La memoria corta dell’approccio sistemico e la storia rimossa delle psicoterapie psicoanalitiche brevi

La memoria corta dell’approccio sistemico e la storia rimossa delle psicoterapie psicoanalitiche brevi

di Luca Casadio

La tesi di Mao era che dopo tutte le rivoluzioni arriva la restaurazione, dopo la rivoluzione emerge l’uomo forte, il dittatore. E lui per impedirlo ha organizzato la rivoluzione permanente.
Luigi Boscolo

Il rivoluzionario diventa rispettabile.
Wilfred Bion

Introduzione a mo’ di caso clinico

Per riflettere sulle psicoterapie psicoanalitiche brevi, sulla loro storia e sul rapporto con le terapie sistemiche, può essere utile partire dalla descrizione di un breve caso clinico: un caso risolto in solo due sedute.

Byron (nome di fantasia), noto scienziato di 51 anni, ha contattato uno psicoterapeuta a causa di uno stato di grande agitazione. Avvertiva infatti un’estrema debolezza; non riusciva a raggiungere la piena potenza sessuale, a riposare tranquillamente o a parlare con altre persone senza scoppiare di colpo a piangere. Negli ultimi 3 anni della sua vita, Byron aveva già avuto 3 diversi episodi del genere ma quest’ultimo, il peggiore degli altri, era iniziato alcune settimane prima del consulto psicologico. In quel periodo, lo scienziato era impegnato in un lavoro scientifico, e, poco dopo la consulenza, avrebbe affrontato un convegno molto importante in cui avrebbe dovuto presentare pubblicamente il suo lavoro. Nonostante i risultati positivi, Byron aveva sviluppato un’avversione verso quel lavoro, che lo portò a decidere di non presentarlo personalmente, lasciando così l’incombenza ai suoi collaboratori.
Dal primo colloquio clinico emerse che Byron era l’unico figlio di due genitori anziani, che però avevano già avuto numerosi figli dai matrimoni precedenti. Lui stesso affermava di essere stato viziato dai suoi genitori. Byron, da molto piccolo, aveva sofferto di una forma leggera di poliomielite che portò i suoi cari a definirlo come debole e vulnerabile, a differenza degli altri fratelli molto capaci e attivi. Solo a scuola riusciva a brillare, e a mostrare tutte le sue capacità.
Byron ebbe un primo matrimonio infelice, in cui soffriva di eiaculazione precoce. La moglie, a suo dire, era depressa, dedita all’alcol e infedele. Tre ani dopo il divorzio, però Byron ebbe un altro matrimonio, felice e duraturo.
Durante il primo colloquio, il terapeuta rimase colpito dall’enfasi che il paziente metteva a proposito del suo altruismo professionale. Diceva infatti di lavorare per l’umanità intera e non per se stesso. Il terapeuta immediatamente fece un intervento, facendo notare come Byron – a suo avviso – stesse negando il suo egoismo, rifiutando di ammettere quanto fosse gratificante risolvere un problema di difficile soluzione. Il terapeuta aggiunse che credeva fortemente al suo altruismo ma si diceva altresì convinto che ognuno possa avere una forma di egoismo, di sano egoismo.
Dopo questa prima seduta, Byron avvertì un miglioramento delle sue condizioni. Fu inoltre colpito dalla chiarezza del terapeuta nello spiegargli i suoi sintomi. Byron non aveva mai pensato di avere degli atteggiamenti inconsapevoli. Aveva anche capito di essere, in verità, molto competitivo.
Nel secondo colloquio, il terapeuta fece notare a Byron la coincidenza della diminuzione della potenza sessuale e l’aumento dell’importanza del lavoro per lui. Paziente e terapeuta si concentrarono allora sul rapporto tra il lavoro e la sfera sessuale. Byron ammise di aver iniziato quella ricerca per confutare una tesi ampiamente accettata, riconoscendo così la sua competitività, e il desiderio di affermazione. Il terapeuta disse allora che lui aveva voluto sconfiggere la generazione precedente, con il suo lavoro e con le sue doti intellettuali. E che, allora, il suo ritiro dal progetto, fatto all’ultimo minuto, era un modo per attaccare i suoi collaboratori più giovani. Il terapeuta drammatizzò la situazione: andate avanti voi, giovani leoni – disse – anche senza di me, se siete capaci. Ma non potete. Avete bisogno di me. Gli altri insistono a pregarla, diceva il terapeuta, ma lei è inflessibile. No, io ho combattuto abbastanza, arrangiatevi voi. Non posso competere con loro in campo sessuale, ma, nelle cose che contano, posso considerarmi ancora migliore dei giovani. Ma per poter pensare così – continuò il clinico – ha bisogno della malattia, di un alibi: è depresso, non riesce a dormire, continua a piangere, non vuole riconoscimenti. Così riesce a provare piacere, senza sentirsi cattivo. Lei fa il martire per coprire il trionfo della sua vendetta sui suoi colleghi. La cui unica colpa è quella di essere più giovani di lei.
La risposta del paziente a questa riformulazione fu eccellente; infatti si trovò d’accordo con il punto di vista espresso dal terapeuta e, dopo l’incontro, i suoi sintomi si affievolirono così tanto che non fu necessaria un’altra seduta.
Un follow-up 6 mesi dopo, e un altro ben 9 anni dopo, sancirono la stabilità di questo cambiamento. Il paziente mostrò, negli anni, soltanto un breve momento depressivo, privo di ulteriori sintomi, che passò però velocemente, e per cui non fu necessario alcun trattamento. (vedi Flegenheimer 1982, pag. 42-44)

