Recensione: “Coco”

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Regia: Lee Unkrich e Adrian Molina
Pixar Animation Studios, 2017

Film visto da Igino Bozzetto

Brevemente, la trama.
Miguel Rivera, dodici anni, messicano di Santa Cecilia, è un aspirante musicista con il sogno di diventare bravo come il suo mito Ernesto de la Cruz.
Ma…
Abuelita, nonna materna, impedisce a ogni membro della famiglia di dedicarsi alla musica a causa di un antico trauma familiare: Imelda, la sua nonna materna, madre di una bambina di nome Coco, fu abbandonata dal marito che le lasciò per seguire la carriera e non fece più ritorno.
Miguel deve rimanere fedele al mito familiare: forza e determinazione nel portare avanti l’attività di famiglia iniziata da Imelda, un calzaturificio.
Durante la preparazione del dìa de los muertos, il ragazzo casualmente scopre in una delle foto dell’ofrenda che il marito di Imelda, al quale è stato strappato il volto, tiene in mano la chitarra conservata nel mausoleo di Ernesto de la Cruz e pertanto si convince di esserne il pro-pronipote.
Decide pertanto di seguire il motto del musicista, “cogli l’attimo”, e annuncia a tutti che parteciperà ad una gara musicale provocando la reazione contrariata di tutta la famiglia. Abuelita sfascia la chitarra artigianale che Miguel si era costruito impedendogli di partecipare all’evento.
Il ragazzo ci resta male, molto male.
Scappa e, trasgredendo alle regole, entra di soppiatto nel mausoleo in cui si conserva la chitarra del de la Cruz. Imbracciatala, la suona e si trasforma: vede i vivi ma non è visto da loro, vede i morti – che visitano i vivi al camposanto nel dìa de los muertos – i quali invece lo vedono.
L’unico essere vivente che lo vede è il suo amico cane (Dante!) che lo accompagna nel viaggio nell’Aldilà dove incontra le anime dei suoi antenati.
Essere in quella dimensione lo mette però in una situazione pericolosa: il suo corpo comincia a schelettrizzarsi e solo una benedizione di un familiare, una calendula, lo farà tornare nel regno dei vivi. Per questo motivo la trisnonna Imelda offre d’aiutarlo a patto però che resti fedele all’ingiunzione mitica: “Per tutta la tua vita non dovrai suonare né cantare!”
Miguel rifiuta e nuovamente scappa.
Durante la fuga incontra lo spirito di Hector che lo aiuta nella ricerca di Ernesto de la Cruz in cambio della promessa di portare una sua foto nell’ofrenda della propria famiglia per non essere dimenticato e poter andare a visitare i vivi nel dìa de los muertos. L’aiuto consiste nel recuperare una chitarra per partecipare a una gara musicale che ha come premio l’invito a casa del Mito musicista, ma Hector si arrabbia con il ragazzo quando viene a sapere che potrebbe tornarsene subito nel regno dei vivi grazie appunto alla benedizione del familiare.
Miguel scioglie il legame con chi lo stava aiutando e rimane nella affascinante relazione con Ernesto il quale lo “adotta” e si assume il compito di dargli la sua benedizione; l’azione viene bloccata dall’irruzione di Hector che accusa il grande musicista di avergli rubato le canzoni dopo la sua morte. Ernesto li fa gettare entrambi in una cernote (grotta) e, lì rinchiusi, Hector confida a Miguel di voler ritornare nel mondo dei vivi per rivedere la sua bambina Coco facendo capire al ragazzo chi è il suo vero trisavolo.
La famiglia degli antenati, rintracciatolo con l’aiuto di un allebrije, una guida spirituale dall’aspetto di una pantera volante, rispedisce Miguel a Santa Cecilia nella famiglia dei vivi senza porre condizioni.
Tornato, il ragazzo prende la chitarra di Hector dal mausoleo e canta “Ricordami”, canzone composta dal padre per Coco, la quale finalmente ricorda condividendo le memorie e consegnando un pezzo di foto che ritrae il padre.
Miguel si riconcilia con la sua propria famiglia che accetta il suo sogno di diventare musicista.
A parte che è un film bello, colorato, musicale, fantastico, divertente, emozionante, caldo, “Coco” è un racconto che permette di fare alcune riflessioni a proposito del “sistema famiglia” e, tra le molteplici possibilità di lettura ne ho scelto tre: la memoria familiare “sistemica”, le costellazioni familiari e i modelli di costruzione del sintomo e loro mantenimento.
Ognuno di questi tre pregiudizi 1 è collegato ad alcune aeree tematiche della terapia sistemica familiare sulle quali fin dagli anni cinquanta del secolo scorso sono stati scritti libri e articoli.
Per quanto riguarda il tema delle costellazioni familiari ho fatto riferimento all’articolo di Arcelloni, Cecchin, Gaspari (2001): “Lavorare con i grandi gruppi: La terapia sistemica di Bert Hellinger”. La lettura di un capitolo dell’avito libro Paradosso e controparadosso (Selvini Palazzoli, Boscolo, Cecchin, Prata, 1975) mi ha permesso di affrontare il tema del sintomo nella famiglia e infine la memoria familiare sistemica l’ho trattata attraverso le sollecitazioni del libro di Laura Formenti Pedagogia della famiglia (2000).

