Lo specchio impertinente: Esplorare l’immaginario della famiglia

Lo specchio impertinente: Esplorare l’immaginario della famiglia

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di Beppe Pasini

Beppe Pasini, Psicologo psicoterapeuta sistemico, didatta al CMTF e centro Shinui di Bergamo. Docente di pedagogia sperimentale Universita Statale di Brescia.

 

I vostri pensieri da pratici diverranno estetici e andrete a casa felici.
Bruno Munari

 

Unidirezionale in che senso?

Lo specchio è un oggetto pensoso. Riflette. Entro nella stanza di terapia e guardo l’immagine del mio volto. Mi sistemo i capelli, sorrido. Che effetto farò alle persone che vedrò tra breve? Accendo la lampada alogena, la luce che diffonde emana un calore soffuso e prepara un’atmosfera affettuosa, intima. È questo che cerco nell’incontro terapeutico. Al centro un cerchio sobrio di seggiole. Alle pareti alcuni quadri dai colori ora vividi ora più smorzati. Nature morte e pescatori. Una spiaggia al tramonto. Significative metafore delle relazioni famigliari. Le grida ovattate e festose dei bambini della scuola materna lì vicino si mischiano al via vai dei mezzi che portano gli anziani al centro diurno. L’inizio e la fine della vita sono suoni di un’unica partitura. La famiglia sta per arrivare, il teatro degli affetti e delle parole alza il sipario.
Al tempo in cui feci la mia formazione come terapeuta girava una leggenda. Dietro allo specchio unidirezionale durante una seduta di Milton Erickson furono invitati alcuni osservatori “eccentrici” tra cui un coreografo (che bella idea per “vedere” la danza delle relazioni!) a cui chiesero al termine, un commento su cosa a suo parere fosse stato più efficace e utile tra ciò che aveva visto fare al terapeuta. Il coreografo ci pensò su un po’ e poi disse: il fumo della sigaretta di Milton e la sua mano che tracciava eleganti volute nell’aria mentre parlava. Aveva un che di magico e quasi ipnotico! Non so se questa leggenda fosse vera ma mi è sempre piaciuto crederci. Del resto alle leggende non lo si chiede. Spesso la rievoco nei contesti dove mi occupo di formazione. Introduce una dimensione di eleganza, bellezza, imprevisto, nel lavoro clinico. E un intenso odore di tabacco. Cosa avvia il cambiamento in terapia? Cosa lo facilita? Quando e in che modi si manifesta? Sono domande cui non possiamo sottrarci. Per inventare soluzioni nuove a problemi vecchi bisogna avere il coraggio di sfidarne i presupposti. Se ad esempio ogni comunicazione è sempre almeno in due direzioni, caratterizzata da circolarità e retroazione, in che senso lo specchio può essere unidirezionale?