La lettura di questo caso clinico fa sorgere alcune domande: si può desumere, da questo breve stralcio, l’epistemologia del terapeuta, se non addirittura la sua formazione? Si tratta forse di un terapeuta sistemico individuale? Di un intervento strategico? Oppure di qualche altro tipo di formazione riconoscibile?
Eppure – sveliamo subito l’arcano – il terapeuta in questione è uno psicoanalista: Franz Alexander, che divenne, nel corso della sua carriera, anche direttore del Chicago Institute of Psychoanalysis. Dopo questa terapia breve, la prima della sua vita, svoltasi negli anni ’40 (ben prima della nascita dell’ottica sistemica), Alexander si convinse a tentare altri interventi brevi, per delineare i principali fattori di cura. Ovviamente, questo intervento appare molto diverso da una psicoanalisi classica, ma può, ugualmente, essere considerato psicoanalisi? E perché queste riflessioni non hanno avuto il seguito che meritavano? E perché, ancora, nessuno ha ancora creato una connessione tra le psicoterapie analitiche brevi e le terapie sistemiche?
Il fatto che tra queste due diverse forme di terapia non si sia mai realizzato alcun confronto è soltanto un peccato, un’occasione persa. Anche perché, a mio avviso, i risultati potrebbero essere interessanti. In mancanza di altro, provo io a percorrere questa strada.