Le costellazioni familiari

Nessun terapeuta che si interessi di storie familiari può mostrare indifferenza (pur con qualche dubbio come il sottoscritto) alla proposta di Bert Hellinger di intervenire sulle dinamiche familiari senza la necessità di vedere la famiglia ma lavorando con alcuni partecipanti ai suoi gruppi e con i restanti “spettatori”. La tecnica è sostanzialmente analoga a quella della scultura familiare utilizzata da Virginia Satir fin dagli anni Sessanta: all’inizio colui che ha scelto di affrontare un suo problema, il narratore, rappresenta attraverso la scultura la propria famiglia ed è a lui che Hellinger si rivolge chiedendo poche informazioni come per esempio quanti figli ha, se c’è stato qualche lutto improvviso o precoce, qualche persona esclusa, se un genitore ha avuto una precedente relazione importante, ritenendo più utile cogliere ciò che le persone “sentono” e non ciò che raccontano. In base a questi pochi dati, decide quali persone comporranno la costellazione familiare e chiede al narratore di scegliere tra il pubblico coloro i quali rappresenteranno la famiglia e se stesso e di posizionarli per come li sente nella sua mente, in quel momento. Il narratore viene di seguito messo nella posizione di osservatore ed Hellinger interagisce con i membri familiari chiedendo come si sentono, riposizionandoli e includendo nuovi personaggi alla ricerca di una buona soluzione. “…Chiama costellazioni familiari le sue sculture per sottolineare l’interattività delle posizioni dei partecipanti che, come in un firmamento, sono in una relazione reciprocamente dinamica” (Arcelloni, Cecchin, Gaspari, 2001, pag. 146). Nell’ultima parte del lavoro il narratore è invitato a mettersi al posto del suo rappresentante e “spinto a movimenti di avvicinamento e riconciliazione con familiari viventi o deceduti, nella ricerca di riparazione a fratture portate da fraintendimenti passati che hanno causato dolore attraverso le generazioni” (ibidem,pag.146).
Essendo io cresciuto allattandomi alle mammelle di Cecchin e Boscolo, ho sviluppato un attaccamento sicuro al concetto che un terapeuta non deve essere né un esperto, né un insegnante, né un moralista per cui mi risuona idiosincratico “il modo di agire di Hellinger (quando afferma che) […] il suo scopo è la ricerca di una buona soluzione che si caratterizza attraverso il riconoscimento di valori […] fondanti le relazioni umane: la lealtà nei confronti della stirpe, il rispetto dei legami parentali di una famiglia gerarchica e con ruoli ben definiti” (ibidem,pag.149).
Vorrei però approfittare delle considerazioni fatte dagli autori a proposito di un aspetto sottolineato dal guru relativamente al concetto di coscienza individuale e collettiva: “Il primo fine della coscienza individuale è di legarci alla nostra famiglia. Quindi ci sentiamo innocenti se ci comportiamo in modo tale che la nostra appartenenza alla famiglia sia assicurata, se facciamo qualcosa che mette in pericolo la nostra appartenenza alla famiglia allora non abbiamo la coscienza a posto, abbiamo la coscienza sporca. La coscienza sporca dà fastidio perché ci tocca cambiare il nostro comportamento per potere di nuovo appartenere alla nostra famiglia. Questa è la funzione della nostra coscienza! Non ci dice che cosa è bene e che cosa è male, ma che cosa è bene o male in relazione alla nostra famiglia” (ibidem, pag. 149).
Della coscienza collettiva non siamo del tutto consapevoli. Essa segue una regola:

“prima di tutto nessuno deve essere perso, nessuno deve essere escluso in questa famiglia o dimenticato, se qualcuno viene escluso o dimenticato, un altro membro della generazione seguente viene preso da questa coscienza per rappresentare chi lo ha preceduto” (ibidem, pag. 150).

Per questo si deve andare alla ricerca di quel personaggio più ‘perso o escluso’, mai nato o morto precocemente, espulso o scappato, traditore o pavido, comunque qualcuno che ha lasciato un vuoto, e “la rappresentazione di questo ‘morto’ nella costellazione colma in modo tangibile il vuoto: rende giustizia all’assente costruendo una storia ricca di emozioni in cui chi era stato dimenticato ora esiste” (ibidem,pag. 150).
All’inizio del film i festoni stesi tra le strade per festeggiare il dìa de los muertos raccontano la storia familiare: molto tempo prima nella famiglia composta da un padre, la madre Imelda e la figlia Coco, l’uomo, spinto dal sogno di diventare un grande musicista, parte con la sua chitarra e non fa più ritorno. Imelda dopo un lungo periodo di attesa, si rimbocca le maniche e impara a fabbricare scarpe, insegna il mestiere alla figlia e in seguito anche al genero, ai nipoti e così via, facendo crescere sia la famiglia che gli affari. La musica ha lacerato la famiglia ma le scarpe l’hanno unita e ogni anno, nel dìa de los muertosla storia viene ripetuta a tutti i componenti. La nonna Abuelita è la feroce e al contempo amabile custode dell’ingiunzione originaria: “Niente musica in questa casa!” e deve tenere a bada il desiderio del nipote Miguel di diventare come il più grande musicista di tutti i tempi, il mitico Ernesto de la Cruz. E’ uno scontro titanico tra coscienze individuali, quella di Miguel che per seguire la sua passione mette a rischio l’appartenza alla famiglia, quella rappresentata dalla nonna attraverso il compito di proteggere i membri della famiglia da esperienze rischiose ben conosciute e infine quella collettiva per cui, se c’è stato nel tempo un escluso, quel qualcuno viene rappresentato da un membro della generazione attuale.
Come si può non ricordare un altro film, L’attimo fuggente, nel momento in cui Neil, consigliato dal professor Keating, decide di iscriversi ad un corso di teatro sfidando il parere contrario del padre che lo vuo le medico. Si sa poi come è andata: durante la serata di debutto dello spettacolo il padre fa una scenata al figlio annunciandogli di volerlo iscrivere a una scuola militare mettendolo in una situazione di indecidibilità che lo porterà al suicidio.
Oppure si può ricordare la storia della famiglia di Gregory Bateson: quando John, il primogenito prediletto, muore durante la prima guerra mondiale, comincia un lungo e doloroso contrasto tra il secondogenito Martin e il padre che, ostacolando le fantasie di diventare poeta e drammaturgo, cerca di imporgli di prendere il posto del fratello maggiore finché nel 1922 Martin si toglie la vita scegliendo la stessa ora e stesso giorno della nascita di John.
A me è capitato di avere in terapia una famiglia-azienda del Nord-Est che chiedeva aiuto per l’ultimogenito fortemente confuso e bloccato in casa. Durante la ricostruziomne storica delle loro famiglie d’origine avevo chiesto che individuassero il motto che li rappresentava: “Sèmo bèi se ghèmo i schèi (siamo belli se abbiamo i soldi)!” scrissero nella bandieruola del loro scudo araldico facendomi tremare le budella. Ma quella frase significava il riscatto sociale che la famiglia aveva ottenuto passando da uno stato di povertà ad uno di benessere. Ciò giustificava l’accanimento nei confronti del figlio più piccolo che non aveva intenzione di entrare nell’azienda come avevano già fatto gli altri due fratelli ma intendeva inconcepibilmente studiare lettere moderne.
Miguel attratto da un particolare della foto della famiglia di Coco – la chitarra dell’innominabile musicista – si convince che è il suo trisavolo e, in base a questa nuova appartenenza, sceglie lo scontro con il vincolo familiare aiutato dal motto del suo proprio mito ora pensato come un familiare: “Cogliere il sogno, stringerlo forte e trasformarlo… Basta nascondersi, devo cogliere il mio momento”. Ed è subito una disfatta: quando il nipote dichiara che parteciperà al torneo musicale del paese, la nonna gli distrugge la chitarra, i dischi e le videocassette custodite in gran segreto: “Tu non finirai come quell’uomo che è fuori dall’ofrendadi famiglia!”
“Non mi interessa niente dell’ofrenda! Non la voglio più questa famiglia!” E scappa.
Per la maggior parte dei miei coetanei che hanno o hanno avuto dei figli adolescenti a prima vista questa situazione potrebbe apparire una routinaria scaramuccia familiare ma per Miguel diventa una questione di vita o di morte, di appartenenza o di esclusione così intensa che “il nostro sistema nervoso quando è in una situazione in cui non riesce a risolvere un dilemma relazionale, si carica di tensione elettrica fin a raggiungere ciò che si chiama ‘carico allostatico’, una tensione che le reti neuronali non riescono a sopportare. A quel punto si attivano meccanismi dissociativi i quali attivano a loro volta reti collaterali a quella sottoposta allo sforzo ma che fanno un’elaborazione per analogia che non è più coerente con l’equilibrio tra il cervello emozionale e la corteccia prefrontale ma utile a scaricare la tensione” (Mosconi, 2017, comunicazione personale).
Tutto ciò succede a Miguel quando si impossessa della chitarra del de la Cruz e si trasforma in un essere a metà tra il vivo e il morto facendo entrare nella costellazione i personaggi delle generazioni precedenti, con le loro caratteristiche e ruoli, vizi e virtù i quali , nel tentativo di salvarlo, lo aiutano a svelare il segreto: non è Ernesto de la Cruz il suo trisavolo bensì Hector, il compagno di avventura nell’aldilà, che desiderava tornare dai suoi cari ma fu ammazzato proprio da Ernesto per rubargli le canzoni che quest’ultimo non sapeva comporre. Ecco che l’escluso, il farabutto, l’innominabile entra nella costellazione e tutto ritrova un significato accettabile: Miguel canta a Coco la canzone che Hector aveva composto per lei – Ricordami– e la vecchietta ricorda il padre e mostra a tutti il pezzo strappato dalla foto di famiglia permettendogli di ricollegarsi con i morti e nel dìa de los muertosanche con i vivi.