Da pratici ad estetici

I vostri pensieri da pratici diverranno estetici e andrete a casa felici, ricordava Bruno Munari. Quali implicazioni può avere questa affermazione per chi si occupa di intervento clinico? Mi pare che Munari si riferisse ad una trasformazione interessante, anzi ad un rivoluzionario cambio di paradigma nella logica di percepire e vivere la realtà. Pensare e agire esteticamente riguarda un salto di livello, una capriola perfino, che conduce a ripensare i presupposti attraverso i quali organizziamo la comunicazione sperimentando un ruolo attivo in quanto costruttori di conoscenze e inedite connessioni. Se ogni realtà dipende dalla grammatica con cui la viviamo e raccontiamo, cambiando la logica con cui diamo senso al mondo, il mondo cambia. Sappiamo bene che le persone non abbandonano facilmente le versioni vecchie per quelle nuove e certo una postura istruttiva e normativa non aiuta tale trasformazione. Come tuttavia facilitarla e sollecitarla? In questa ottica il colloquio terapeutico può essere visto come una esperienza nella quale le persone con l’aiuto del terapeuta, sperimentano concretamente nuove e più salubri esperienze percettive relativamente ai problemi che vivono. È dunque sempre un’attenzione di secondo livello: non tanto verso i problemi ma ricorsivamente, ai linguaggi che impieghiamo per descriverli. Credo che tale esperienza di cambiamento transiti necessariamente dalla dimensione corporea e non verbale. Come i cerchi di fumo che Erickson tracciava nell’aria, le relazioni famigliari sono composte da aspetti impalpabili eppure concretissimi: emozioni, memorie, aspettative, storie, corpi, copioni, regole, sanzioni, premi, parole, ecc. Accanto alla usuale conversazione affidata soprattutto alla parola, sto attualmente sperimentando nel colloquio clinico, una molteplicità di linguaggi estetici e simbolici che provano a rendere più visibili gli intrecci relazionali grazie a pratiche attivanti rivolte ai membri di una famiglia affinché prendano contatto con l’immaginario connesso al problema che stanno vivendo. L’esito auspicabile di queste pratiche è un cambiamento di premesse e di grammatiche che concorrono a designare una situazione critica. La famiglia intesa come luogo nel quale si collaudano e si apprendono specifici copioni comportamentali rimanda in effetti ad un sistema culturale con proprie caratteristiche e regole comunicative. Ogni linguaggio ammette libertà e rivela limiti. Se ad esempio con un pennello non posso scolpire un blocco di marmo, posso sempre colorarlo. Spiazzante e divertente. La stessa felicità che si impadronisce di noi quando giochiamo con altri giocattoli espressivi vivendo la sensazione creativa di un salubre rimescolamento. Uno dei sensi più sollecitati in queste occasioni è il tatto. Ad un certo punto della seduta si passa all’azione. In quei frangenti, avviene un repentino cambiamento di ritmo e contesto. Cerco di rendere anche visivamente questa discontinuità. Utilizzo formule che creano una certa suspense del tipo: mi è venuta un’idea, scusate…oppure: vi lascio per alcuni minuti, torno subito, ecc. ecc. interrompo così la conversazione e torno al colloquio poco dopo proponendo alle persone di scrivere, ritagliare, incollare, colorare, muoversi col corpo. Ad utilizzare l’intelligenza delle mani. Nei casi più felici, a danzare. Un’esperienza di leggerezza. Calvino ricordava che leggerezza non è superficialità, ma semmai il planare dall’alto senza gravami sul cuore. Quando con coppie, padri, madri e figli sperimento questo stato di grazia, a maggior ragione nelle storie più dolorose e tragiche, tutto si trasforma in possibilità e bellezza. In quelle occasioni inebrianti mi sento utile e coltivo la convinzione di essere stato loro veramente d’aiuto. Lo so, è una seduzione cui bisogna cedere con parsimonia. Le persone non vanno in frigidaire tra una seduta e l’altra. Ci sono milioni di eventi che possono causare un cambiamento significativo nel frattempo e che non dipendono solo dalla relazione terapeutica che semmai si limita a perturbarle o favorirle. In quale direzioni? In un recente libro dal titolo evocativo, il giornalista e saggista e Gabriele Romagnoli (Romagnoli, 2015) pone una domanda affascinante per quanti si occupano di relazioni d’aiuto. Si chiede: vogliamo essere trafficanti di brutti ricordi rimossi o speleologi di felicità sepolte? Divenire consapevoli delle direzioni nelle quali vogliamo orientare il nostro sguardo e dunque la nostra azione in una relazione d’aiuto, è un problema di responsabilità etica certo, ma soprattutto estetica; sensibile alla relazione che (ci)connette.
In questo mio contributo vorrei presentare alcune storie, dando conto di come cerco di esplorare l’immaginario della famiglia attraverso pratiche e azioni simboliche che hanno un positivo impatto emozionale sul clima del colloquio. Su di me per primo. Credo che un buon parametro per capire se ciò che si sta facendo è utile, consista nel monitorarsi costantemente affinando la propria sensibilità cardiospirituale. Questo del resto è ciò che insegnavano i maestri del Milan Approach quando esortavano a praticare una sorta di pragmatico strabismo: un occhio alla relazione e un altro a se stessi. Nel caso non si disponga di uno o più colleghi si può sempre eleggere la famiglia stessa o uno dei suoi membri come co-terapeuti. Le persone sono solitamente sempre entusiaste di sentirsi d’aiuto verso lo specialista che si trova in difficoltà sperimentando a loro volta una salubre inversione di ruoli.
Una prima classificazione che raggruppa le pratiche simboliche che in questi anni ho sperimentato adotta come criterio le tipologie di linguaggi che vengono proposti e della quale mi sono ripromesso di avviare una trattazione più estesa in futuro. Dopo molti anni di attività professionale mi sento infatti solo all’inizio di una eccitante e quantomai fertile percorso di ricerca:

Per un uso irriverente dello specchio. Lo specchio è uno straordinario oggetto simbolico ed evocativo. Questo tipo di pratiche si riferiscono ad un utilizzo dello specchio in terapia come una grande lavagna sulla quale scrivere o disegnare (con un pennarello cancellabile), appendere simboli, post it o manufatti vari. Ovviamente a patto che si lavori in un setting che lo preveda.

Scritture, fonosimbolismi e altri suoni. Raggruppa le pratiche in cui alle persone vengono proposti stimoli di scrittura autobiografica, poetica o evocativa soffermandosi sugli aspetti iconici e fonosimbolici del linguaggio come per esempio il suono e la forma delle parole, il loro ritmo e disposizione nello spazio;

Policromie narrative. Raggruppano tutte le esperienze in cui vengono impiegati i colori per esprimere emozioni, relazioni, vissuti. Un uso tipico è la realizzazione di collage e genogrammi simbolici nei quali i vari componenti della famiglia vengono rappresentati attraverso simboli accomunati da un unico sfondo narrativo. Per esempio il giardino, il fondo del mare, un cielo, un bosco, ecc.

Relazioni (in)corporee. Riguarda le pratiche in cui l’espressione corporea è predominante e sono tese a restituire movimento a relazioni troppo statiche. Ne sono un esempio eloquente le sculture, lo psicodramma, i role play, l’impiego di pupazzi per allestire sceno-test, la costruzione di maschere, ecc.

 

Tempi e contrattempi

Quando impiegare queste pratiche? Potenzialmente ogni storia è una occasione ideale. Sta di fatto che ormai sono una costante nel mio attuale stile di intervento clinico. Ho anche verificato che quanto più si “agganciano” alla specifica situazione e alle metafore che ogni famiglia naturalmente impiega per raccontarsi tanto più sono efficaci. Anzi lo devono essere per essere significanti e per “parlare” alla famiglia. Si tratta dunque di affinare una grande attenzione sulle molteplici espressioni figurate o analogiche che le persone impiegano naturalmente per esprimersi e di impiegarle come affascinanti accessi per una esplorazione sull’immaginario. Ogni lessico famigliare del resto è un coacervo scoppiettante e fertilissimo di questi linguaggi utilizzati nella vita quotidiana. Ad un orecchio esterno può essere più facile, almeno all’inizio coglierne sfumature e sonorità. Ricordo che mia madre, emiliana d’origine e trapiantata al nord da molti anni, ritrovava improvvisamente il suo coloratissimo accento dell’appennino rispondendo ad una telefonata dei parenti che non sentiva da tanto. In quei frangenti ritornava ad essere la bambina fuggita dalla guerra e dalla povertà in cerca di speranza, come se il tempo non fosse mai trascorso. I miei zii emigrati in svizzera tedesca in mezzo a mille discriminazioni negli anni ’50, perdevano tutto il loro aplomb teutonico quando litigavano fra loro sfoderando la loro più autentica e accesa gergalità vernacolare. L’immaginario parla il linguaggio delle viscere, del corpo, delle emozioni più intense e primigenie. Mentre le persone sono solitamente preparate a colloquiare con il terapeuta in una tradizionale (e a volte soporifera) talking therapy, la proposta di linguaggi “altri” va calibrata sincronizzandosi sul tempo (Boscolo e Bertrando, 1993) della relazione stessa. Cogliere il momento giusto per passare “dalle parole ai fatti” è una sensibilità che si affina osservando la reazione delle persone, avendo cura delle loro storie, affidandosi all’improvvisazione. Non vi è ovviamente alcuna certezza che la famiglia accetti di buon grado quanto propone il terapeuta. Cerco in generale di assumere un atteggiamento morbido, propositivo, negoziale, autoriflessivo, rispettoso. Del tipo: pensando a quanto mi avete detto mi è venuta in mente una proposta da farvi… oppure: mi chiedevo se foste disponibili a fare… oppure ancora: sento che è meglio passare ai colori… e via dicendo. In questi casi vale comunque sempre la regola d’oro della relazione d’aiuto: il terapeuta propone, la relazione dispone. Bisogna essere sempre pronti a cambiar rotta e esplorare altre direzioni se il momento non è propizio o se si incontrano troppe resistenze. ma una fragorosa risata accompagnata da una ventata di inatteso ottimismo autoironico verso le difficoltà che si stanno vivendo, sono segnali che fanno capire che sta accadendo qualcosa di importante. Essere circolari significa questo. Porre attenzione ai feedback che la relazione offre. Un po’ come quella zingara che disse al suo cliente “lei è circondato da tanti amici” e cogliendo nel volto dell’uomo una reazione di perplessità si affrettò ad aggiungere: “ma pochi di cui può fidarsi veramente!”.

