“Out of mind”: radici, mappe e percorsi della creatività socio-culturale

“Out of mind”: radici, mappe e percorsi della creatività socio-culturale

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di Carmen Pellegrinelli
University of Lapland (Finland), cpellegr@ulapland.fi

Abstract

L’articolo offre un quadro generale dello sviluppo del dibattito sul tema della creatività in chiave socio-culturale. Partendo dalla sistematizzazione teorica di Van Peter Glăveanu, il contributo sottolinea la recente svolta che gli studi sulla creatività hanno assunto verso una visione sistemica, contestuale e processuale dei fenomeni creativi. In questa nuova concettualizzazione, la creatività si configura non come un fenomeno individuale di natura mentale, ma come un complesso processo socio-culturale distribuito, mediato da materiali “culturalmente densi”, che porta alla generazione di artefatti nuovi e significativi all’interno di una comunità. L’articolo amplia e discute alcuni dei principali apporti teorici raccolti da Glăveanu con l’obiettivo di mettere in evidenza la convergenza transdisciplinare che negli ultimi vent’anni ha potenziato le basi teoriche della comprensione dei processi creativi in termini socio-culturali.

Introduzione

“Creatività” è una parola che, anche nella sua accezione comune, è capace di far emergere il senso di connessione tra elementi differenti, in grado di generare il nuovo o quantomeno di ristrutturare l’esistente. Usiamo la parola creatività in ambiti diversi come sinonimo di “produttivo”, “inventivo”, “fantasioso” (Melucci et alt.1994) e le numerose definizioni di creatività, seppur differenti concordano sul fatto che la creatività si caratterizzi per la sua capacità di generare “produrre il nuovo” (Perdroni 2005). Eppure quando ci addentriamo nell’ambito delle scienze sociali per coglierne i significati, la sua capacità generativa e il suo potenziale come forza sociomateriale e processuale (Orlikowski 2006; 2007; 2010) sembrano passare in secondo piano. Il discorso accademico, ne restituisce – nella maggior parte dei casi – una visione come qualità individuale, universale, mentale, di natura a-contestuale e astratta (Guilford, 1950; Glăveanu, 2014). 

In questa prospettiva s’ignora l’aspetto contestuale e situato della creatività e la sua natura relazionale coinvolgente l’ambiente umano e materiale, depotenziando la parola “creatività” della sua forza generativa. Quest’espropriazione comporta, nell’ambito delle scienze sociali e anche in quelle legate alla sfera educativa, un uso del termine con riferimento esclusivo a contesti di ricerca di tipo cognitivo (Kessler, Quinn 1987; Ishii, Miwa 2005; Oon Seng 2015; Zhou, 2018), oppure il ricorso all’aggettivo “creativo” nella sua accezione comune. La mancanza di una teorizzazione sistemica socio-culturale della creatività ha conseguenze precise sullo sviluppo del sapere. Come Rosi Braidotti e Maria Hlavajova sottolineano oggi abbiamo bisogno di recuperare il potenziale di questa parola come forza connettiva capace di creare nuovi termini concettuali in grado di leggere le complesse sfide del reale e immaginare nuove soluzioni (Braidotti, Hlavajova 2018). Per restituire forza potenziale al termine, credo sia necessario, uscire dalle sue rigide teorizzazioni di stampo positivista per provare a rispondere a domande molto concrete: cosa accade durante i processi creativi? Come rendere conto della loro dimensione sociomateriale? Cosa possiamo dire della relazione tra creatività e pratica?

Un grande lavoro di scardinamento della lettura cognitivista del fenomeno in favore di sua una visione socio-culturale è stato recentemente portato avanti da Van Peter Glăveanu (2010; 2013; 2014; 2017; 2018; 2019). Dal duemila, Glăveanu ha lavorato per promuovere nel dibattito internazionale l’idea che il processo creativo non sia qualcosa d’individuale e astratto, ma il prodotto di “connessioni” profondamente radicate tra persona e ambiente. Glăveanu definisce la creatività come un complesso processo sistemico psico-socio-culturale distribuito e mediato da materiali “culturalmente densi”, capace di generare artefatti valutati come nuovi e significativi per una comunità in un dato momento.