Il sintomo e la storia trigenerazionale

Il nono capitolo del libro Paradosso e controparadosso– il vangelo secondo Selvini, Boscolo, Cecchin e Prata se consideriamo Bibbia Verso un ecologia della mente– descrive un rito contro un mito letale, “perché tale rito fu anche teso allo scopo di far cadere un mito alla cui costruzione avevano collaborato tre generazioni” (Selvini et al., 1975, pag. 93).
Gli autori raccontano la storia della famiglia Casanti che inizia nei primi anni del Novecento. Sono dei mezzadri in una zona depressa dell’Italia Centrale; il “capoccia” è un indefesso lavoratore dal pugno di ferro e la moglie una grande lavoratrice e una donna parsimoniosa, convinta che le femmine debbano solo servire, partorire, allevare e rimanere sottomesse agli uomini. Da loro nascono cinque figli maschi che, dopo aver imparato a leggere e a scrivere, saranno completamente assorbiti dal lavoro dei campi: sgobbare e restare uniti. Nessuna alternativa possibile: andarsene significa perdere l’appoggio e la solidarietà del gruppo. I maschi dovranno sposarsi in ordine all’età e le nuore essere approvate dal capofamiglia e sottomesse ad un regime simile a quello militare. Un evento esterno, la seconda guerra mondiale, sparpaglia i maschi e in modo particolare permette a Siro, l’ultimogenito, di vivere per 5 anni fuori dalla famiglia facendosi un’istruzione e la patente del camion. Con molte difficoltà ritorna ad aiutare la famiglia nei campi e il padre gli impone di sposarsi; c’era bisogno di braccia nuove in cucina. Siro rintraccia Pia, “una sartina graziosa”, che per la mitezza e obbedienza sarà accettata dalla famiglia Casanti. Le trasformazioni sociali mettono in subbuglio il clan ma il mito familiare resiste: “Non c’è famiglia in tutta la regione che va d’accordo come i Casanti, una così grande famiglia, dove tutti si vogliono bene, senza mai un litigio uno screzio, un pettegolezzo (ibidem, pag. 96)”. Alla saldezza del mito concorre anche Pia, la santa, che partorisce “sfortunatamente” due femmine, Leda e Nora, allevate alla pari con gli altri nipoti.
“La sopravvivenza, la sicurezza, la dignità dei singoli, dipendono dalla famiglia. Chi se ne separa è perduto […]. Noi restiamo una famiglia modello, all’antica, dove tutti stanno assieme e si vogliono bene” (ibidem, pag. 97) è la risposta che i Casanti danno alle profonde trasformazioni della società italiana che si industrializza.

“Il mito […] è un fenomeno sistemico […] che entra in funzione ogni volta che le relazioni familiari entrano in un punto di rottura, disintegrazione, caos. Inoltre […] rappresenta un distacco di gruppo dalla realtà, distacco che potremmo già chiamare ‘patologia’” (ibidem, pag. 98).

