individuo e terapeuta. È questo elemento sostanziale a permettere che lo strumento diventi spazio di ragionamento che non è corretto o scorretto, ma vuole proporre, e quindi ampliare, lo spazio delle realtà possibili per il sistema, tanto più quando viene usato come strumento clinico.
Dalla revisione della letteratura abbiamo individuato un limite nell’uso della simbologia del genogramma nelle situazioni non convenzionali (Sandri et al. 2016): l’esperienza della transessualità non è tenuta in considerazione nella sua complessità. Un modello che tiene conto delle sole variabili biologiche non può essere sufficientemente esaustivo ed informativo della costruzione identitaria che si vuole rappresentare in questi casi. Il genere del soggetto si manifesta, come abbiamo visto, in una variabile su cui pesano stratificazioni di significati dell’essere maschio o femmina (Poggio, 2004) o non voler più essere l’uno o l’altra (in alcune organizzazioni di genere) e nella rappresentazione grafica pensiamo sia importante tener conto di questo. La costruzione identitaria si configura in un passato, un presente e un futuro, e necessita della descrizione di almeno tre livelli di esperienza (psicologico, corporeo, genetico) per poter essere analizzata e ha bisogno, per essere realmente informativa, di un livello di condivisione sistemica.
Proponiamo quindi, a livello clinico, di costruire una rappresentazione di sé, assieme al soggetto interessato e alla sua famiglia, che meglio rappresenti il suo sentire, il suo essere e voler essere, come ad esempio nelle seguenti rappresentazioni.

Figura 1 [5]

 

Figura 2

Abbiamo notato (Sandri et al. 2016) che, aumentando come nelle figure proposte la possibilità di rappresentarsi, i soggetti oltre a sentirsi maggiormente compresi e rispettati, riflettono in modo più preciso sul loro sentire fisico e psicologico, sia individualmente sia assieme ai familiari. In queste rappresentazioni, come specificato, si è partiti dal piano genetico, ma in altre può essere utile cominciare dal vissuto emotivo. Come riportato nel numero di National Geographic (Gennaio 2017) dedicato alla “Rivoluzione Gender” molte persone ritengono di essere diventate quelle che erano e che dovevano essere; Avery Jackson, una bambina transgender di nove anni, dice: “la cosa migliore dell’essere femmina è che adesso non devo più fingere di essere un maschio” (pag. 3).
Come descritto da Di Salvo (2011), nell’ambito della transessualità – non solo i terapeuti, ma la stessa famiglia in cui un membro manifesta una DG – si affidano a copioni e stereotipi sfruttandoli come efficaci euristiche [6] per risparmiare tempo e processi mentali. Queste strategie hanno il fine di ridurre la dissonanza cognitiva davanti a idee inconciliabili. È necessario dilatare il diaframma delle alternative per recuperare la distanza fra come le cose dovrebbero essere e come le cose di fatto sono (Cecchin et al., 1997); questo è ciò che davvero permette la costruzione di una teoria qualitativa.
Riteniamo che per rendere in modo maggiormente esaustivo gli scenari possibili nelle varianze del genere senza trascurare gli eventi emotivi che si esprimono nell’intero sistema, sia necessario definire una versione del genogramma che tenga conto del tempo – esplicitato come storia della persona e suo evolversi psichico e fisico all’interno del sistema che lo ha visto manifestare la DG – e che funga da strumento di lettura condiviso per tutta la famiglia.