L’articolo ha l’intento di portare nel dibattito italiano la riflessione di Glăveanu sulla creatività, ampliandone e discutendone gli apporti teorici. Il contributo si sviluppa come segue. Il secondo paragrafo espone la sistematizzazione dell’autore sullo sviluppo teorico degli studi sulla creatività, in questa sezione sono illustrati e discussi i primi studi psicologici sul tema e quelli legati gli approcci della psicologia sociale. Il terzo paragrafo entra nel vivo della proposta socio-culturale discutendo la convergenza tra tre correnti differenti che hanno contribuito direttamente o meno alla teorizzazione della visione socio-culturale e sistemica della creatività: la tradizione vygotskiana (Cole, 1996; Vygotskij, 1971; 1978; 2004; Gruber, 1985; 1988; Gruber et al., 1981; Moran, John-Steiner 2003), i recenti approcci ecologici alla cognizione (Hutchins 1995; Clark, Chalmers, 1998; Vallée-Tourangeau, Cowley 2013) e gli studi di Csíkszentmihályi (1988; 1990; 1994; 1997; 1999; 2014). Il quarto paragrafo mette in rilievo alcuni aspetti critici del paradigma socio-culturale della creatività e in particolare la questione della sociomaterialità, evidenziando spunti per la ricerca futura. Al paragrafo conclusivo il compito di riassumere e sottolineare il valore critico del percorso e della convergenza nell’ambito del dibattito italiano.

Metodologicamente la rassegna si basa sulla mappatura del dibattito proposta da Glăveanu, ampliandone criticamente la base concettuale attraverso lo studio diretto delle fonti indicate dall’autore. Particolare supporto alla trattazione dello sviluppo storico del tema è fornito dal lavoro di Sawyer (Sawyer, 2003; 2006; 2010; 2011; 2012; 2014). Nella descrizione del filo rosso che, carsicamente, attraversa epoche e tradizioni di letteratura ho confrontato la proposta di Glăveanu con il contributo di Rejo Miettinen (2006). Anche Miettinen propone di leggere gli elementi convergenti per una ri-concettualizzazione in chiave socio-culturale del fenomeno della creatività.

Dall’I-paradigm al We-paradigm: per un inquadramento storico degli studi sulla creatività

Il lavoro di Glăveanu propone di leggere l’evoluzione del dibattito sulla creatività attraverso la formulazione di un quadro generale composto da tre paradigmi (2010). Il primo paradigma, He-paradigm, detto anche the genius stage, raccoglie le tradizioni teoriche che storicamente hanno concepito la creatività come qualità individuale straordinaria (Schaffer 1994) di un individuo. Basti pensare all’idea di genio e d’ispirazione divina del mondo greco romano o a quella di talento del mondo umanistico e rinascimentale (Martindale, 1999). Glăveanu sottolinea come nell’ He-paradigm vi sia un carattere di esclusività e di non-relazione tra colui che crea e il mondo circostante. Secondo questa concezione è evidente come il genio (peraltro sempre maschile) crei da solo e crei ex nihilo.

Legato ai primi studi psicologici sulla creatività (Guilford, 1950; 1959; Guilford, Merrifield, Wilson, 1958; Barron, 1963a, 1963b; Parnes, Harding, 1962), è invece il secondo paradigma, che l’autore definisce I-paradigm. Questo paradigma pur mantenendo l’individuo come unità di analisi, sostituisce il genio con la persona comune. L’I-paradigm rappresenta in altre parole la “democratizzazione” della creatività (Hulbeck, 1945; Weiner, 2000; Bilton, 2007). A ciascuno è data la possibilità di essere creativo. La creatività non è più caratteristica di pochi eletti, scelti da Dio o selezionati dalla biologia, ma una proprietà comune a tutti gli individui, che deve essere compresa e coltivata. Glăveanu raccoglie all’interno di questo paradigma gli studi psicometrici sui tratti di personalità come pure gli studi cognitivi sui processi (Sternberg, 2003; Barron and Harrington, 1981) e l’idea di creatività legata all’inconscio della tradizione analitica (Freud, 1970; Noppe, 1999).

Tuttavia, è solo con l’ultimo e terzo paradigma che avviene un cambio radicale di prospettiva dall’idea di creatività come qualità individuale e mentale alla visione della stessa come processo sistemico relazionale coinvolgente gli individui e l’ambiente. Il terzo paradigma, chiamato dall’autore We-paradigm porta infatti la dimensione sociale all’interno degli studi sulla creatività e ne abbraccia una visione più olistica e sistemica. 

In breve, We-paradigm mira ambiziosamente a “riportare il sociale” nella teoria della creatività e parte dal presupposto che “la creatività si svolga all’interno di, sia costituita e influenzata da e abbia conseguenze per: il contesto sociale (Glăveanu, 2010, pp. 5-6).

Glăveanu aderisce a quest’ultimo paradigma, contrapponendosi alla riduzione individualista di origine positivista di guardare al fenomeno creativo. Secondo l’autore, infatti esiste una tradizione – seppur frammentata – di teorie che riconoscono la natura sociale e contestuale della creatività come processo situato, distribuito, mediato ed emergente dalle interazioni tra sé e gli altri, sé e l’ambiente (Glăveanu 2010). L’idea dell’autore è dunque quella di provare a definire un modello sistemico che sia in grado di farsi carico della visione socio-culturale della creatività, argomentando come tale definizione debba tener conto del radicamento sociale delle azioni creative nonché della loro relazione con le risorse culturali.