Il mito dei Casanti resiste anche al cambiamento di lavoro (ditta di fornitura e trasporto di materiale edilizio) e di abitazione (dalla campagna alla città) ma deve irrigidirsi per essere condiviso anche dalla terza generazione, i cugini, che sono considerati veri fratelli e tutti insieme devono obbedire all’ingiunzione che proibisce di provare invidia, rancore o spirito di competizione.
Nora a tredici anni si trasforma in una bellissima ragazza (il padre ne è orgoglioso) ma non accetta volentieri le proposte di divertimento fattele dagli altri cugini, è triste e peggiora il suo rendimento scolastico. A 14 anni riduce l’alimentazione e diventa uno scheletro. A 15 anni, dopo aver abbandonato la scuola, avuto tre ricoveri ed essere entrata in psicoterapia individuale, Nora pesa 33 chili e ha un comportamento psicotico. La prima parte della terapia familiare dura 9 sedute con remissione del sintomo ma con molti dubbi dei terapeuti su un cambiamento delle premesse familiari e in modo particolare la resistente presenza di una ridondanza: “ogni volta che un membro della famiglia, apparentemente alleato con i terapeuti, criticava il clan, c’era sempre un altro membro pronto a minimizzare e a squalificare, o a far scivolare il discorso su argomenti marginali” (ibidem, pag. 100).
Il mese dopo la telefonata del padre ai terapeuti per un aggiornamento della situazione, Nora tenta gravemente il suicidio e viene ricoverata in rianimazione. Nella seduta successiva alle dimissioni dall’ospedale, la famiglia offre informazioni importanti: il padre dice che i suoi fratelli si erano opposti alla ripresa delle sedute e la sorella Leda rivela che il dramma di Nora può avere a che fare con la cugina e la zia. Subito però i genitori difendono i parenti descrivendone le doti di pazienza e accoglienza. In questa confusione anche Nora mette in dubbio la propria percezione della malignità della cugina.
Sfruttando la drammaticità del momento i teraputi prescrivono un rituale preceduto dalla preoccupazione per il vedere affiorare ostilità verso il clan che mette in pericolo l’accordo necessario per il bene di tutti.
“Nelle due settimane che precedevano la seduta successiva essi avrebbero dovuto, in ogni sera dei giorni dispari, dopo la cena, sprangare la porta di casa. I quattro membri della famiglia dovevano prendere posto intorno al tavolo da pranzo, sgombrato di ogni oggetto. Al centro doveva essere messa una sveglia. Ogni membro della famiglia, a turno e per ordine di età, aveva a disposizione 15 minuti per parlare. Ognuno era tenuto ad esprimere i propri sentimenti, impressioni, osservazioni, riguardanti comportamenti di membri del clan. Chi non avesse avuto nulla da dire doveva restare in silenzio per il tempo a lui assegnato, così come il resto della famiglia. Quando invece uno parlava, tutti dovevano ascoltare. Era assolutamente vietato qualsiasi commento, gesto, espressione mimica, interruzione. Era pure assolutamente vietato riprendere l’argomento al di fuori dell’ora fissata. Tutto doveva limitarsi alla riunione serale, ritualmente strutturata. Nei riguardi dei membri del clan era prescritto un raddoppio di cortesie e di servizi” (ibidem, pag. 104-105).
Seguito alla lettera il rituale la famiglia cambia profondamente.
Nel film Miguel entra in una dimensione che lo ricollega alle storie familiari attraverso un sintomo, la sua scheletrificazione che non lo fa più appartenere al mondo dei vivi. Si potrebbe definirlo un circuito riflessivo bizzarro in cui se appartiene alla famiglia obbedendo all’ingiunzione muore una parte di sé che sente vitale e se appartiene alla propria parte vitale (suonare e cantare) muore la sicurezza che passa attraverso l’appartenenza alla famiglia. Facile pensare al dramma psicotico, allo scomparire delle funzioni “vitali”, all’irrigidimento dei pensieri e delle emozioni e al fiorire di scenari angosciosi. Così il ragazzo viene travolto da storie di relazioni, di miti infranti, di segreti svelati, di abbandoni e ricongiunzioni, di chiarificazioni e vincoli, di speranze e delusioni. Alla fine un rituale metterà ordine: con la chitarra del suo trisavolo canta alla bisnonna Coco la canzone Ricordami che Hector aveva composto per lei e che ogni sera le cantava, facendola risvegliare dal torpore che la stava accompagnando alla morte, sollecitandola a cantare assieme al pronipote, e ricordando a tutta la famiglia riunita ad assistere l’evento quanto ancora ricordasse e amasse il proprio padre. Miguel torna a vivere, a sentirsi appartenere alla famiglia e a poter proseguire ciò che il trisavolo aveva iniziato: suonare e cantare liberando tutti dall’ingiunzione iniziale.