Caso Clinico: seconda parte

Nel proseguo del percorso terapeutico, dopo avere dato alcune spiegazioni teoriche finalizzate a definire una cornice semantica comprensibile a tutti (differenze fra orientamento sessuale, identità di genere, genere biologico, ruolo di genere e genere percepito), viene proposto di utilizzare il genogramma per esplicitare graficamente e in modo condiviso alcuni elementi critici emersi precedentemente. Viene ripreso quindi il lavoro dando forma e valore ai movimenti emotivi e psichici relativi al fenomeno della transizione che sta coinvolgendo il sistema.
Per dare una maggiore struttura a questo processo, abbiamo deciso di riportare in modo sequenziale i temi più salienti emersi durante i colloqui e le riflessioni a questi connesse.
È chiaro per tutti i membri del sistema che Luisa/Cristian non può e non vuole continuare ad essere rappresentato al femminile, pertanto vengono proposte possibili rappresentazioni grafiche secondo quanto descritto nelle riflessioni sopra esplicitate.
Luisa/Cristian manifesta graficamente i tre livelli genetico, psichico e corporeo. Questa rappresentazione (che di fatto offre visibilità e dignità alle varie aree in cui si incorpora la DG) attiva molte riflessioni nel sistema: Luisa/Cristian si sente maggiormente rappresentato e comunica di sentirsi più sereno “…anche perché sento che quello che con le parole non riuscivo a far comprendere ai miei (genitori) ora è più chiaro”. I familiari accolgono, con molte domande, l’introduzione della rappresentazione grafica costruita da Luisa/Cristian: anche a loro appare “più chiaro quanto descritto in precedenza»; «ora mi sento meno in confusione” dice la madre pur sottolineando la necessità di avere tempo per riflettere e per rielaborare quanto emerso. Il padre manifesta ancora uno stato di disagio, ma sembra comunque maggiormente aperto e recettivo rispetto agli incontri precedenti.
Attraverso il segno grafico sembra sia stato reso più condivisibile un sistema di significati che, pur rimanendo in parte legati al valore del singolo, ora può essere, come i contenuti emotivi sottesi, per lo meno discusso e negoziato: non è possibile coordinarsi né definire uno scopo comune se non c’è, come suggerisce l’approccio costruzionista, un repertorio condiviso (Leone, et al. 2013).
Dare un segno grafico all’esperienza della famiglia è stato un modo per arricchire il loro sistema di significati senza svalutare il vissuto dei singoli membri. Rappresentare l’effetto della transizione sulla persona, ha reso più agevole l’accesso alla mentalizzazione e al cambiamento.
Nelle sedute successive si è ragionato su ciò che accadrebbe se si intraprendesse il percorso ormonale, che porterebbe al corpo di Luisa/Cristian delle modificazioni significative. La rappresentazione grafica aiuta il sistema a prendere coscienza della proiezione futura e, allo stesso tempo, introduce l’idea che mentre qualcosa cambia fenotipicamente qualcos’altro si mantiene costante. Il paziente stesso ha bisogno di comprendere che, sebbene la morfologia cambi, alcuni elementi psichici e biologici non mutano anche con l’intervento chirurgico. Porre attenzione alla transizione corporea e psicologica aiuta a chiarire meglio il processo nel quale il sistema è immerso, come suggerito anche da Menvielle (2012).
I genitori chiedono informazioni rispetto ai parametri di un percorso/processo di cambiamento per loro ignoto sia sugli effetti corporei sia sul piano della salute psico-emotiva del figlio e propria. Come sottolineato da Budge et al. (2013), offrire al diretto interessato e ai genitori, e in generale al sistema di appartenenza, informazioni precise sulle tematiche dell’identità di genere, non solo nei termini medici, ma anche psicologici ed emotivi, riduce il rischio suicidario negli adolescenti LGBT, favorisce il loro inserimento all’interno della comunità sociale e l’emancipazione dal sistema familiare, e aiuta la comprensione del processo di “transizione”.
I familiari, come spiega Rigobello et al. (2016), sono portatori di una domanda atipica che punta alla normalizzazione di un terzo, il figlio che, invece, con il proprio disagio rompe l’omeostasi familiare chiedendo al genitore, spesso in modo indiretto, di cercare per lui la strategia migliore per gestire il suo disagio. Da un lato il genitore desidera sostenere ed aiutare il figlio, dall’altro si trova a scontrarsi con il proprio bagaglio valoriale, con le paure e le insicurezze sul percorso che il figlio dovrà affrontare ed il timore che pur raggiungendo il suo obiettivo egli non sia comunque soddisfatto degli esiti [7].
Non è solo il corpo fisico e la forma della persona transgender che affronta una transizione (Ferrari 2007), prima immaginata e poi realizzata, ma è il corpo dell’intero sistema che deve affrontare un processo di perdita e riaggregazione, di revisioni e riformulazioni.
Il processo terapeutico può essere concepito come un lavoro di narrazione reiterato nei tempi dei vari soggetti agenti nel sistema; la sua finalità è la costruzione assieme all’intera famiglia della consapevolezza del proprio percorso di vita all’interno di una sequenza temporale in cui i vari elementi in gioco si riconnettono traendo spunto dalle assunzioni del passato per una proiezione verso il futuro (Dallos, 1997). Come ricorda la madre del paziente: vi è la sensazione di “vivere tempi diversi”. Il tempo della storia che viene raccontata per il sistema va avanti e indietro: “cosa avverrà prima, e cosa avverrà dopo”, “mi ridica: ma poi che cosa accadrà”, “ho bisogno di chiedere di nuovo”, sono domande in cui si esplicita questa tematica in modo evidente e che sottendono da un lato il bisogno di una ri-narrazione delle informazioni, dall’altro la necessità di lasciar sedimentare i vissuti attivati dalla comunicazione familiare e terapeutica.
In ultima analisi sembra particolarmente utile riflettere su cosa accadrà nel contesto più ampio di appartenenza quando il cambiamento del figlio sarà più esplicito o avrà luogo fenotipicamente. Una delle preoccupazioni che emerge nel lavoro clinico è quella di dover dare spiegazioni sul cambiamento del figlio a parenti e amici: avere la possibilità di analizzare in modo anche immaginativo che cosa potrà accadere nella realtà delle relazioni favorisce l’emersione di strategie/competenze che la famiglia e i singoli non pensavano di possedere e allo stesso tempo può agevolare la percezione di unità sistemica coesa verso una comunicazione condivisa dell’evento. È molto importante, come emerge dal lavoro con le famiglie di adolescenti con DG pubblicato da Petiva e Spirito (2015), aiutare la famiglia a “far squadra” condividendo un linguaggio comune all’interno della famiglia che aiuti la riorganizzazione verso il contesto sociale più ampio, evitando l’autoesclusione sociale.