Dai contributi dell’I-paradigm che – come sottolineato da Glăveanu – coincidono con i primi studi psicologici sulla creatività, cercheremo di capire il lento passaggio verso una riflessione capace – in prima battuta – di integrare il contesto come elemento esterno di confronto (psicologia sociale) e successivamente di considerarlo elemento fondante dell’emergenza creativa (We-paradigm).

I-paradigm: gli studi psicometrici e cognitivi sulla creatività

Come sottolineato, I-paradigm coincide per Glăveanu con i primi studi psicologici sulla creatività, che puntano al potenziamento delle prestazioni umane, sfidando la visione romantica dell’immaginario collettivo della creatività come espressione del genio (He-paradigm). Momento chiave nella narrazione di questo scarto storico è il discorso che Joy P. Guilford tiene nel 1950 accettando la presidenza dell’American Psychological Association, nel quale indica la creatività come campo di studio delle scienze psicometriche attribuendole una centralità fino allora non riconosciuta dalle agende programmatiche di studio di altri orientamenti. Studiare e sviluppare la creatività significa, nella visione di Guilford e colleghi, investire nella crescita di leaders dotati di capacità visionaria e talento, con l’obiettivo di rendere il paese più competitivo nel nuovo assetto mondiale post-bellico. Lo sviluppo delle facoltà creative degli individui è considerato determinante per il progresso della società. In quest’ottica due sono i compiti che gli studi sulla creatività devono assolvere: individuare gli autentici talenti creativi del paese e aiutare questi talenti a esprimere pienamente il loro potenziale. Sull’onda dell’agenda programmatica di Guilford, tra gli inizi degli anni cinquanta e la fine dei settanta, la ricerca psicologica statunitense si occupa massicciamente di definire quali siano le caratteristiche prototipiche della persona creativa. 

Emergono essenzialmente due modi di studiare la personalità creativa (Sawyer, 2012): il primo basato sullo studio dei tratti di personalità e il secondo sullo studio delle tipologie di personalità. All’interno di questo tipo di orizzonte la creatività è qualità individuale, dalla natura a-contestuale e astratta, che si sviluppava autonomamente in un individuo considerato proto-tipicamente “dotato”.

Un passo oltre l’impostazione funzionale psicometrica avviene con i successivi studi cognitivi sul processo di creatività. Dopo gli anni settanta diminuiscono notevolmente gli studi sui tratti e sulla personalità creativa, lasciando spazio alla cosiddetta second wave of psychologist (Sawyer, 2012) che comincia a prendere in considerazione la creatività nella sua dimensione cognitiva e processuale (Feldman, Gardner, Csíkszentmihályi, 1994). La psicologia cognitiva si occupa di analizzare i processi mentali degli individui impegnati a svolgere compiti creativi. Al centro della sua indagine ci sono i processi di percezione e di organizzazione delle informazioni implicati nel pensiero creativo (Simonton, 2000). Spiegare la creatività, in questa nuova prospettiva, significa poter dimostrare quali siano e come progrediscano le abilità cognitive del soggetto, implicate all’interno di un problem-solving creativo e come nel processo creativo funzionino percezione, memoria, linguaggio e apprendimento (Mayer 1999, Kaufmann 1988). È interessante notare come centrale e comune ai modelli di stampo cognitivista, sia il momento in cui durante il processo di problem-solving emerge l’insight, l’intuizione mentale che risolve il problema. Il tentativo di spiegare in modo procedurale la sostanza “oggettiva” dei passaggi del processo creativo si scontra infatti con la difficoltà di penetrare lo spazio immateriale della mente umana. Ciò che avviene nella mente dell’individuo rimane, come messo in rilievo da Glăveanu, una black box (Glăveanu, 2014), in ultima analisi un luogo difficile da esplorare.

Gli studi cognitivi tradizionali concepiscono pertanto la creatività come una qualità mentale universale, operandone la democratizzazione. In questo quadro teorico, la creatività è tuttavia un processo che non coinvolge alcuna rete di relazione con altri individui, l’ambiente o i materiali. Secondo questa prospettiva gli individui “funzionano cognitivamente” tutti allo stesso modo a prescindere dalla cultura di appartenenza e dalla situazione concreta con cui si trovano a operare (Ligorio, Cacciamani, 2013). Dovremo attendere le più recenti teorie ecologiche cognitiviste (Neisser, 1978; Cole, Hood, McDermott, 1978) perché questi modelli si amplino verso una prospettiva coinvolgente l’ambiente, oltre la mente dell’individuo.