Un letto affollato

Dove inizia un rapporto sessuale? E il corteggiamento? Cosa lo favorisce o lo inibisce? A letto si danno appuntamento emozioni e aspettative reciproche, cosi come fantasie e inibizioni ancestrali. Il processo di corteggiamento e seduzione erotica è assai complesso, fatto sia di corpi che di immaginazione e inizia molto prima dell’incontro fisico vero e proprio. In questa storia, due coniugi che giungono in terapia per affrontare una situazione sessuale insoddisfacente “fanno sesso” simbolicamente (sia chiaro!) col terapeuta che va a letto con loro per rendere visibili inibenti interferenze. Ernesto e Anna stanno vivendo grossi problemi di sessualità. Sono sposati da pochi anni. Lui si sente perennemente in ansia in occasione dei loro incontri sessuali, teme di non soddisfarla, di non essere all’altezza. Questo lo porta ad una eiaculazione precoce che crea frustrazione in entrambi. Tutti e due provengono da una tradizione famigliare conservatrice, chiusa e bigotta, nella quale il sesso era vissuto come imbarazzante e sporco. Anna racconta di non aver mai visto i genitori scambiarsi effusioni davanti ai figli e la sola idea che loro avessero una vita sessuale la fa sentire terribilmente a disagio. Quando fanno l’amore è come se sentisse, dice, la loro presenza in camera, davanti a lei e al marito. In particolare il volto della madre che immagina con un’espressione di condanna e aspro rimprovero. Fu lampante quanto in quelle condizioni emotive fosse assai difficile rilassarsi e provare piacere. Mente i due raccontavano mi cadde l’occhio sul tappeto che arredava la stanza di terapia, di modesta fattura e comprato ai grandi magazzini, le cui dimensioni erano grossomodo quelle di un letto ad una piazza e mezzo. L’ideale per provare a rendere esplicite quelle presenze al fine di dialogarci per venirne a patti. Nello studio accanto al mio poi opera una psicomotricista che utilizza nel suo lavoro pupazzetti di ogni forma e dimensione. Soprattutto animali. Avevo quello che serviva per andare a letto con i miei clienti! Spostammo così le sedie e proposi loro di trasformare con l’immaginazione il tappeto nel loro letto sul quale ci adagiammo seduti. Proposi ad Anna di scegliere tra i peluches quelli che più si adattavano a rappresentare simbolicamente le presenze di cui parlava, mentre Ernesto osservava perplesso. In breve il lettone si affollò di gattini-mamma, di ippopotami-padre, di coccodrilli- imbarazzo, di uccellini-tabù, eccetera. Con ognuno intavolammo un dialogo ascoltandone i pensieri e i punti di vista in un progressivo escalation emotiva tra risa e commozione. Al termine chiesi ad Anna di collocare anche il suo compagno nel “letto”, facendo bene attenzione alle distanze e agli spazi con gli altri elementi. Fu un dialogo simbolico e liberatorio che permise di dare voce a timori, emozioni inespresse e storie mai narrate prima. Congedai la coppia con un gesto poetico per celebrare quanto vissuto: prendere la voce del letto stesso e scrivere un breve pensiero rivolgendosi a loro due. Cosa pensava di tutto questo? Qual era il suo augurio e il suo consiglio per la coppia? I linguaggi indiretti e simbolici possono essere un eccellente medium per affrontare argomenti scabrosi e smorzare l’imbarazzo favorendo l’acquisizione di nuove consapevolezze sulle potenti influenze dei modelli famigliari.