Conclusioni

La famiglia nella quale un figlio manifesta la DG ha la necessità di ricodificare i significati di una esperienza che, nella maggioranza dei casi, non poteva essere immaginata e che, quando si palesa, genera uno sconvolgimento importante per tutti i membri.
Il compito del clinico è offrire spazi perché le identità non convenzionali e gli stessi sistemi in transizione [8] possano trovare un primo accordo sui termini, un terreno per una rappresentazione possibile e comunicabile. Il lavoro con la famiglia e l’utilizzo del genogramma, con le attenzioni proposte, è un modo per dar luce a una storia che ha bisogno di essere vista per assumere la forma di una rappresentazione narrativa (Poggio, Jedlowski, 2004).
Gli studi che abbiamo avuto modo di prendere in considerazione analizzano diffusamente gli effetti della DG sulla persona transessuale: verificano la situazione nell’infanzia e nell’adolescenza, ne valutano la ricaduta sul piano emotivo e sociale, analizzano l’effetto dello stigma per il bambino e per l’adulto, tuttavia, rimane importante sottolineare ulteriormente l’impatto della DG sul sistema familiare e la modulazione delle dinamiche relazionali nel tempo. L’intero sistema coinvolto ha la necessità di trovare uno spazio per dare significato alla situazione, per affrontare gli stravolgimenti in atto e i nuovi bisogni emergenti (Lev, 2013), per maturare, per costruire una cornice emotiva più vasta ed accogliente. In questa prospettiva la presa in carico del sistema principale di appartenenza e l’utilizzo di metodologie di uso comune nella pratica sistemica adattate a questa specificità clinica possono aiutare a:

  • portare all’emersione, dei diversi punti di vista e dei “non detti” dando spazio ai vissuti di tutti i membri del sistema;
  • dare una nuova forma alla DG, definendola con segni grafici che risignifichino e amplino l’esperienza cognitiva ed emotiva della famiglia;
  • dare visibilità al processo in atto in relazione alla variabile temporale;
  • costruire un terreno condiviso di comunicazione all’interno del sistema;
  • aiutare la famiglia a riorganizzarsi rispetto al sistema sociale allargato.

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[1] Si fa riferimento ad associazioni come l’Arcigay e MIT presso le quali si è prestata attività di consulenza, sostegno e formazione. In particolare il dott. Sandri, per quanto concerne la Disforia di Genere, è stato il promotore del Progetto “Transizioni Attive”, finalizzato al sostegno delle persone in transizione, delle coppie e delle famiglie nel complesso iter pre e post operatorio. L’attività si è svolta dall’anno 2011 presso la Clinica Urologica e la Chirurgia Plastica dell’Ospedale di Cattinara a Trieste.

[2] Si pensi ad esempio alle famiglie reduci dalla seconda guerra mondiale in cui l’assenza di uno dei coniugi, di un figlio, di un parente con legame di sangue permetteva ai nuclei di ricomporsi secondo ottiche differenti, in base alle necessità economiche, alle appartenenze emotive all’empatia nella sofferenza. Nel Friuli post terremoto, ad esempio, molti sistemi familiari si sono ricomposti in base alla vicinanza abitativa, la perdita tragica ed inaspettata di alcuni familiari (in alcuni casi di famiglie intere); l’idea di una identità da ricostruire dalle macerie di una storia ormai finita ha permesso la costruzione di sistemi familiari ricomposti, pluirinucleari, non eteronormativi. Come suggerisce Fruggeri (2001) ogni “diversità” è giustificata dal contesto sociale condiviso in cui la famiglia è inserita. Oggi, in Italia, l’eterogeneità delle forme familiari non è più un fenomeno “esotico” cui poter guardare da lontano. Il contesto sociale italiano è ormai intessuto della presenza di famiglie ricomposte, monoparentali, coppie omosessuali che rivendicano il diritto al riconoscimento sociale, famiglie di diverse appartenenze etniche o ad appartenenza mista, ma anche di un numero crescente di famiglie con figli non biologici, o famiglie nucleari che sempre meno ricalcano i modelli tradizionali più radicati.