Dall’I al We-paradigm: la psicologia sociale

Dagli anni ottanta, cominciano a delinearsi tendenze in grado di tracciarsi un quadro differente. Emergono infatti alcune voci che intendono superare l’interpretazione positivista del tema e aprire a modelli di ricerca capaci di mettere in discussione la centralità dell’analisi individuale e a-contestuale della creatività (Friedman, Rogers, 1998). Agli inizi degli anni 80, Teresa Amabile (1982; 1983a; 1983b; Amabile et al., 1986) apre il campo della psicologia sociale della creatività analizzando l’interazione tra fattori sociali, ambientali e caratteristiche cognitive o di personalità dell’individuo creativo. Negli stessi anni Howard Gardner (1988) evidenzia la necessità di coniugare le differenti tradizioni di ricerca che hanno contribuito a fotografare caratteristiche d’individui e processi creativi, per favorire l’emergere di una sintesi che definisca una nuova “scienza della creatività”. Dean Keith Simonton (1978; 1984; 1984b) conduce studi approfonditi sulla relazione tra le caratteristiche del sistema sociale e lo sviluppo del potenziale creativo del soggetto nell’infanzia. Nello stesso periodo, inoltre, Mihály Csíkszentmihályi comincia i suoi studi sulla teoria flusso (1988; 1990) sottolineando la necessità di superare le posizioni cognitiviste secondo le quali il pensiero creativo umano si strutturi secondo uno schema di problem-solving che ricalca le procedure di un computer (1988).

In quegli anni si assiste dunque a un’apertura verso l’influenza di fattori sociali su processi e personalità creative ed emerge altresì l’interesse a studiare la creatività in una dimensione sistemica. Tuttavia in linea generale la ricerca di questi autori rimane saldamente ancorata a presupposti secondo i quali la creatività sia principalmente un processo cognitivo dalla natura individuale influenzato, in seconda battuta, da fattori sociali (Glaveanu, 2010; 2014). Infatti, sia nell’approccio socio-costruttivista (Amabile, 1983b), come pure nell’historiometric approach (Simonton, 1999), i fattori ambientali sono considerati fattori esterni che condizionano, in modo quasi accidentale, il processo creativo cognitivamente inteso. Riferendoci a quel periodo non possiamo quindi ancora parlare di una concezione culturale e sistemica della psicologia della creatività (Glăveanu 2010).

L’unica voce agli inizi degli anni ottanta, che tratta della creatività nella sua dimensione processuale e sistemica è quella dello psicologo Howard Gruber. Parlando della dimensione processuale della creatività, l’autore non fa riferimento al processo cognitivo legato all’insight creativo, ma al processo attraverso il quale si struttura un’azione creativa. Gruber definisce tale strutturazione come dinamica che si organizza attraverso la reciproca interazione degli elementi di un network di azioni all’interno di un contesto (Gruber, 1995).

Gruber apre la strada allo studio sistemico del fenomeno della creatività, proponendo un nuovo modello, che definisce come network enterprise (Gruber, 1988). È all’interno di questo network di attività che si sostanziano i possibili percorsi a disposizione del soggetto che si appresta ad affrontare la sfida della creazione. Il concetto di network enterprise anticipa per certi versi le recenti teorizzazioni degli approcci post-vygotskiani sui “sistemi di attività” (Engeström, Miettinen, Punamäki, 1999) e costituisce un primo collegamento tra lo studio della creatività nell’abito della psicologia sociale con l’approccio socio-culturale che emergerà in seguito. Con questa definizione emergente nella psicologia sociale, la creatività non è più intesa come sola caratteristica personale o processo mentale, ma diventa azione nel mondo. Il grado di universalizzazione nell’impostazione degli studi e dei risultati, come pure le differenze nel dare importanza alla situatedness (l’essere situato) del processo creativo distinguono poi all’interno della psicologia sociale due filoni, uno più cognitivo (Amabile) uno più sociale (Gruber). È evidente quale dei due in questi anni abbia avuto più fortuna.

We-paradigm, per una visione socio culturale della creatività

All’inizio del 2020 Glăveanu pubblica insieme a diciassette altri studiosi/e l’Advancing Creativity Theory and Research: A Socio-cultural Manifesto (Glăveanu et al., 2020) nel quale vengono raccolti i principi dell’approccio socio-culturale sulla creatività.

Dopo dieci anni di ricerca, il Manifesto contribuisce da un lato ad avvalorare le prime proposizioni sulla la prospettiva socio-culturale espressa nello We-paradigm, dall’altro a operare un cambiamento netto e condiviso da molti rispetto alle tendenze maggioritarie degli approcci psicometrici, cognitivi e psico-sociali sulla creatività. La proposta socio-culturale di Glăveanu, ampliata poi nel Manifesto, prende corpo nella convergenza di tradizioni teoriche differenti che, costruiscono un’idea del fenomeno come azione mediata, situata e distribuita. Con i paragrafi seguenti entriamo nel merito di questi diversi approcci per capire come e attraverso il lavoro di quali autrici e autori, si sia sviluppato l’impianto socio-culturale della creatività.

