L’esperienza di Geel: diversità, differenza, integrazione e inclusione

L’esperienza di Geel: diversità, differenza, integrazione e inclusione

di José Nesis

Se si dovesse fondare, cosa oggi fantastica, una facoltà universitaria di psicoanalisi, vi si dovrebbero insegnare molte cose che si insegnano anche nella facoltà medica: accanto alla psicologia del profondo, che rimarrebbe sempre l’elemento di base, una introduzione alla biologia, nella misura piu larga possibile la sessuologia, e cognizioni relative ai quadri clinici della psichiatria. D’altro lato l’insegnamento analitico dovrebbe comprendere anche materie estranee al medico e che questi non ha alcuna occasione di incontrare nell’esercizio della sua attivita: storia della civiltà, mitologia, psicologia delle religioni, letteratura. Senza un buon orientamento in questi campi lo psicoanalista si trova smarrito di fronte a gran parte del suo materiale.
Sigmund Freud (1926, p. 411)

Nel VII secolo, in una zona remota dell’Irlanda, un re innamorato della moglie rimase vedovo. Il dolore insopportabile per la perdita della regina si trasformò in un sentimento di attrazione irresistibile verso l’unica figlia adolescente, che trovava identica al suo amore perduto. Inorridita, questa cerca di fuggire dal padre squilibrato, che la sorprende in un paese dell’odierno Belgio chiamato Geel e la decapita. Tra i testimoni del delitto filiale, ci sono persone che iniziano a manifestare mutamenti fisici e mentali terapeutici di natura soprannaturale. Alcuni secoli dopo, si cominciò a parlare di cure straordinarie per i malati di mente. In ragione del suo martirio e dei miracoli che le venivano attribuiti, la figlia del re folle venne santificata e si trasformò in protettrice dei pazzi. Le persone con problematiche psicologiche cominciarono a essere portate dalle loro famiglie sull’altare in cui erano conservate le sue spoglie. Col tempo, le famiglie di Geel cominciano a ospitare questi pazienti in cambio di una qualche forma di pagamento da parte dei parenti, o di lavoro produttivo, generalmente rurale. La tradizione si mantiene fino a oggi. Gli abitanti di Geel si sono abituati nei secoli a ospitare i malati di mente, sviluppando, nel corso di diverse generazioni, competenze efficaci per la cura di questi pazienti. Per questo motivo, viene considerata la prima comunità terapeutica per malati mentali.

Nell’elenco delle discipline e delle dedizioni che Freud considera necessarie alla formazione di un analista, egli include quattro elementi che dobbiamo considerare con particolare attenzione e che lui stesso indica come usualmente estranei alla pratica dello psicoterapeuta. Questi sono: la storia della civiltà, la mitologia, la psicologia della religione e la scienza della letteratura.

Per poter comprendere il fenomeno della prima comunità terapeutica conosciuta, un’esperienza millenaria ancora attiva, avremo bisogno di questi strumenti, senza i quali la comprensione di questa storia sarebbe praticamente impossibile.

Leggende e mito

Potremmo iniziare descrivendo il contesto storico, illustrando ciò che conosciamo della storia delle malattie mentali, o semplicemente riportando le testimonianze. Inizieremo invece questo articolo con il mito che gli dà vita, poiché il mito configura una storia e vi è ancora presente in vari modi.

La storia inizia in quella che oggi è l’Irlanda, in particolare in quella che oggi è la contea di Monaghan. Lì visse, nel VII˚ secolo, un re pagano, Damon de Oriel, la moglie Odila e la figlia Dymphna, entrambe cristiane devote. La prematura scomparsa della moglie lascia Damon in uno stato di desolazione che sembra trovare tregua solo quando si innamora intensamente della propria figlia, alla quale propone di sposarsi. Prigioniera del terrore, Dymphna decide di fuggire con il suo confessore, padre Gereberno. Attraversano il mare e si recano in quello che oggi è il Belgio. Dopo un inseguimento senza sosta, il re li cattura e, di fronte al rifiuto definitivo di sua figlia, li decapita entrambi. L’omicidio avviene in quella che oggi è una piccola città del Belgio chiamata Geel. Si erano stabiliti lì prima di essere scoperti e, secondo la leggenda, Dymphna aveva trascorso il suo tempo compiendo atti di carità, soprattutto verso persone che manifestavano qualche specie di disturbo mentale. Qualche tempo dopo, gli abitanti di Geel si imbattono accidentalmente nei suoi resti sepolti e, a seguire, accadono eventi straordinari, tra cui cure miracolose. La storia viene poi trasmessa oralmente da una generazione all’altra fino a quando, intorno al XIII˚ secolo, iniziano a comparire testimonianze scritte della leggenda. Inoltre, Dymphna viene canonizzata dalla Chiesa.