[3] Come suggerisce Turnaturi, custodire gelosamente un segreto senza condividerlo con chi ci è vicino può essere considerato alla stregua di un tradimento. L’esperienza che la famiglia vive è la realizzazione di un fatto che nella mente della persona DG ha già un livello di definizione che lo rende un dato di realtà e che come tale pretende di essere visto e recepito; nella percezione del sistema il dato non è ancora un evento reale, è una variabile che viene posta in questione, su cui si muovono dubbi e domande, su cui si tenta di negoziare anche per salvaguardare l’immagine precedente.

[4]   Si fa riferimento in questo caso ad una serie sostantivi inglesi che possono avere anche funzione di congiunzione. Either/or fa riferimento ad una condizione di confronto fra due posizioni antitetiche che tendono a negarsi a vicenda, si direbbe in italiano un aut/aut; la forma both/and al contrario sottolinea la possibilità che due termini, pur nella possibile dicotomia, possano essere letti come facenti parte di una relazione che non nega, ma contempla più possibilità. In riferimento al genere si sottolinea quindi il passaggio da un’ottica che nega ciò che va in antitesi ad una che invece punta verso una integrazione.

[5]  Nel simbolo in Figura 1 si esplicitano i tre livelli dell’esperienza della persona transessuale FtoM (Female to Male, persona biologicamente femmina che vuole transitare in un corpo maschile) dal più interno verso il più esterno si possono leggere il piano genetico (femminile), il vissuto psichico ed emotivo (maschile), l’apparenza corporea attuale (femminile). In Figura 2 si propone il simbolo che descrive l’esito del processo di transizione: il piano genetico (cerchio interno) e l’esperienza psichica ed emotiva (quadrato intermedio) rimangono invariati, mentre muta l’apparire corporeo che si vuole mostrare e raggiungere, in alcuni casi, anche attraverso all’assunzione ormonale ed agli interventi RCS.

[6] Le euristiche in psicologia sono semplici ed efficienti regole che sono state proposte per spiegare come le persone risolvono, danno giudizi, prendono decisioni di fronte a problemi complessi o informazioni incomplete. Il principio che giustifica l’esistenza di euristiche è quello secondo cui il sistema cognitivo umano è un sistema a risorse limitate che, non potendo risolvere problemi tramite processi algoritmici, fa uso di euristiche come efficienti strategie per semplificare decisioni e problemi. Sebbene le euristiche funzionino correttamente nella maggior parte delle circostanze quotidiane, in certi casi possono portare ad errori ingenui.

[7] Come nella metafora di Di Ceglie, che cita il viaggio di Ulisse nel passaggio tra Scilla e Cariddi come punto di svolta e scelta fra uno dei due poli di conflitto. L’evento della transessualità sottopone il sistema, ed in particolare i genitori, ad una scelta fra permettere una modifica (plausibile, imperfetta, parziale) del corpo in virtù di un (plausibile, imperfetto e parziale) miglioramento del benessere psicologico, ed opporsi al cambiamento del corpo in virtù di una immaginata supremazia biologica che punta a mantenere ciò che c’è a discapito di una mente che si incarna in una fisicità imperfetta, forse mai realmente tollerabile. E la realtà è che alla fine il genitore deve accogliere la propria frustrazione che deriva dal fatto di non avere il potere per opporsi a quanto il figlio desidera. La tentazione di cadere in una lettura solo biologica ed intervenire sul corpo o solo psicologica sottovalutando il disagio di un corpo che l’individuo non sente appartenergli e va affrontata con costante cautela, consapevoli di uno spazio di manovra che è sempre molto limitato.

[8] Riteniamo utile usare il termine “Sistema in transizione” perché pensiamo che sia importante depotenziare l’idea che sia la persona DG che intraprende in modo singolo il percorso di transizione, mentre nella nostra esperienza è l’intera famiglia che entra in questo processo. Siamo convinti che sia l’intera famiglia a vivere un cambiamento significativo che necessita di trovare un senso e un nuovo significato e sovente il sostegno psicologico che la persona DG richiede (spesso di tipo informativo e chiarificativo) è differente sia nei modi sia nei tempi rispetto a quello richiesto dalla famiglia.