La memoria familiare: tempi, leggende, segreti

“La memoria familiare è quella struttura sovraindividuale, a rete, fortemente ridondante, che garantisce la perpetuazione di comportamenti, linguaggi, significati condivisi” (Formenti, 2000).
A partire dagli anni Ottanta, molti autori sistemici – White ed Epston, Bruner, Hoffman, Anderson, Sluzki – hanno abbracciato il paradigma narrativo “identificando nelle conversazioni e nelle pratiche discorsive tra gli attori quel processo costitutivo e inarrestabile di co-creazione della realtà grazie al quale si afferma e si elabora continuamente non solo l’identità del sistema familiare ma quella dei suoi membri”, con l’obiettivo terapeutico di permettere al paziente di modificare la propria esperienza del mondo attraverso la rivisitazione delle sue descrizioni e narrazioni.
Il pensiero narrativo è pertanto la struttura attraverso cui la memoria familiare tramanda “interi sistemi di conoscenze, rappresentazioni del mondo, valori, teorie condivise, compresa la rappresentazione di sé come famiglia. […] La famiglia è raccontata dai suoi componenti, che definiscono nel tempo, attraverso relazioni e conversazioni significative, i confini del sistema familiare (le appartenenze, le acquisizioni, le fuoriuscite…), la sua struttura (alleanze, coalizioni, ruoli, vincoli…), addirittura la sua identità” (ibidem, pag. 70-71).
Nell’affrontare la propria morfogenesi, il sistema familiare deve coordinare due funzioni: la generazione degli adulti ha il compito di trasmettere il lessico familiare, l’identità e i valori condivisi attraverso il racconto di ciò che si è stati, di ciò che si è sperimentato e capito nella vita, mentre le nuove generazioni hanno il compito di collegare il sistema a ciò che è e a ciò che sarà, a rimenere curioso dell’ambiente.
Un aneddoto relativo alla mia famiglia permette di esemplificare il concetto.
Mio padre tornò in Italia dalla prigionia in Germania nel giugno del 1945 dopo due mesi di avventuroso pellegrinaggio e quando noi fratelli eravamo bambini, durante il pranzo domenicale, raccontava i particolari del suo viaggio di ritorno che accendevano la nostra fantasia e ci chiamavano a vedere la vita come una possibilità di trovare sempre una soluzione anche nei momenti più difficili. È stata un’attività che è durata per tutta la sua vita, fino a pochi giorni prima di morire, verso la quale mi sono nel tempo posto in modi differenti: affascinato da bambino, annoiato da adolescente, gratificato dalla curiosità che vedevo negli occhi dei miei figli e infine abbracciato dalla nostalgia nell’ultima parte della sua vita. Ma anche noi figli abbiamo contribuito ad una evoluzione che riesco a situare in un momento preciso: l’invito ad andare tutti insieme a vedere il film La tregua, tratto dall’omonimo libro di Primo Levi. Ricordo perfettamente che all’uscita dal cinema disse “Orca! Duro però!” e che dalla domenica successiva fiorirono ricordi che prima erano rimasti sullo sfondo di un oblio più o meno selezionato, come per esempio l’ammissione di avere conosciuto anche “biblicamente” la rossa tedesca che lo aveva ospitato e sfamato assieme ai suoi commilitoni per una intera settimana.