Esistono diverse versioni del mito, oltre a una miriade di dettagli che vi si sono aggiunti, e forse anche persi, con il passare del tempo. Per quanto indubbiamente interessante, riprodurre tutti questi dettagli in questo articolo sarebbe eccessivo e dispersivo. Va però delineata la struttura principale della storia, che consiste in un padre che esprime e cerca di realizzare un desiderio incestuoso verso la figlia, la quale figlia resiste e viene poi punita con la morte. Questa struttura non è nuova e non è unica per chi si sia dedicato allo studio delle strutture sottostanti alle storie per bambini, ai miti popolari, alle favole e alle leggende. Una delle classificazioni correnti delle fiabe è quella di Aarne Thomson Uther, che si è evoluta dal 1910 per oltre un secolo. In tale classificazione, il mito di Dymphna può appartenere alla categoria 510B, che fa riferimento al cosiddetto amore non naturale. L’esempio più famoso di questa categoria è la fiaba di Charles Perrault, Pelle d’asino. Osservare le somiglianze tra i diversi aspetti di storie diverse, che a volte si rivelano quasi identiche, non smette mai di stupire. Per inciso, questo è ciò che sostiene l’idea freudiana secondo cui la persistenza di queste storie, sotto diverse spoglie, costituisce un possibile punto d’ingresso al modo in cui la nostra psiche è strutturata. In altre parole, queste storie sopravvivono grazie al loro potere rappresentativo.

Questo mito è anche un modo per costruire la malattia mentale in quanto entità: l’incesto si mostra come espressione della malinconia, come dolore malinconico. E così il patrocinio di Dymphna comprenderà i malati di mente in generale (compresi i neurologici e gli epilettici) e le vittime di incesto in particolare. Da ciò, bisogna sottolineare che la pazzia è spostata dall’aggressore verso la vittima. Ciò significa che Dymphna, in quanto santa, protegge i malati di mente, come suo padre, e le vittime dell’incesto, come lei stessa. Da un punto di vista culturale-religioso, l’idea comunicata è che sia più “socialmente organizzante” essere morti che accettare un rapporto incestuoso. Il prezzo della proibizione dell’endogamia è pagato con la morte, e questa proibizione è ricordata attraverso i miti e i loro rispettivi rituali.

Dal mito alla realtà: case famiglia e malattie mentali

Come fa un evento immerso nel mito a diventare una pratica concreta, poi sottoscritta e sostenuta dalla comunità scientifica? Come detto, l’evento mitico centrale circonda il momento in cui vengono scoperti i resti di Dymphna e il fenomeno della “guarigione” dei malati, così come, e forse ancora più importante, la Santa che si trasforma in destinataria di preghiere che invocano il miglioramento e la guarigione dei malati di mente. Per questo è stata costruita una cappella per accogliere i pellegrini, che in seguito è diventata un piccolo sanatorio per ospitarli. La tradizione orale si trasformò in pratica e i malati di mente iniziarono a viaggiare da diversi luoghi d’Europa e, per mancanza di spazio, cominciarono a essere ospitati nelle case degli abitanti del luogo. In cambio, coloro che potevano, svolgevano lavoro agreste, o i loro parenti compensavano finanziariamente le famiglie che li accoglievano. Da allora questo processo non si è più fermato. Nonostante le molteplici trasformazioni, il sistema con cui i pazienti vengono ospitati dalle famiglie che vivono a Geel funziona ancora. E Dymphna, canonizzata nel 1247, è considerata la protettrice dei malati di mente.