Relazioni da sviscerare

Un giovane medico omosessuale si presentò in preda ad un dilemma che lo assillava da tempo: rivelare o meno la propria omosessualità ai genitori rischiando di perderne l’ammirazione che avevano per lui? Con loro, disse, non riusciva ad essere autentico; su di lui e sulla sua affermazione di professionista medico, tutta la famiglia aveva costruito il proprio riscatto sociale. La sua esistenza era sdoppiata di giorno tra una irreprensibile e apprezzata attività ambulatoriale e di notte alla sistematica ricerca di partner sessuali con i quali soddisfare un appetito insaziabile. Era logorato e al medesimo tempo eccitato da quella spasmodica frenesia sessuale che lo faceva sentire amato seppure per una notte sola. Molti suoi amici avevano fatto coming out in famiglia con esiti opposti: qualcuno aveva ricevuto da genitori, fratelli e sorelle un’affettuosa solidarietà; per altri invece si rivelò un mezzo disastro, la rivelazione sortì aspre condanne e addirittura ostracismi. Cosicché Franco era assai contrastato su quale decisione prendere e come muoversi a proposito. Si dichiarava desideroso in particolare di sviscerare il suo rapporto con la madre che percepiva costellato da sentimenti ambivalenti. Quella affermazione che per un medico aveva certo un’implicazione ulteriore, mi offrì su un piatto d’argento lo stimolo per proporgli di esplorare l’immaginario connesso a quel rapporto. Gli proposi così di scrivere una lettera in cui le si rivolgeva confidandole il suo vissuto e le sue emozioni. Dopodiché lavorammo sul suo testo come fosse un corpo, alla ricerca delle parti che potevano essere simbolicamente associate ad organi corporei: occhi, ventre, piedi, cervello, ecc. cerchiando ogni frase relativa in un tratto dandole la forma dell’organo associato. Il suo scritto si trasformò in un caviardage colorato[1]. Per ognuno degli “organi” emersero importanti significati, storie, emozioni che lo aiutarono a sviscerare, appunto, la sua complessa relazione materna.

A ritmo di tango

Una coppia decisamente in sovrappeso venne in seduta. Lui, counselor e operatore sociale di grande esperienza, si dichiarò un depresso cronico, un fallito nel suo lavoro e sfiduciato nella vita. Lei gestiva una florida attività di catering e più appariva gioviale, più questo rendeva lui scontroso e intrattabile. All’inizio del loro racconto lei usò una metafora eloquente per descrivere a che punto erano nel loro menage. Disse: io e lui siamo come un vecchio tango stanco. Per tutto il resto della seduta, quella potente immagine danzò nella mia mente. Cosicché, addentrandomi nella loro storia cominciai a elencare mentalmente una serie di parole chiave che vi si adattavano perfettamente: delusione, attrazione, seduzione, rancore, nostalgia, sesso, ecc. al termine comunicai loro che trovavo che la metafora che avevano utilizzato si prestasse magnificamente per descrivere il loro rapporto e che bisognava darle un po’ movimento. Proposi loro dunque di accennare qualche passo di danza e trovare una musica adatta su internet. Io avrei tenuto il tempo con le mani. La proposta li spiazzò non poco. Lei scoppiò a ridere divertita mentre lui mi guardò allibito e totalmente restio, mi dichiarò che se ne sarebbe guardato bene dall’eseguire il mio invito. La situazione visse un’impasse per qualche attimo finché lei non rimediò: disse che se il tango era un po’ troppo, aveva giusto in alternativa una bella musica che teneva sempre con sé sul suo smartphone in quanto legata al loro primo incontro: la primavera di Stravinskij. Ci lasciammo leggiadri ascoltandola e guardandoli uscire dallo studio mi parve che entrambi si muovessero a quel ritmo così dolce e sexy. È un buon esempio di quanto la relazione con i clienti venga prima delle bizzarre iniziative del terapeuta.