Terapia sistemica e psicoterapie dinamiche brevi

Gli scrittori – e gli esperti del cosiddetto storytelling – sostengono che, in una storia, devono essere presenti alcuni elementi fondamentali. Primo fra tutti la presenza di un eroe; un soggetto con un sogno, un ideale, un punto di vista chiaro e un chiaro obiettivo da raggiungere. Qualcuno che desidera, che vuole qualcosa e che cerca di trasformare la situazione in cui vive. Insomma, un personaggio capace di adoperarsi concretamente per ottenere un risultato, mettendo in campo tutte le energie di cui dispone. Come secondo elemento – perfettamente contrapposto al primo – può essere utile la presenza di un antieroe, un contrappeso, qualcuno con una visione uguale e contraria a quella dell’eroe stesso, capace di rendere l’obiettivo ambìto vano o soltanto ancor più difficile da raggiungere.
Ma gli elementi narrativi non si esauriscono a questi primi due. Infatti, un mistero, un segreto o un elemento sottaciuto, può rendere la storia più ricca, e maggiormente degna d’interesse. Inoltre, possono essere messi in campo anche altri accorgimenti, come: l’introduzione di un precursore, un visionario, una figura con una visione chiara, quasi profetica. E infine, come ultimo espediente narrativo, si può utilizzare anche la presenza di un’altra forma di opposizione all’eroe stesso (oltre a quella dell’antieroe): quella dell’establishment, dell’istituzione. Una presenza conservatrice, socialmente riconosciuta, a difesa dello status quo, che si frappone, con ostinazione, ottusità e cocciutaggine, a qualunque forma di cambiamento o innovazione.
Bene: la storia delle psicoterapie psicoanalitiche brevi – che andrò tra poco a raccontare – della loro evoluzione nel campo della psicoanalisi (e la loro completa rimozione), ha in sé tutti questi ingredienti e costituisce, al tempo stesso, anche un’interessante fonte di riflessione per la terapia sistemica. Non dimentichiamoci che i più importanti terapeuti sistemici, come Don Jackson, Salvador Minuchin, Nathan Ackerman, Mara Selvini Palazzoli, Luigi Boscolo, Gianfranco Cecchin, e altri (quelli che per primi, almeno in Italia, hanno operato la cosiddetta svolta sistemica), avevano tutti una formazione psicoanalitica, un bagaglio solido e un punto di vista molto ben strutturato. Impellente è stato il loro bisogno di abbandonare la tecnica psicoanalitica, per abbracciare un nuovo modo di lavorare con le famiglie, ma, al contempo, questi autori si avvalevano di una capacità di lettura degli eventi clinici, e alle storie dei loro pazienti, che derivava dalla loro formazione precedente. Vari manuali descrivono proprio questa transizione. Prendiamone uno, Clinica Sistemica, di Luigi Boscolo, Gianfranco Cecchin, Lynn Hoffman e Peggy Penn (1987), quattro protagonisti di questo cambiamento. Secondo Lynn Hoffman, i protagonisti del Gruppo di Milano, abbandonarono le tecniche e il setting psicoanalitico soprattutto a causa della lunghezza delle terapie e per la scarsezza dei risultati raggiunti. Per questo motivo, una volta venuti a conoscenza dei contributi di Gregory Bateson, relativi alla schizofrenia (Bateson 1982, Casadio 2010), Mara Selvini Palazzoli e gli altri s’interessarono al lavoro del Mental Research Institute, chiedendo una consulenza, della durata di un anno, proprio a Paul Watzlawick, che lo guidava. Questo fu il primo passo verso la creazione di un intervento sistemico, e anche la prima rivoluzione epistemologica del gruppo stesso.
Altri centri, come il Centro Ackerman per la terapia delle famiglie (vedi Ackerman 1938), capitanato da Don Bloch, da cui Lynn Hoffman proveniva, cercava una mediazione; definendo una terapia familiare capace di integrare la psicoanalisi classica con le nuove idee di Bateson e un approccio maggiormente pragmatico.
I cambiamenti operati dai sistemici, nel corso degli anni, furono molteplici; il punto più interessante riguarda il superamento dell’idea di mente, pensata come scatola nera, alla base del primo approccio strategico (e del comportamentismo), per aprirsi al mondo dei significati condivisi e alla messa in comune di: emozioni, premesse inconsapevoli, storie, obiettivi, e adattamenti relazionali, insomma; alla cibernetica di second’ordine (Telfener, Casadio, 2003; von Foerster, 1985). Il che comportava anche un superamento dell’idea di controllo dei pazienti stessi, per uno scambio maggiormente paritario (e non istruttivo) tra il sistema curante e il sistema familiare, privo di tutte quelle metafore belliche, della prima suggestione cibernetica.
Però, in tutti questi passaggi teorici, nessuno mai menziona le psicoterapie psicoanalitiche brevi, che, negli anni ’70, erano già ampiamente sperimentate e riconosciute. Chiaramente, c’è un motivo per questa dimenticanza.
Ma forse è meglio procedere con ordine. A mio avviso, riflettere sull’evoluzione psicoanalitica, con l’introduzione delle terapie brevi, ci permette di comprendere meglio anche i cambiamenti avvenuti nell’ottica sistemica. La storia dimenticata delle psicoterapie psicoanalitiche brevi può così costituire una sorta di specchio in cui anche l’approccio sistemico può vedersi riflesso e comprendere meglio se stesso, il proprio passato e i propri possibili sviluppi futuri. Per chi conosce queste vicende è facile cogliere questa doppia referenza, sistemica e psicoanalitica, sempre a carattere relazionale. Si tratta di una dialettica molto interessante, perché questi diversi approcci mostrano comunque un pattern comune e un’evoluzione simile. Per questo motivo, mi sento di affermare – senza timore di smentita – che la sistemica e le psicoterapie psicoanalitiche brevi sono parenti strette, quasi sorelle di sangue, anche se questo legame non è, a tutt’oggi, approfondito a sufficienza. Eppure queste forme di psicoterapia nascono nel medesimo contesto storico e sociale, nello stesso milieu culturale, riflettendo sulle medesime difficoltà cliniche e rispondendo alle medesime obiezioni, teoriche e pratiche, anche se con caratteristiche uniche e specifiche.