Il sistema delle case famiglia di Geel esiste da secoli e nel tempo ha mutato la sua organizzazione. Ciò che è rimasto è la pratica di includere nelle case degli abitanti locali la presenza di almeno un membro con le caratteristiche di ciò che oggi chiameremmo un malato mentale, o una persona con qualche disturbo mentale.

I dati risalgono al momento in cui si è iniziato a raccogliere la documentazione dell’attività, il che ci riporta alla metà del XIX˚ secolo. La tabella seguente mostra che nel 1855 i pazienti ospitati nelle case di Geel erano circa 800, un numero che è aumentato notevolmente fino a raggiungere il suo massimo nel 1938. Da allora, il numero è sceso a 460 nel 2006, un numero inferiore a quello registrato originariamente. Questo calo è ancora più significativo se si considera l’aumento della popolazione, passata dai 12.000 abitanti del 1900 ai 39.000 di oggi. La tabella quantifica 21.111 pazienti dal 1855, ai quali bisogna aggiungerne circa 3.000 dal 2006 ad oggi (attualmente il numero è di circa 250 pensionati). Questo ci dà quasi 25.000 pazienti dall’inizio della registrazione nell’ultimo secolo e mezzo.

Attualmente, la maggior parte dei pazienti ha 60 anni o più, il che dimostra la diminuzione della popolazione di pazienti inclusi in questo tipo di pratiche. Questa diminuzione ha diverse possibili cause che sono ben lungi dall’esprimere un fallimento in termini terapeutici e, soprattutto, riabilitativi. Il sistema delle famiglie affidatarie è passato dalla sfera religiosa a quella civile, perdendo così il controllo istituzionale, ma recuperandolo poi, seppur con le regole attuali che regolano il sistema contemporaneo della salute mentale. Con la Rivoluzione francese e, poco dopo, l’annessione del Belgio alla Francia nel 1795, il sistema ha cessato di essere nelle mani dei religiosi. Nel 1811 il Ministro della Giustizia francese decise di porre fine al sistema delle famiglie affidatarie a Geel. Tuttavia, nessuna delle due decisioni interruppe realmente la tradizione, e i pazienti continuarono ad arrivare a Geel per essere accolti dalle famiglie. È degno di nota che, a questo punto, quando il sistema fu messo alla prova, riuscì a prevalere grazie alla sua stessa struttura, arrivando così al 1838, quando il controllo cadde nelle mani del municipio di Geel, sopravvivendo così alle misure che miravano a sradicarlo. Durante la metà del XIX˚ secolo, Geel divenne il centro di una regione dichiarata colonia per malati di mente, il che permise la costruzione di un ospedale che Jozef Guislain aiutò a progettare nel 1862, che rappresentava la proiezione pionieristica della psichiatria dell’epoca. Si sarebbe poi dovuto aspettare fino al 1948 perché tutto passasse dalle mani del Ministero della Giustizia a quelle del recente Ministero della Sanità (Roosens; Van De Walle; Sacks, 2007).

In questo momento, in cui lo Stato moderno si occupa della sanità pubblica e con il progredire dei diritti umani e dei loro effetti in campo giuridico, si assiste a un ritorno alla regolamentazione delle pratiche di assistenza, che ora includono l’attività delle case di accoglienza. Il controllo governativo sostituisce gli accordi privati tra i parenti dei pazienti e le famiglie affidatarie, modificando così anche la renumerazione ricevuta. Scompare anche lo scambio di alloggi in cambio del lavoro rurale. In altre parole, diminuiscono le remunerazioni finanziarie e aumenta la vigilanza statale, che gradualmente comincia a introdurre una maggiore attenzione e cura professionale, delegate alle mani di professionisti con titoli universitari e professioni registrate dallo Stato. Dal 1991, tutte le famiglie che ospitano i pazienti sono direttamente controllate dall’OPZ Openbaar Psychiatrisch Zorgcentrum (Ospedale psichiatrico pubblico). Attualmente, vi sono 4 squadre familiari per circa 100-250 famiglie. Ogni team è composto da uno psichiatra, un medico di base, uno psicologo, un assistente sociale e tre infermieri. A turno, ogni infermiera visita ogni famiglia ogni due settimane (o prima, se sorgono difficoltà).