La base vigotskiana

Nell’ambito dello sviluppo del paradigma socio-culturale della creatività una posizione di rilievo è occupata dal lavoro di Vera John-Steiner e Seana Moran. Agli inizi degli anni duemila le autrici indagano la natura processuale della creatività recuperando le riflessioni di Lev Vygotskij sul tema. Per John Steiner e Moran, come per Vygotskij, la creatività non è prodotto o qualità individuale, ma processo che necessita di essere analizzato nel suo divenire, fenomeno che deve essere analizzato in vivo.

Attraverso la rilettura di Vygotskij, le due autrici suggeriscono come la creatività sia un fenomeno intrinsecamente sociale e dalla natura mediata. Per Vygotskij, tutte le funzioni mentali sono prima di tutto esperite socialmente, apprese attraverso l’interazione con gli altri. È all’interno della zona di sviluppo prossimale (Vygotskij, 1978) che il soggetto elabora i suoi processi di costruzione del mondo facendo esperienza di uno spazio potenziale definito secondo ciò che l’individuo è in grado di fare in rapporto all’interazione e all’esempio con l’altro/a. È in quest’area potenziale dove prendono corpo i processi creativi, in una zona permanente di sviluppo prossimale dove le persone imparano, come i bambini durante il gioco (Vygotskii, 1978).

Il gioco non avviene in una dimensione a-contestuale, ma situata e con l’aiuto di strumenti (artefatti) che da un lato mediano l’interazione con il mondo e dall’altro aiutano a dare senso e significato alle azioni. Secondo Moran e John-Steiner tutti sistemi psicologici più raffinati, inclusa la creatività, iniziano come funzioni sociali mediate da strumenti culturali, tra cui il più importante è il linguaggio (Moran, John-Steiner, 2003). Questi artefatti sono connessi alla mente in un unico sistema, che ricompone la dicotomia cartesiana mente-corpo e che permette al soggetto di interpretare la realtà, scoprire soluzioni, creare (Alby, 2014).

Il piano della mediazione operato dagli artefatti consente poi – in questa dimensione congiunta tra mente e pratica – di collegare il mondo e i suoi oggetti materiali ai sistemi simbolici che lo rappresentano. Vygotskij elabora un’idea di mediazione capace di leggere il comportamento umano – l’unità di percezioni, discorsi e azione – come espressione continua del piano simbolico e culturale, distanziandosi dall’osservazione del comportamento operata dal behaviorismo. Lo sguardo vygotskiano sulla creatività, proposto da John-Steiner e Moran, rivisita il tema come un fenomeno dalla natura processuale, intrinsecamente sociale e mediata da artefatti. Questa rilettura costituisce, nell’ambito della psicologia della creatività, un passaggio cruciale.

Inoltre, John-Steiner e Moran sono le prime a sottolineare come per studiare la complessità dei fenomeni creativi sia necessario operare una convergenza e una sintesi dialettica di differenti metodi e linee di ricerca. Per le autrici solo uno sforzo congiunto trans-disciplinare può condurre gli studi sulla creatività fuori dalla deriva fossilizzante espressa dalle ricerche precedenti, con l’obiettivo di restituirne un quadro capace di esprimere le implicazioni del piano socio-culturale. 

Ciò che emerge da questa convergenza è l’idea di utilizzare la ricerca qualitativa ed etnografica per studiare la creatività in azioni situate, siano esse ricerche nel campo della clinica, del lavoro, oppure dell’arte. Un insieme complesso di approcci e linee di ricerca che anticipa la convergenza di risultati espressi in linea programmatica nel Manifesto.

Nella costruzione del suo impianto teorico sulla creatività come fenomeno processuale dalla natura situata, mediata e distribuita Glăveanu recupera la visione vygotskiana di Moran & John-Steiner e la connette con le recenti concettualizzazioni cognitive sistemiche legate alla cognizione distribuita e dell’extended mind. In questo quadro, la creatività non si esplica come facoltà di un individuo o proprietà di un prodotto ma emerge come azione all’interno di una rete di relazioni umane, sociali e materiali.

Dalla distributed cognition alla distributed creativity

Come evidenziato Glăveanu intende la creatività non come attributo che risiede “dentro” la persona o nelle qualità del prodotto, ma come azione distribuita all’interno di reti di collaborazione (Miettinen, 2006; Sawyer, DeZutter, 2009). Il dibattito sulla creatività come azione distribuita fonda le proprie radici negli sviluppi delle scienze cognitive e della filosofia della mente. Dato che storicamente la cognizione è stata considerata come avulsa dai contesti e dal piano culturale (Gardner, 1985), l’idea che la mente umana possa essere “estesa” al mondo e non limitata all’interno di un organismo è piuttosto recente.