Cominciando dall’inizio: Sandor Ferenczi

Per operare una valutazione generale sulle psicoterapie psicoanalitiche brevi, bisogna raccontare la storia dall’inizio e rifarsi a una figura importate e controversa: quella di Sandor Ferenczi. Ecco il nostro visionario, il messia; l’autore capace di prefigurare un nuovo approccio relazionale, mettendo in discussione diversi dogmi psicoanalitici.
Sandor Ferenczi è nato a Miskolc, in Ungheria, nel 1873, ed era l’unico, nel primo gruppo di psicoanalisti, quello dei fondatori, che avesse un carisma paragonabile a quello di Sigmund Freud. Mentre tutti gli altri erano allievi di Freud, Ferenczi (soprannominato non a caso il gran Visir di Freud) era un vero e proprio amico, consigliere e termine di confronto per il padre stesso della psicoanalisi. Tant’è che, nel 1909, Ferenczi fu scelto da Freud stesso – insieme a Carl Gustav Jung – per portare la peste psicoanalitica negli Stati Uniti d’America.
Inoltre, a lui – e non a Freud – si deve l’importanza attribuita ad alcuni concetti fondamentali come transfert e controtransfert, in primis. Ma anche ai traumi, alla biografia, al ruolo materno e alla nascita di istituzioni psicoanalitiche internazionali, che Ferenczi diresse a lungo. Si tratta quindi di un personaggio centrale della psicoanalisi delle origini, anche se, ancor oggi, non completamente riconosciuto e apprezzato.
Eppure, nell’ambiente psicoanalitico del ‘900, si diceva espressamente che Freud avesse sì inventato la psicoanalisi, ma che Ferenczi la sapesse praticare come nessun altro. Non a caso, Ferenczi chiese a Freud di sottoporsi a una psicoanalisi, presso di lui – come anche Groddeck – per superare il mito ingombrante di uno psicoanalista capace di fondare una nuova disciplina senza aver mai sperimentato un’analisi vera e propria. Ma tutto quello che ottenne fu un rifiuto.
Dobbiamo quindi considerare Sandor Ferenczi come un vero e proprio pioniere, uno studioso della mente e delle relazioni, un precursore e uno sperimentatore della psicoanalisi e della cosiddetta terapia con le parole. Ma anche, come vedremo poi, il precursore di ogni approccio relazionale, perfino quello sistemico. Ricordiamo infatti che Ferenczi esercitava la professione di psicoanalista e psicoterapeuta quando questa ancora non era codificata, e che lui stesso contribuì – non sempre con successo – a definirla e a farla evolvere. Per questi motivi, Ferenczi fu molto osteggiato nel campo della psicoanalisi stessa, dall’establishment psicoanalitico. Solo per fare un esempio, Ferenczi fu definito da Ernest Jones – suo stesso analizzando, oltre che biografo ufficiale di Freud – come uno psicotico, e relegato ai margini del movimento psicoanalitico. Margini da cui solo ultimamente sta riemergendo, per riappropriarsi di un nuovo ruolo, grazie a una vera e propria rinascita di interesse verso la sua figura (vedi Borgogno, 2004, o Haynal, 2007).
Tra i vari spunti clinici che Ferenczi introdusse in psicoanalisi, il più famoso riguarda la cosiddetta tecnica attiva. La tecnica che si può apprezzare anche nel caso clinico di Alexander, descritto nell’introduzione.
Lo psicoanalista, secondo Ferenczi, non doveva restare passivo durante le sedute, costituire per il paziente una sorta di schermo opaco, come aveva già teorizzato Freud, ma mantenere un profilo attivo. Doveva cioè essere in conversazione con il paziente, proporre domande e questioni e, in particolar modo, fare determinate cose, utili per accorciare il tempo complessivo del trattamento, come: 1) “impedire o prescrivere alcune forme di comportamento, come proibire i rituali in pazienti ossessivi o esporre pazienti fobici alle esperienze che stimolano le loro fobie; 2) fissare arbitrariamente un tempo limite per la terapia; 3) usare fantasie indotte per accelerare l’esposizione dei conflitti nascosti; 4) assumere un ruolo definito di fronte al paziente” (Balint, Ornstein, Balint, 1972, 15).
Tecniche che Ferenczi utilizzava fin dagli anni ’20 del secolo scorso.
Da questo passaggio risulta chiaramente che le prescrizioni cliniche, per molti autori (vedi Watzlawick, 1988) l’innovazione clinica più importante dell’approccio sistemico (insieme alla logica circolare e alla considerazione della patologia intesa come familiare), non rappresentano in realtà un’idea così originale. E anche che queste stesse prescrizioni, unite alle tecniche attive proposte da Ferenczi, avevano già portato una rivoluzione della prassi psicoanalitica, in una direzione del tutto simile a quella imboccata dalle successive teorie sistemiche.