L’interesse per l’esperienza di Geel, dal punto di vista psichiatrico, ha avuto un impulso spettacolare verso la fine del XIX˚ secolo fino alla metà del XX˚ secolo. Oggi non è più inclusa nella formazione degli psichiatri, nonostante sia una metodologia valida e tuttora in corso, aggiornata agli standard della psichiatria attuale, e per quanto sia ancora una sfida, argomento su cui torneremo alla fine di questo articolo. Come stavamo spiegando, nella seconda metà del XIX˚ secolo, articoli sull’argomento cominciano a essere pubblicati sui più importanti giornali del mondo. In generale sono entusiastici, e sottolineano il fatto che i pazienti convivono con il resto della popolazione senza che vengano registrati incidenti. Sono stupiti dalla difficoltà di distinguere i malati dal resto della popolazione. Oggi tale distinzione è possibile, non per le manifestazioni cliniche, ma per le conseguenze dei trattamenti farmacologici, soprattutto quelli a lungo termine, che lasciano tracce espresse in movimenti anomali degli arti e dei muscoli del viso. In qualche modo, e paradossalmente, i pazienti vengono riconosciuti come tali non per la malattia in sé, ma per gli effetti negativi dei trattamenti che subiscono. L’interesse non era solo giornalistico ma anche medico: il movimento alienista francese se ne accorse dopo la visita di Esquirol nel 1821. Si potrebbe dire che, rispetto a Esquirol, Geel era in anticipo sui tempi: mentre questi proponeva l’isolamento dei pazienti psichiatrici, nel momento in cui tali pazienti passavano dall’essere considerati poco più che delinquenti incatenati alla nuova categoria di pazienti alienati, a Geel trovava un ambiente in cui l’isolamento non era necessario. È il suo contemporaneo, Jacques Joseph Moreau (Moreau de Thours), che, attingendo all’esperienza di Geel, ridefinisce il concetto di alienazione in modo rivoluzionario: alienazione significa ritirare i pazienti dal contesto in cui la patologia è emersa. Infine è Benedict August Morel (che ha coniato il termine Dementia Praecox, poi reso popolare da Kraepelin) che, appartenendo allo stesso movimento alienista, coglie Geel come un fenomeno innegabile che mette in discussione le pietre angolari di tale movimento (Huertas García Alejo, 1988; Bellomo, 2011).

Fino alla metà del secolo scorso, molti medici e ricercatori si sono sentiti attratti dall’esperienza di Geel. I resoconti di decenni di articoli e citazioni di Geel fanno riferimento ai pazienti con il termine “pazzi”. Nonostante sembri un semplice aneddoto, questo esemplifica la persistenza del punto di vista di Paracelso, che è stato creatore del termine nella sua classificazione della malattia mentale. Si è dovuto aspettare fino a maggio 2012 perché il Senato degli Stati Uniti d’America, con il sostegno dell’Associazione Psichiatrica Americana, eliminasse il termine dai documenti ufficiali attraverso una legge.

Prima con carattere religioso, poiché la religione costituiva una parte inestricabile della vita quotidiana, e poi come pratica sociale e persino lavorativa, la presenza di pazienti psichiatrici, portati dalle loro famiglie da diverse zone d’Europa, è diventata parte della vita di Geel. Qui entra in gioco l’aspetto più importante di questa esperienza, che consiste nella ripetizione intergenerazionale di una pratica che diventa terapeutica. Per quasi 700 anni, nascere in una famiglia a Geel poteva dare la possibilità – un’opportunità che è cambiata nel tempo – di vivere dalla nascita insieme a una persona che soddisfa le seguenti caratteristiche: 1. soffre di una qualche forma di disturbo mentale, 2. non è – in senso stretto – un membro della famiglia, e 3. rappresenta un contributo economico alla famiglia attraverso il lavoro o attraverso la remunerazione data dalla famiglia del paziente (nel passato e congrua) o dallo Stato (nel presente e non altrettanto remunerante). Oltre a ciò, e questo è forse uno degli elementi più significativi, la possibilità di nascere in una famiglia che ospita un paziente va di pari passo con il fatto che almeno uno dei genitori della persona nata in casa è a sua volta nato e cresciuto in una famiglia che ospitava un altro paziente. In qualche modo, questa configurazione familiare, che include la presenza di un paziente, si è replicata lungo decine di generazioni, fino da tempi remoti oltre ogni possibilità di tracciamento.