Sapori di mare e di sale

Rievocare l’incontro di una coppia significa non solo andare indietro nel tempo con i ricordi e l’immaginazione ma rivivere concretamente un momento mitico, solitamente felice della propria esistenza per ripensare alle reciproche aspettative e ai sogni che costellavano il futuro di una volta per domandarsi dove sono finiti e quando ancora al presente fanno capolino. Sergio e Silvia erano una coppia navigata e conflittuale, i loro litigi si fecero fatti via via più aspri e avrebbero forse rischiato di diventare violenti se non fossero intervenuti i servizi sociali con un provvedimento cautelare di affido dei figli alla madre, decretando il provvisorio decadimento della potestà al padre. Per entrambi l’invio coatto in terapia era finalizzato a provare a rielaborare il loro rapporto e tentare una riconciliazione. Il presente appariva intasato di accuse reciproche e rancori, immobilizzato da rigidità apparentemente inconciliabili che impedivano un dialogo proficuo. Dove erano finiti i due giovani che ardenti d’amore e passione si erano incontrati tanti anni prima? e dove avvenne il loro incontro? Sulla spiaggia! Ricordò lei, illuminandosi per un attimo gli occhi come quella volta attorno al falò in cui lui le suonava chitarra in riva al mare una sera di tanti anni prima. Sarebbero stati disposti a tornarci? Il grande specchio della sala di terapia con la sua placida superficie calma e piatta come la tavola di un mare ci apparve il luogo simbolico adatto per ambientare questa rievocazione. Proponemmo dunque alla coppia di disegnarvi con i pennarelli (cancellabili) il posto del loro mitico incontro. Mentre i due visibilmente commossi, davano forma a dune, ombrelloni e onde, perfino le risa degli amici parevano risuonare allegre al suono ipnotico della risacca. Anche noi ci accoccolammo attorno a quel fuoco adolescente per ascoltare l’atmosfera dell’incontro della coppia che giungeva sino a noi attraversando il tempo. Fu più facile allora provare a ritrovare le labili impronte del loro romantico mito di coppia anche nel presente nonostante i marosi in cui navigava il reciproco risentimento.

La manutenzione del terapeuta

La poetessa Sylvia Plath ricordava che la vita non ha senso se non la puoi tradurre in versi. L’impiego dei linguaggi estetici e artistici per esplorare l’immaginario rappresenta una generativa e quantomai promettente opportunità anche per la formazione di coloro che aspirano ad una professione di cura. Anzi mi sento di affermare che è proprio nei contesti dell’educazione degli adulti che si giocano le più importanti scommesse di cambiamento qualora si allestiscano dispositivi nei quali la biografia di chi apprende possa essere valorizzata, celebrata per formalizzarsi in sapere. Parallelamente al lavoro clinico, mi occupo di formazione in numerosi contesti e con differenti destinatari: terapeuti e counselor, insegnanti, educatori professionali, infermieri. Tra le poche ma essenziali cose che sento di aver imparato in queste molteplici occasioni di crescita umana è che le persone, soprattutto adulte, non vedono l’ora di giocare con le idee mettendole in movimento, di sperimentare occasioni di apprendimento rivisitando risorse esperienziali, partecipando attivamente al proprio percorso di crescita professionale. Si tratta di dar loro l’occasione per metterlo in pratica. Se la cura di linguaggi, contesti, luoghi, spazi, corpi, e ambienti che favoriscono una convivialità pensosa rappresentano precondizioni essenziali, l’espressione artistica offre una formidabile cornice sistemica per connettere universi apparentemente distanti. Questo comporta partire e tornare all’esperienza concreta interrogandola e tematizzandola, dare voce alla propria biografia di curante e di curato per elaborare una teoria locale incarnata, alimentare una riflessività in azione, rivedere criticamente i propri pregiudizi esplicitandone la genesi e la parzialità, perseguire la bellezza, la curiosità e la creatività nella relazione d’aiuto. Come sostenevo poc’anzi mi sento solo all’inizio di una nuova affascinante e seducente avventura di ricerca e sperimentazione dedicata ad esplorare l’immaginario della famiglia. Una ricerca verso un modo felice di stare nella relazione. Postura, che sappiamo essere quantomai complessa e attraente ma che ritengo costituisca una vera e propria strategia di sopravvivenza professionale per poterci prendere cura delle persone, alimentando una autentica fiducia nella speranza, nelle risorse, nelle capacità e possibilità di ogni sistema vivente di inventare soluzioni impreviste ai problemi che incontra. Tra i molti e spesso involontari maestri dai quali non smetto di trarre ispirazione e che contribuiscono attivamente in questo continuo processo di manutenzione, vorrei ricordarne uno legato gioiosamente alla mia autobiografia. È rivisitando il ruolo di eredità simboliche come queste che esploriamo con i futuri terapeuti i nessi tra immaginario, esperienza e vocazione professionale:

Ricordo un’officina, odore di unto, di grasso, di luce in penombra, di gesti precisi, sapienti. Ordine e confusione. Ogni cosa al suo posto e tutto a soqquadro. Con due q. Che buffo, quando la scrivo mi aspetto che il pc la segni come errore e invece… Manutenzione è composta da due parole: manus che è mano e teneo che significa posseggo. La manutenzione si fa con le mani, è una cosa pratica, servono gli attrezzi giusti: cacciaviti, chiavi, martelli, chiodi, tenaglia, ma soprattutto… l’abito! Mi ricordo l’officina di Tullio che riparava biciclette sgangherate e le mani sporche di unto sopra un sorriso per ogni cliente. Aveva la bottega a fianco della strada e noi ci andavamo la domenica al paese di mio padre. Odor di cascina e di nonni e di uno spaghetto che a momenti mi soffocava. Mani che trafugano in gola, io che tossisco e non dimentico. Tullio aveva il gomito alto e una impeccabile tuta blu con un taschino bianco tenuto chiuso da una lampo. Elegante e austero. Lo trovavamo spesso al bancone del bar dopo che gli era morta la moglie bambina. Nella bottega pigliava in mano la bici come se fosse stata un lampadario di cristallo. Con grazia la faceva roteare nello spazio fino al treppiede dove le serrava, pronta per lasciarsi accarezzare. Bastava quello per ripararla e io ero già ebbro di tutta quella elegante dedizione.

(Immagine in apertura: “Chiome e radici”, Beppe Pasini, 2016, carta)

Bibliografia

Barker P. (1987), L’uso della metafora in psicoterapia, Roma, Astrolabio.
Bateson G. (1972), Stile, grazia e informazione nell’arte primitiva, in Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi.
Boscolo L., Bertrando P. (1993), I tempi del tempo: Una nuova prospettiva per la consulenza e la terapia sistemica, Torino, Bollati Boringhieri.
Caille P., Rey I. (2005), Gli oggetti fluttuanti: Metodi di interviste sistemiche, Roma, Armando.
Calvino I. (2000), Lezioni americane: Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Mondadori Oscar.
Di Pasquale M. (s.d.), Sylvia Plath: La scrittura-difesa di una bambina che voleva essere Dio, in http://www.psychomedia.it/pm/culture/liter/dipasquale.htm (acc. 12 2017)
Leher J. (2008), Proust era un neuroscienziato, Torino, Codice.
Lumer L, Zeki S. (2011), La bella e la bestia: Arte e neuroscienze, Bari, Laterza.
Munari B. (2017), Pensare confonde le idee, Mantova, Corraini.
Romagnoli G. (2015), Solo bagaglio a mano, Milano, Feltrinelli.
Vettese A. (2010), Si fa con tutto: Il linguaggio dell’arte contemporanea, Bari, Laterza.

[1] Caviardage, dal francese caviar, caviale. Si potrebbe tradurre impropriamente con “cavialeggiare” cioè annerire. In effetti l’azione di “caviardage” era quella che si faceva in passato per sopprimere in alcuni scritti dei passaggi ritenuti immorali dalla censura. In questo caso si riferisce ad un gioco lessicale e sintattico alla ricerca della poesia nascosta in un testo.