Ferenczi e Rank: lo sviluppo della psicoanalisi

Sandor Ferenczi e Otto Rank sono stati i primi psicoanalisti a porsi il problema della durata del trattamento psicoanalitico. Il loro libro, del 1922, The Development of Psychoanalysis, è un’opera complessa e articolata. Gli autori però non sempre sembrano essere d’accordo sulle tesi proposte, il linguaggio che usano è formale e antiquato e mancano esempi clinici che possano suffragare le idee proposte. Inoltre, Ferenczi e Rank sembrano molto timorosi, particolarmente cauti nell’andare contro alcuni principi fondamentali della psicoanalisi, affermando che si tratta soltanto di semplici variazioni alla tecnica classica.
Freud stesso, nella prima parte della sua carriera (Breuer, Freud, 1895), aveva realizzato delle psicoterapie brevi e definito, per alcuni casi clinici, come quello dell’Uomo dei Lupi, una durata precisa per la conclusione della terapia stessa. A partire da queste considerazioni, Otto Rank fu il primo a sostenere che la limitazione temporale dovesse costituire uno dei capisaldi della nuova psicoanalisi. A suo avviso, stabilire un limite temporale costringeva il paziente ad “affrontare la realtà” e a non stabilire con l’analista un lungo legame di dipendenza, che non faceva altro che posticipare il termine della cura.
E se Rank è il fautore del limite temporale, Ferenczi può essere considerato come il promotore della cosiddetta tecnica attiva, a cui abbiamo già accennato. Per Ferenczi era importante porre dei limiti alle libere associazioni, anche fornendo prescrizioni e chiare indicazioni da fornire al paziente. Ma, in The Development of Psychoanalysis, Ferenczi e Rank vanno oltre tutto ciò, affermando che il trattamento psicoanalitico finisce troppo spesso per diventare una forma di intellettualizzazione. Secondo gli autori: “in un’analisi eseguita correttamente, non si deve ripercorrere l’intero percorso evolutivo del paziente ma solo quelle tappe dello sviluppo della libido infantile su cui l’Io […] è rimasto fissato” (1922, pag.19). In pratica: si può partire dal trauma subito, dal contesto in cui è sorto il problema.
Eseguendo una ricostruzione totale del passato del paziente, invece, si rischia di perdere di vista l’aspetto emotivo, tanto del soggetto che quello proprio dell’incontro analitico. L’attività del clinico, infatti, ha senso se contribuisce a mantenere il contatto con il mondo vivo delle emozioni. E questo si favorisce individuando un focus specifico, sui conflitti principali del soggetto, diciamo sul suo mondo relazionale. Altra consonanza con le prime terapie sistemiche che proponevano terapie focali centrate sul problema (Watzlawick, 1988).
Uno degli aspetti più interessanti della proposta di Ferenczi e Rank riguarda proprio il legame tra il focus relazionale e l’aspetto emotivo. La cura, secondo gli autori, si ha quando il paziente rivive le proprie emozioni (rispetto ad alcune figure importanti del passato), e le riesce a comprendere (nel suo sviluppo e nelle sue conseguenze) nel transfert, cioè nella relazione col clinico. Per evocare le emozioni – gli affetti in ottica psicoanalitica – gli autori consigliano di utilizzare, oltre alle prescrizioni, un atteggiamento emotivo specifico per quella determinata situazione e per quel determinato paziente. Oggi potremmo dire un intervento sintonizzato sui suoi bisogni.
Con il lavoro di Ferenczi e Rank l’interesse teorico e clinico si sposta dalle caratteristiche del paziente, dalla sua patologia, alla risposta che l’analista può fornire, e alla relazione che la coppia curante (considerata come un sistema) va a definire. Cioè tutti i possibili feed-back che il terapeuta può contribuire a comporre. In pratica: ci si sposta dal transfert al controtransfert, e alla relazione indiscindibile tra questi due termini.
L’atteggiamento di Freud a proposito del lavoro di Ferenczi e Rank fu ambivalente: dapprima li appoggiò entrambi, caldeggiando l’intero progetto, e li spronò attivamente a proseguire nei loro studi, ma poi sollevò dei dubbi e, infine, criticò apertamente l’impianto di base delle loro teorie. Tutti, infatti, ricordiamo la famosa frase del padre della psicoanalisi che ammoniva di non mischiare l’oro della psicoanalisi con il rame della suggestione. L’establishment psicoanalitico presto bocciò il progetto delle psicoterapie brevi, oscurando di fatto i risultati raggiunti e le ragioni che lo avevano motivato.
In seguito, anche Ferenczi e Rank abbandonarono le loro idee innovative: Rank si dedicò completamente al cosiddetto trauma della nascita, che acquistò, a suo avviso, un ruolo preponderante (anche se fallimentare), mentre Ferenczi rimase prigioniero di un atteggiamento contraddittorio; dipendente dalla figura paterna (rappresentata da Freud) anche se sempre pronto a introdurre idee innovative, che andavano a minare i concetti di base della psicoanalisi stessa. In breve, le idee rivoluzionarie di Ferenczi e Rank furono espulse dal campo della psicoanalisi e si persero nel nulla. Almeno per una ventina d’anni.