Esistono altri casi simili di convivenza con situazioni e condizioni che, nella maggior parte dei luoghi del mondo, attirerebbero l’attenzione e che, senza dubbio, sarebbero considerate patologiche. Oliver Sacks ne cita almeno due nella sua famosa autobiografia: il caso di “Tourettesville” a La Creta, in Canada, e il caso di Martha’s Vineyard e della sua comunità sordomuta, dove spiega come venisse usata in modo naturale la comunicazione attraverso il linguaggio dei segni (Sacks, 2015).

Diversità, differenza, integrazione e inclusione

Al giorno d’oggi, l’esperienza di Geel è rilevante per la ridefinizione del luogo della malattia mentale all’interno del campo della medicina. Infatti, di pari passo con la crescita delle conoscenze sul funzionamento mentale (anatomia e neurofisiopatologia, neuroimaging, e genetica, tra gli altri ambiti), concetti come quello di “malattia mentale” rimangono confusi. Prendiamo il caso dell’omosessualità come esempio, che proprio negli ultimi decenni è passata dall’essere una patologia all’essere considerata normale, passando per la condizione intermedia di stato egodistonico come criterio per una decisione diagnostica. In questo percorso sono intervenuti non solo i documenti medici, ma anche le associazioni delle minoranze. Il passaggio da una condizione patologica a qualcosa di considerato normale rappresenta forse l’incarnazione del viaggio dal medesimo al diverso, dall’universo al diverso. Non solo il cosiddetto “differente” è interessato in questo cambiamento, ma anche il presunto uguale. Non si tratta di cancellare le differenze, ma di riconcettualizzarle come qualcosa che, spesso, sembra essere più una proprietà dell’osservatore che dell’osservato.

Come si è detto, il sistema delle famiglie affidatarie a Geel ha attirato l’attenzione fin dall’inizio del XIX˚ secolo, per il fatto che i pazienti camminavano per la città ed erano indistinguibili dalla popolazione in generale. È opportuno sottolineare ancora una volta che, al giorno d’oggi, sarebbe possibile distinguerli non per le loro condizioni, ma per gli effetti collaterali dei trattamenti a cui sono stati sottoposti. Esistono video documentari molto interessanti sull’esperienza di Geel, dove si possono vedere aspetti del comportamento dei pazienti. Nel caso di molti pazienti, le alterazioni della deambulazione e dei movimenti muscolari sono facilmente percepibili e non hanno nulla a che vedere con la malattia mentale, ma con i farmaci antipsicotici che hanno lasciato il segno della discinesia tardiva. Questi segni sono dovuti al trattamento, non alla condizione. Tuttavia, questo non si è verificato fino al XX secolo.

Per quanto riguarda i temi della diversità, dell’integrazione e dell’inclusione, è possibile affrontarli dal punto di vista di chi è “differente” (il paziente a Geel) o dal punto di vista delle famiglie. Vale a dire, oltre a chiederci cosa fa la famiglia per il paziente, si potrebbe chiedere cosa fa il paziente per la famiglia. Che tipo di competenze sviluppano i membri della famiglia? In che modo il ciclo transgenerazionale influenza questo apprendimento?

Oggi esistono almeno due sfere in cui il paradigma dell’interazione con chi fino ad ora era considerato diverso – in senso patologico – sta cambiando. Una è la sfera della vita sessuale, l’altra quella della scolarizzazione.