Copioni, miti e paradigmi sono pertanto i meccanismi attraverso cui la memoria svolge le sue funzioni anche se nel tempo hanno subìto dei cambiamenti di significato; ad esempio il mito, che inizialmente con Ferreira aveva un’accezione patologica, una sorta di meccanismo di difesa familiare con funzione omeostatica (divieto di metacomunicare, di problematizzare) ha assunto nel tempo una funzione morfogenetica utile a garantire l’identità familiare nelle transizioni da una fase all’altra. Miti pertanto possono essere considerate “tutte quelle storie familiari che, pur senza essere necessariamente disfunzionali o distorte, assumono quel carattere di intoccabilità” (ibidem, pag. 78-79).
Il mito della famiglia di Coco, los zapateros Rivera,si può riassumere in una frase: “La musica ha lacerato la famiglia ma le scarpe l’hanno unita”. Un fatto occasionale – la trisavola Imelda comincia a costruire un paio di scarpe per reagire e sopravvivere all’abbandono del marito – diventa un insegnamento del mestiere alla figlia Coco e questa attività si slega sempre più dal fatto originario per assumere un senso più generale nel presente: una situazione familiare difficile viene risolta in un certo modo e diventa un modello per tutti. E tutto ciò diventa un paradigma,quel “complesso di presupposti, immagini reali o ideali, rappresentazioni, concetti, che coincide con la visione complessiva del mondo e di sé” (ibidem,pag. 79). Utilizzando le lenti di Reiss (citato in Formenti, 2000), potremmo descrivere la famiglia di Miguel configurata in modo ordinato e controllabile con competenze di controllo e gestione degli eventi al proprio interno, altamente coesa – salvare il sistema a scapito delle individualità – e, rispetto all’esterno, tendente a cogliere e a mettere in rilievo solo ciò che è riconoscibile e noto privilegiando la continuità con il passato. Sembra essere una famiglia orientata al consenso, in cui c’è ricerca di vicinanza, unione accordo e contrarietà al dissenso mentre il mondo in alcuni suoi aspetti, viene visto come caotico e pericoloso, in modo particolare tutto ciò che è legato alla musica. La crisi innescata da Miguel permette di far emergere un sistema famiglia resistente al cambiamento. Se “la memoria familiare è quindi una sorta di mosaico nel quale ognuno inserisce le proprie tessere e i propri colori, ricordando ciò che vuole e ciò che può” (ibidem, pag. 83), il ragazzo elabora una propria versione della storia familiare: lui è il discendente che incarna il mito della musica al quale tutta la famiglia oppone la storia di continuità attraverso la memoria refenziale (i valori che noi adulti ti trasmettiamo sono l’unico riferimento per la tua crescita), la memoria relazionale (devi partecipare ai rituali che rinforzano la coesione) e l’oblio (ci sono fatti che hanno determinato il corso della nostra storia ma sappi che su di essi non si può parlare).
La memoria familiare è un artefatto condiviso che influenza il senso di appartenenza attarverso dei segni chiari: il lessico, i gesti quotidiani, l’uso dello spazio, delle abitudini, degli oggetti simbolici tramandati da una generazione all’altra.
“Il materiale da costruzione intorno a cui si articolano le azioni e le narrazioni della famiglia può essere definito attraverso alcuni topoi”(ibidem, pag. 93):