Per definire il quadro dei contributi che hanno posto le basi di questo cambiamento, Glăveanu riporta la sintesi di Cash (2013) che riassume le fasi del passaggio a un approccio più ecologico della cognizione e quindi della creatività. Tre sono le principali correnti evidenziate da Cash: la cosiddetta extended mind, l’approccio integrazionista e quello della cognizione distribuita. L’approccio extended mind (Clark, Chalmers, 1998) rifiuta di considerare la mente come qualcosa che stia esclusivamente nei confini fisici e compiono un passo avanti verso una concezione esternalizzata della mente, suscitando spesso reazioni di rifiuto da parte delle correnti cognitive più tradizionali. La seconda teoria, cognitive integrationism, proposta da Menary (2006) cerca di conciliare i due poli del conflitto proponendo la tesi della cosiddetta mente ibrida – the hybrid mind: le risorse esterne a supporto della cognizione non duplicano i processi mentali, ma semmai li completano e li aumentano.

A chiudere il quadro proposto Cash, è infine la teorizzazione di Hutchins, sulla distributed cognition. Secondo questa teoria il piano mentale e quello sociale s’integrano all’interno di un sistema cognitivo più ampio. Attraverso il noto studio etnografico sulla navigazione della nave Palau della Marina Statunitense (Hutchins, 1995), Hutchins mostra come nessun compito possa essere svolto dalle persone in isolamento, ma si svolga sempre in relazione agli altri individui e al mondo materiale, in un complesso processo di coordinazione intersoggettiva. Hutchins amplia l’unità di analisi dei fenomeni cognitivi introducendo la dimensione collettiva. Il lavoro cognitivo si distribuisce tra gli individui, tra gli elementi dell’ambiente materiale e nel tempo (Hutchins 2001). Hutchins (2010) promuove lo studio dei fenomeni cognitivi visti nel loro contesto come parte di modelli dinamici di interrelazione tra elementi organizzati.

Sull’onda della teorizzazione di Hutchins, Sawyer, (2003; et al., 2012), Sawyer e DeZutter (2009) e Glăveanu (2014) sottolineano la connessione tra cognizione distribuita e creatività, proponendo di utilizzare il concetto di distributed creativity. All’interno di questo quadro teorico, Sawyer e DeZutter (2009) riconoscono come la creatività sia parte e corpo di un gruppo sociale e come prodotti creativi siano generati da reti di collaborazione tra persone (Sawyer, 2012; 2014). Concentrandosi sui processi creativi invece che sui prodotti, la creatività distribuita consente di fare tesoro della cognizione distribuita e dalla tradizione delle pratiche sociali situate per descrivere come l’output creativo emerga da un’ecologia situata d’interazioni (Parolin & Pellegrinelli, 2020a).

Glăveanu legge e rafforza la connessione tra distributed cognition e la tradizione della psicologia culturale nella convinzione che l’esperienza umana si definisca attraverso le interazioni con gli altri e con il mondo materiale. L’ambiente socio-culturale, per la psicologia culturale come pure per i recenti approcci della cognizione distribuita, non è semplicemente composto da una serie di variabili esterne al soggetto, ma costituisce un unico sistema con l’individuo. È all’interno di questo sistema che la cultura, il sapere co-costruito e i processi creativi, emergono come outputs di azioni collettive mediate da artefatti (come il linguaggio). La mente emerge nell’attività mediata dalle persone (Cole, 1996).

Dominio, individuo e campo nel modello sistemico di Csíkszentmihályi

Seguendo l’impostazione teorica dell’approccio socio-culturale alla creatività, ciò che possiamo chiamare “creativo”, non sta nell’oggetto e nemmeno risiede esclusivamente nella psiche del creatore, ma è processo sistemico, relazionale e mediato dagli artefatti. Questo fondamentale aspetto relazionale si gioca sia nei processi di produzione creativa che nella loro ricezione. Parte del fenomeno creativo riguarda la natura relazionale e di connessione che la messa in campo dell’artefatto, del prodotto materiale o immateriale, dell’innovazione creativa genera sul piano sociale e culturale. Un modello sistemico esplicativo delle dinamiche implicate in questo discorso, ripreso da Glăveanu nella sua teorizzazione, è il modello DIFI di Csíkszentmihályi.

Agli inizi degli anni novanta, l’autore riconosce la necessità di analizzare il fenomeno attraverso un modello più ampio rispetto a quello intrapsichico, messo in campo dalle scienze cognitive (Csíkszentmihályi, 1988; 1990; 1994; 1997, 1999; 2014).