Viviamo in un’epoca in cui, sullo stesso pianeta, convivono da un lato l’orrore e, dall’altro, il progredire della tolleranza e dell’accettazione delle differenze. In alcuni paesi si gettano gli omosessuali dalle terrazze e si riducono le donne allo stato giuridico di cose, mentre in altri la legge garantisce l’uguaglianza dei diritti alle persone che esprimono preferenze e identità sessuali fino ad allora tenute nascoste. In questo senso, l’esperienza di Geel potrebbe rivelarsi un antecedente, ancor vivo, di come ciò che viene rifiutato in altri luoghi viene incorporato per poi modificare definitivamente l’identità della maggioranza. Costituisce quindi un modello di inclusione, diverso da quello dell’integrazione. Mentre nel secondo la maggioranza ospita il “differente” costringendolo ad adattarsi, nel primo è la comunità nel suo insieme che trova vantaggiosa tale incorporazione. Qualcosa di simile si sta verificando nella scuola, dove la visibilità di problemi quotidiani che prima non facevano parte del focus principale comincia ad essere considerata rilevante, per esempio l’inclusione di studenti che, in altri tempi, sono stati inviati in scuole “speciali” o altri temi più specifici, come il bullismo, che recentemente è diventato sempre più oggetto di attenzione. In questo senso, ci sono almeno due approcci che hanno evidenziato l’esistenza di qualcosa di molto più profondo della dualità vittima-perpetratore. Questi progetti mostrano come un approccio da prospettive inedite non solo giovi alle vittime, ma anche all’intera comunità (Winslade, 2013; Salmivalli, C.; Poskiparta, Ahtola, Haataja, 2013).

Note conclusive

L’idea portante di questo articolo è evidenziare l’importanza intrinseca di una competenza che si trasmette attraverso i secoli. Una competenza basata sull’esperienza, che sarebbe impossibile da dimostrare se non esistesse una documentazione scritta al riguardo.

Già nel 2001, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha preso atto del sistema di famiglie affidatarie di Geel come modello di successo per l’assistenza sanitaria per il trattamento di patologie psichiatriche. Il problema sta nel fatto che la ricetta di questo modello di successo sembra richiedere non solo famiglie che siano disposte a ospitare i pazienti provenienti da altri luoghi, ma anche un mito fondamentale e una tradizione di circa settecento anni. Ci si potrebbe chiedere come il tempo trascorso, un periodo che sarebbe irragionevole per qualsiasi progetto a misura d’uomo, abbia influito sull’acquisizione di competenze dovute al contatto con i pazienti psichiatrici. Ciononostante, vanno citati alcuni preziosi tentativi ispirati da Geel: il sistema di alloggi a New York per i senzatetto sviluppato da Ellen Baxter, o le sue repliche in alcune città della Germania. A parte i loro risultati, che non sono affatto trascurabili, è chiaro che coloro che sono venuti a contatto con l’esperienza di Geel hanno tratto uno stimolo e un’ispirazione (Linn et al., 1980; Van Bilsen, 2016).

Inoltre, l’esperienza di Geel è, e questa può essere la sua caratteristica più intrinseca, un esempio vivente di un processo evolutivo stocastico, nel senso sviluppato da Gregory Bateson (1979), ma ci chiama anche eticamente a un luogo di responsabilità. Sulla stessa linea, e come aveva affermato Erwin Schrödinger (1958) diversi anni prima, siamo responsabili delle condizioni di possibilità di eventi casuali per promuovere la creazione di nuove realtà. Quando si visita Geel oggi, ci si trova di fronte a un misto di perplessità e rispetto per le esperienze del passato. La storia di Geel permette ai professionisti della salute mentale di conciliare la loro attuale identità professionale, che è sancita dalla tradizione scientifica, dalla medicina evidence based e dalla responsabilità, con una tradizione costruita su un mito e sulle pratiche religiose. Tuttavia, le categorie diagnostiche si stanno spostando molto velocemente, più velocemente dei nostri pregiudizi e della nostra capacità di distinguere il normale dal patologico. A volte, ciò che è considerato normale e il patologico si fondono in un processo di crescente rispetto delle differenze e dei diritti umani, che lascia perplessi riguardo alla forza delle pratiche concordate in materia di salute mentale. Geel ha un nome, un cognome e una storia da raccontare. Ciò che resta da fare è svelare le storie che ci colpiscono in ogni momento e luogo.

Bibliografia

Bateson, G. (1979), Mind and nature: A necessary unity, London, Wildwood House.

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