  • i luoghi della nostra vita: Miguel vive nella casa di famiglia che è anche l’azienda in cui tutti lavorano alla costruzione delle scarpe e in quel luogo si fa tutto con regolarità e continuità dalla cura personale, alla cura per gli anziani, dall’alimentazione alla divisione dei ruoli, dalle affettuosità ai rituali come quello dell’ofrenda in cui si ricordano i morti delle generazioni precedenti;
  • il desco familiare: il nostro protagonista siede vicino alla bisnonna Coco e deve sottostare all’insindacabile sollecitazione della nonna a mangiare la quale ha il ruolo di sfamare tutta la famiglia;
  • gli oggetti di famiglia: tra questi le foto che in questo film svolgono un ruolo principale, “vie di scampo all’oblio” (ibidem, 94). È a partire proprio da un particolare di una foto in cui sono presenti Imelda, Coco e l’innominabile che Miguel costruisce la sua personale storia di appartenenza. Nel lembo nascosto ad arte dalla trisavola, compare la chitarra che autorizza Miguel a non temere più le proprie percezioni e le proprie inclinazioni: è geneticamente un musicista.

Sembra evidente quanto la memoria familiare, così come la Formenti ce la spiega, sia una risorsa omeostatica e morfogenetica della famiglia e altrettanto chiaro che i sistemi che non ne fanno uso mettono più a rischio di altri le relazioni, le appartenenze e la costruzione di senso.
“La memoria è come la vita: dinamica, costruttiva, relazionale… Nei suoi recessi più oscuri si cela forse la chiave per la felicità e l’autenticità del vivere a patto che qualcuno sia disposto a tramandarci storie, ad assisterci nei nostri sforzi di ricordare, a condividere con noi il piacere del racconto, ad accogliere e rispettare le emozioni, i vissuti, i silenzi e gli oblii come espressioni individuali del diritto di esistere e di scegliere per sé” (ibidem, pag. 97).
Hasta la vista, Miguel.

Bibliografia

Arcelloni, T.; Cecchin, G.; Gaspari, G. (2001), “Lavorare con i grandi gruppi: la terapia sistemica di Bert Hellinger”, Connessioni, 9, 143-154.
Cecchin, G.; Lane, G.; Ray, W. A. (1997), Verità e pregiudizi, Milano, Raffaello Cortina.
Formenti, L. (2000), Pedagogia della famiglia, Milano, Guerini e Associati.
Selvini Palazzoli, M.; Boscolo, L.; Cecchin G.; Prata, G. (1975), Paradosso e controparadosso, Milano, Feltrinelli.

Note

  1. Il termine va inteso nell’accezione datagli da Cecchin, (Cecchin, G.; Lane, G.; Ray, W. A., 1997) e indica “ogni serie di fantasie, idee, verità accettate, presentimenti, preconcetti, nozioni, ipotesi, modelli, teorie, sentimenti personali, stati d’animo e convinzioni nascoste: di fatto, ogni pensiero preesistente che contribuisca, in un incontro con altri esseri umani, alla formazione del proprio punto di vista, delle proprie percezioni e delle proprie azioni”.