Nel 1994 Csíkszentmihályi propone un nuovo modello sistemico di analisi del processo di creatività: DIFI, Individual Field Interaction (Csíkszentmihályi 1994). Il modello strutturale DIFI rileva le specificità del dominio della creatività e considera queste specificità come il risultato dell’interazione tra persona, tra il piano culturale detto il “dominio” e quello professionale identificato come “campo”. Il modello si basa quindi sull’interazione di un sistema costituito da tre elementi. Person, è il piano della persona, creatrice e portatrice di novità all’interno dominio creativo specifico nel quale l’azione creativa si esprime. Domain, corrisponde al piano culturale che esprime l’orizzonte simbolico entro cui si sedimentano i significati legati ai pensieri e alle sensazioni collettive emergenti dalla nuova creazione. Come spiegato dall’autore ogni cambiamento per essere creativo deve incidere su questo piano. Per Csíkszentmihályi ciò che chiamiamo creatività implica sempre un cambiamento in un sistema simbolico, un cambiamento che a sua volta influenza il piano culturale. La creatività è quindi il processo mediante il quale un determinato dominio simbolico culturale cambia, implicando di conseguenza trasformazioni sul piano della conoscenza e su quello sociale. Infine, il terzo elemento, identificato nel modello DIFI, è Field, campo professionale specifico in cui prende corpo la creazione e che raccoglie le voci delle/degli esperti che hanno le competenze per riconoscere e convalidare l’elemento d’innovazione.

Le innovazioni di Edison e le scoperte di Einstein non sarebbero mai nate senza una preventiva conoscenza del campo da parte degli scienziati/e, senza la rete intellettuale e sociale che ha stimolato il loro pensiero, e senza i meccanismi sociali che hanno permesso il riconoscimento e la diffusione delle loro innovazioni (Miettinen 2006).

Csíkszentmihályi definisce la creatività come fenomeno coinvolgente il piano simbolico, riconosce la necessità di costruire un modello che sia inter-disciplinare e determina la definitiva svolta sistemica negli studi sulla creatività. Pur partendo da una prospettiva cognitivista classica, le sue teorie si riconnettono in ultima analisi ad alcuni dei concetti cardine degli approcci post-vigotskiani. Come sottolineato da Rejo Miettinen la teoria di Csíkszentmihályi non è lontana da concetto di apprendimento e zona prossimale di Vygotskji: il punto iniziale di ogni opera creativa sono le risorse culturali esistenti di uno specifico domino a cui la creatrice attinge (Miettinen, 2006).

Questioni aperte 

Come abbiamo più volte evidenziato nel contributo, questa visione è capace di restituire alla creatività il suo potenziale di forza connettiva tra elementi eterogenei umani e non-umani. Tuttavia il percorso della creatività in chiave socio-culturale è appena iniziato e richiede successive ricerche e sviluppi. Evidenzio qui due macro-aspetti che varrebbe la pena di approfondire.

Il primo riguarda la precisazione della questione metodologica. Né nel Manifesto, né nella produzione di Glăveanu, infatti ci sono indicazioni metodologiche chiare sulla ricerca empirica. Partendo dalla considerazione condivisa che la creatività sia un processo e non un prodotto o una caratteristica dell’individuo, è necessario capire quali possano essere gli strumenti adatti a indagarla. Nel Manifesto, per esempio, s’invita ad affiancare alla ricerca quantitativa quella qualitativa, circostanziando meglio l’uso dei dati quantitativi in modo da considerare l’influenza delle variabili ambientali sulla ricerca. Questa indicazione metodologica è molto generica e sembra piuttosto mutuata dalla psicologia sociale che dalla prospettiva socio-culturale sulla creatività. Questo tipo di precisazione metodologica rende evidente come alcuni metodi qualitativi fondamentali per scienze sociali e utili nel rendere conto degli aspetti processuali di un fenomeno, non siano ancora ben penetrati in questo tipo di letteratura. Penso in primo luogo all’etnografia nei luoghi di lavoro e produzione, come ad altri metodi recentemente emersi dallo studio delle pratiche e Studi sulla Scienza. Credo che la connessione con queste tradizioni di ricerca sociologica possa migliorare molto gli studi sulla creatività in chiave socio-culturale, come pure un focus sull’emergenza creativa all’interno delle letterature STS (Science technology Studies) e delle pratiche, evidenziato anche da Miettien (2006) possa arricchirne la prospettiva. Come sottolineato all’inizio dell’articolo si tratta di restituire al concetto di creatività la forza propulsiva e processuale che le pertiene capace di leggere contestualmente come la novità emerga.