Alexander e French: l’esperienza emozionale correttiva

Il progetto delle psicoterapie psicoanalitiche brevi fu ripreso soltanto nel 1946, per opera di Frenz Alexander, uno psicoanalista ungherese naturalizzato statunitense, che, in seguito, ricoprì anche il posto di direttore del Chicago Institute for Psychoanalysis, l’autore del caso clinico che abbiamo già descritto.
Il lavoro di Alexander, in collaborazione con French, aveva il medesimo obiettivo di quello di Ferenczi e Rank; definire i principi di base per interventi brevi ed efficaci. Il progetto era ambizioso: per suffragare queste ipotesi furono trattati circa 600 pazienti, sia presso l’istituto di Chicago, che privatamente. I risultati di questo studio furono poi pubblicati nel 1946, nel volume di Alexander e Franch dal titolo Psychoanalytic Therapy.
Ovviamente, il punto di partenza era lo stesso del lavoro di Ferenczi e Rank, di più di vent’anni prima. Lo stile narrativo di Alexander e Franch però (a differenza dei loro colleghi) era chiaro ed incisivo, e il loro volume era sostanziato da una corposa documentazione clinica. In questo lavoro, Alexander contesta apertamente l’assunto freudiano secondo il quale i risultati dell’intervento clinico sono proporzionali alla frequenza delle sedute. Solo da questo punto di vista, infatti, si potevano proporre dei parametri capaci di accorciare la durata del trattamento. Secondo Alexander era possibile avere dei risultati anche maggiori rispetto al trattamento classico, proprio perché, con le terapie brevi, si arginava il fenomeno della regressione. E come già Ferenczi e Rank, anche Alexander e French sostenevano che non era necessario analizzare tutti gli aspetti della vita del paziente. La terapia, piuttosto, doveva chiarire il punto preciso, il momento in cui si è verificato il trauma da cui sono scaturite le difficoltà del paziente. Ancora una volta un focus relazionale.
Non a caso French parlava di conflitto focale su cui si incentravano immancabilmente le sedute. Tale conflitto mostra un pattern comune, espressione di un conflitto nucleare più antico e profondo. Per French, nelle terapie brevi, era utile dare un senso (relazionale), a questi conflitti, che dovevano essere discussi col paziente stesso. E questa modalità costituiva il cuore del trattamento stesso. Per giungere a questo obiettivo si potevano: variare la frequenza delle sedute, utilizzare una posizione vis a vis e interrompere per alcuni periodi il trattamento. Tutti parametri utili per ridurre la dipendenza del paziente nei confronti del clinico, e così anche la durata del trattamento complessivo.
Per ogni singolo caso, inoltre, dopo una valutazione iniziale, si sarebbe dovuto elaborare, e condividere, un piano individuale, che sapesse, tra l’altro, valutare la cosiddetta forza dell’Io, cioè la capacità del paziente di aderire alla realtà e di riuscire ad avere insight.
Ricordiamo che Alexander, a differenza di Rank, non definiva un limite temporale per la terapia, ma ugualmente realizzava psicoterapie brevi, dai 10 ai 30 incontri. Il nucleo centrale della proposta di Alexander era relativo all’attività del terapeuta e alla tensione emotiva del trattamento stesso. Per questo motivo, Alexander introdusse un nuovo fattore curativo: l’esperienza emozionale correttiva. Si tratta di un contributo originale, un elemento centrale della cura, a mio avviso, anche di quella sistemica.
Si può dire che ci sia stata un’esperienza emozionale correttiva quando il paziente rivive l’esperienza storica traumatica (anche in parte), lo stesso contesto, lo stesso vissuto, nel rapporto col terapeuta (o anche, durante la terapia, con un’altra figura importante della sua vita), però con una risoluzione positiva, rispetto al conflitto di base. In questo modo, Alexander riprende anche alcune idee di Breuer e Freud, descritte in Studi sull’isteria (1985). Alexander era convinto che saper modulare il transfert, cioè assumere un ruolo specifico rispetto al paziente, fosse una delle caratteristiche di base del trattamento psicoanalitico, una delle più efficaci. Bisogna anche ricordare che queste idee appaiono scontate nel panorama attuale, e vengono attuate da una grandissima quantità di psicoterapeuti, ma non erano affatto accettate al momento della pubblicazione del libro di Alexander e French, cioè negli anni ’40, subito dopo la morte di Freud.
Nonostante tutto, queste proposte furono considerate dall’establishment psicoanalitico come un vero e proprio attacco alla psicoanalisi ufficiale. Un tentativo di minare la psicoanalisi stessa. E gli autori valutati come eretici, lontani dalla psicoanalisi vera e propria. Di certo era un problema politico più che scientifico. Forse perché, ancora una volta, la tecnica classica, doveva essere accreditata come la terapia migliore, la più completa, quella priva di ogni possibile falla o semplice controindicazione.
Ma proviamo a descrivere un altro caso clinico, sempre tratto dal lavoro di Alexander e French del ‘46.

Carlo è un industriale di 42 anni, che si è rivolto a Frenz Alexander a causa di un umore irascibile, e perché dimostra grandi difficoltà nell’andare d’accordo con le persone. Soffre di crampi alle braccia e, ultimamente, è diventato completamente impotente. Il padre di Carlo era molto autoritario, tanto in famiglia che sul lavoro, e aveva lasciato a Carlo un grande senso di inadeguatezza durante l’infanzia. La madre morì quando Carlo aveva solo 10 anni, e il padre quando ne aveva 30, lasciandolo orfano e senza nessuno. Dopo la morte del padre Carlo subentrò nella direzione dell’azienda, con grande successo. Però nei confronti della moglie, e di suo figlio, Carlo assunse gli stessi atteggiamenti autoritari del padre. Per questo motivo la moglie chiese il divorzio, anche se, un anno e mezzo dopo, si risposarono, senza alcun mutamento nelle relazioni familiari. Nella consulenza, Alexander non riuscì a ricostruire nessun fattore scatenante l’impotenza.
L’intero trattamento duro 26 sedute, lungo 10 settimane. Nel caso dei primi incontri, Carlo cercò di ricreare col terapeuta lo stesso rapporto che ebbe col padre; seguiva pedissequamente i consigli del terapeuta ma, allo stesso tempo, si dimostrava molto competitivo con questo, rispondendo alle interpretazioni dicendo che lui aveva successo negli affari. Alexander allora si propose in maniera del tutto diversa rispetto al padre: non prendeva decisioni, lasciava al paziente la definizione del numero delle sedute e, quando il paziente passeggiava nella stanza, durante la seduta, lui non interveniva. Il terapeuta sosteneva il paziente criticando le sue stesse conoscenze e quelle degli psichiatri in genere. Se con questo trattamento Carlo fosse rimasto competitivo allora Alexander avrebbe avuto gioco facile nel dimostrare quanto questo dipendesse da lui, ma non ce ne fu bisogno: il paziente presto migliorò il suo comportamento anche verso la moglie e il figlio. Anche quando la situazione poteva diventare competitiva Alexander faceva molte domande dimostrandosi sempre interessato. Nella diciottesima seduta Carlo si mostrò particolarmente didattico e condiscendente, ma Alexander continuò con il suo atteggiamento terapeutico. Da quella seduta l’impotenza scomparve, emancipandosi anche dal timore verso il padre. Carlo avvertiva l’aiuto degli altri come un senso di superiorità, un atteggiamento che lo poteva far sentire poco virile. In questo frangente, il trattamento venne interrotto per 2 mesi e i risultati postivi perdurarono e, così, insieme, terapeuta e paziente, decisero di concludere la terapia. Nel follow-up, nove mesi dopo, si vide che i cambiamenti erano stabili. (Flegenheimer 1982, pag.40-42)

Altri importanti clinici proposero delle personali modifiche al modello delle psicoterapie analitiche brevi, come Sifneos, Malan e Mann (vedi Flegenheimer 1982, Grasso Cordella 1989).

La ricerca-intervento dei coniugi Balint

Michael Balint, psicoanalista di origine ungherese, che divenne poi anche presidente della società psicoanalitica inglese, con sua moglie Enid e altri collaboratori, ha svolto un’interessante ricerca-intervento sul tema delle psicoterapie brevi. E, per questo motivo, a metà degli anni ’50, presso la Tavistock Clinic di Londra, ha formato un gruppo di specialisti, tra cui anche David Malan, esperto di psicoterapie brevi e autori di diversi saggi.
I Balint fecero una serie di seminari di training e poi iniziarono a definire il loro modello d’intervento, che prese il nome di psicoterapia focale. L’idea di base era quella di concentrarsi sulla relazione terapeuta-paziente (e non sulla sua patologia psichiatrica) e sulle possibili modalità di risposta del clinico. I coniugi Balint definirono così un’equipe multidisciplinare, che avrebbe letto i protocolli d’invio (dai medici di base o da altri terapeuti), realizzato una discussione sul caso, formulato un’ipotesi di intervento, per poi assegnare lo svolgimento del caso a un membro del team stesso, su base volontaria; un lavoro d’equipe, paragonabile ad alcuni interventi successivi adottati dai sistemici.
Ogni terapeuta, prima della psicoterapia vera e propria, avrebbe realizzato alcuni colloqui di valutazione, uno o due, centrati sulle relazioni familiari, quelle di origine e quelle della famiglia attuale, e sul contesto d’insorgenza dei sintomi. E anche quando il caso era ormai assegnato a un singolo professionista, continuavano le discussioni in gruppo, e una descrizione del processo terapeutico in atto, soprattutto quando si evidenziavano delle difficoltà. In diversi casi, si attuarono anche degli incontri di coppia, come è riportato nel caso del signor Baker, descritto, seduta per seduta, nel volume pubblicato nel 1972 (Balint, Ornstein, Balint, 1972).
Un altro aspetto saliente riguarda la tecnica di base, utilizzata dal gruppo stesso. Michael Balint, in queste terapie focali, introdusse le cosiddette interpretazioni multifasiche, delle vere e proprie interpretazioni a quattro mani, realizzate congiuntamente tra terapeuta e paziente. Questa modalità supera il classico schema impulso/difesa della psicoanalisi classica, che vede il paziente resistere alle interpretazioni dell’analista, il quale cerca invece, con fatica, di far emergere alla coscienza del materiale negato e refrattario.
Per giungere a un’interpretazione multifasica invece, c’è bisogno del contributo attivo del paziente. Il terapeuta, infatti, durante il colloquio, proponeva delle considerazioni su ciò che veniva narrato dal paziente stesso, poi valutava le risposte ai suoi interventi e, infine, se c’era accordo, costruiva, in un lavoro congiunto, un’ipotesi più sistematica. L’idea di base era quella di co-costruire, insieme al paziente stesso, un quadro di lettura congiunto, capace di dare una nuova lettura dei sintomi, ma anche delle relazioni vissute dal paziente stesso, considerate come principale fattore di cambiamento.
Ma il gruppo di Balint non si fermò a questo; come fattore curativo, infatti, valutò anche le scoperte autonome del paziente stesso. In questo caso, il colloquio stesso non era più pensabile come un lavoro del terapeuta sul paziente, come descritto dalla psicoanalisi classica, ma come un’elaborazione congiunta di categorie (cognitivo-affettive), capaci di fornire un nuovo senso agli eventi e di mettere il paziente in condizione di riscrivere la propria storia, la propria biografia. Il colloquio stesso, nel suo insieme, veniva pensato da Balint come un contesto affettivo, altamente creativo, in cui deuteroapprendere (diremo oggi) modalità di riflessione sulle proprie relazioni e sulla propria esistenza.