Il secondo aspetto riguarda la questione della materialità nel processo creativo. Nel delineare il quadro concettuale della creatività distribuita, Glăveanu riconosce del tema della materialità come centrale: il lavoro creativo si ancora infatti alla fisicità del mondo. Per Glăveanu è dunque necessario partire dalla comprensione della dimensione di co-costruzione che si gioca tra individuo e oggetto per comprendere il ruolo della materialità nell’azione creativa. A questo riguardo l’autore ritiene centrale la teoria sulle affordances (Gibson 1986), potenzialità dell’azione iscritte nell’ambiente e che il creatore ha a disposizione. Tali affordances non si radicano nella persona o negli oggetti dell’ambiente, ma nella loro reciproca relazione. Pertanto, per comprendere il ruolo giocato dalla materialità nell’azione creativa, è necessario osservare la dinamica della relazione che prende corpo tra creatore e materia. Tuttavia, in che modo esattamente la materialità giochi un ruolo determinante nel processo creativo, rimane per Glăveanu ancora in gran parte non discusso (Glăveanu 2014). 

Per rispondere a questa domanda, in un recente contributo Laura Lucia Parolin e Carmen Pellegrinelli hanno messo in evidenza come le pratiche creative siano costituite da intermediari che devono essere presi in considerazione nell’analisi dello sviluppo dell’idea creativa (Parolin & Pellegrinelli, 2020b). Per le autrici, le pratiche creative sociomateriali costituiscono il “laboratorio creativo”, il luogo potenziale dove artefatti materiali, corpi, concetti vengono testati ed esplorati e dove emerge la creazione di significato collettivamente e discorsivamente costruita. Studiare la creatività distribuita richiede quindi l’osservazione empirica dei processi momento per momento in cui le azioni e le interazioni situate tra umani e non-umani determinano l’emergere di una nuova opera. Infine, tali considerazioni – in connessione con STS, gli Studio Studies (Farias, Wilkie, 2016) e la Nuova Sociologia dell’Arte (De la Fuente 2007; De Nora 2003; Hennion 1997; 2015; Mattozzi & Parolin, 2020; Pellegrinelli & Parolin forthcoming) – possono rappresentare un punto di partenza per affrontare la richiesta formulata dalla psicologia culturale della creatività riguardo a come rendere conto della dimensione sociomateriale situata della creatività distribuita.

Conclusioni

La concettualizzazione socio-culturale proposta da Glăveanu, emergente dalla convergenza delle teorie che abbiamo illustrato e condivisa dalle autrici/autori del Manifesto esprime un’idea della creatività come:

  • un processo/azione e non un prodotto o una caratteristica personale, la cui natura sistemica si sostanzia nella dimensione dialogica della relazione;
  • un fenomeno mediato dalle risorse materiali e simboliche implicate nelle azioni creative; 
  • una serie di pratiche che si sviluppano sempre in una dimensione situata;
  • un corpo azioni dalla natura distribuita tra più attori sociali; 
  • una manifestazione sociale che contribuisce ad arricchire il piano culturale. 

L’obiettivo di questa rassegna è stato quello di fornire un quadro generale dello sviluppo del dibattito sul tema della creatività in chiave socio-culturale e di potenziare le basi teoriche della comprensione dei processi creativi in termini sistemici, in dialogo con altre discipline. Seguendo la proposta di Glăveanu, il contributo traccia le linee del dialogo transdisciplinare per una nuova concettualizzazione della creatività capace di conto degli aspetti processuali e contestuali dei fenomeni creativi.

Il contributo delle tradizioni di ricerca della sociologia culturale di origine vygotskiana ha messo in luce la necessità di considerare l’ambiente socio-culturale come luogo di co-costruzione ed emergenza dei processi creativi, in un sistema congiunto tra creatore/creatrice e gli strumenti di mediazione. L’influenza della terza ondata degli studi sulla cognizione distribuita ha mostrato, al contempo, quanto sia necessario ripensare all’azione creativa come atto all’interno di un complesso sistema di coordinazione collettiva, piuttosto che individuale. Il modello di Csíkszentmihályi ha infine contribuito a spiegare come grazie alle azioni creative un determinato dominio simbolico culturale cambi, implicando di conseguenza trasformazioni sul piano della conoscenza e su quello sociale.

La creatività non corrisponde solo a tratti personali o a qualcosa che accade nella mente di un individuo, ma è concepita come un processo (Sawyer, 2012; 2014), un fenomeno distribuito tra persone, oggetti e luoghi; un’attività che è da considerarsi embodied, embedded, enacted, extended e distributed (Rowlands, 2010).

Come questa breve rassegna ha cercato di mostrare, gli studiosi e le studiose interessati al tema della creatività possono oggi rivolgersi a nuove concettualizzazioni e strumenti d’indagine oltre a quelli legati al paradigma cognitivo o della psicologia sociale. Ci auguriamo dunque che le Scienze Psicologiche siano in grado di creare spazio per una concettualizzazione della creatività socio-culturale capace di portare nuovi contributi alla comprensione dei processi creativi all’interno dei diversi contesti di studio.

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