Weiss e Sampson e il piano inconscio: la psicoanalisi ai giorni d’oggi

La psicoanalisi contemporanea non è più pensabile come un movimento coerente; assomiglia piuttosto a un arcipelago formato da gruppi e gruppuscoli con epistemologie locali e contraddittorie, che lavorano su modelli circoscritti. Uno di questo gruppi, uno dei più interessanti, a mio avviso, è guidato da Joseph Weiss e Harold Sampson, due psicoanalisti che lavorano al Mount Zion Hospital di San Francisco. Oltre a condurre un importante centro clinico, Weiss e Sampson svolgono attività di ricerca, tra l’altro videoregistrando intere psicoterapie, e cercando di descriverne i fattori curativi. Anche loro si basano sul lavoro pionieristico di Ferenczi e Rank, e sulle intuizioni di Alexander e Franch. E anche loro, inoltre, hanno elaborato un’interpretazione originale del concetto di esperienza emozionale correttiva (che oggi, con Antonino Ferro, potremmo chiamare esperienza emozionale trasformativa).
L’approccio del Mt. Zion Hospital si basa anch’esso sull’idea psicoanalitica di base che prevede l’antinomia conscio/inconscio, ma lo fa modificando radicalmente i termini della questione. Secondo la teoria freudiana classica, infatti, la coscienza è in continuo conflitto con gli impulsi istintuali e i contenuti rimossi proprio perché questi ultimi, benché allontanati, spingono per cercare un varco verso la consapevolezza. Secondo Weiss e Sampson, invece, ciò che regola l’emergere dei contenuti inconsci è la valutazione del pericolo da parte del soggetto, il proprio senso di sicurezza. In pratica: il passaggio dall’inconscio al conscio dipende da una valutazione del contesto intersoggettivo che il soggetto sta vivendo. Valutazione che può essere anch’essa emotiva, e quindi del tutto inconsapevole.
Invece che ritenere che la spinta di base di ogni persona sia quella di gratificare i propri desideri infantili inconsci, come sosteneva Freud, il gruppo del Mt. Zion ipotizza che i soggetti vengano in terapia col desiderio di padroneggiare i propri traumi, i conflitti e le angosce sperimentate nella loro esistenza. Per fare questo è necessario raggiungere delle condizioni di sicurezza (Weiss Sampson 1993).
La differenza tra i due modelli è sostanziale: secondo la teoria psicoanalitica classica la terapia “deve indurre il paziente a fare quello ciò che non vuole fare – vale a dire abbandonare le proprie gratificazioni infantili – […] all’opposto, secondo il modello del gruppo del Mt. Zion, il terapeuta può aiutare il paziente permettendogli di fare quello che inconsciamente vuole fare – vale a dire cambiare le proprie convinzioni patogene e superare le sensazioni di paura, angoscia e senso di colpa che ne derivano” (Eagle 1984, pagina 107).
L’esempio che Weiss utilizza per descrivere l’importanza delle condizioni di sicurezza è preso direttamente dalla vita di tutti i giorni, cioè dal pianto all’happy ending di un film (Weiss 1952). Secondo lo psicoanalista di San Francisco non si piange quando le esperienze percepite sullo schermo sono più dure e pregne di emozioni, e neanche si è felici neanche quando, alla fine del film, tutti si risolve per il meglio. Si piange, invece, quando, per esempio, una coppia che ha attraversato diverse peripezie finalmente si riunisce, solo perché in quell’istante si sono verificate le condizioni di sicurezza a cui accennavo prima. Solo protetti da un caldo abbraccio si possono esprimere tutte le difficoltà, le angosce e i dolori che i protagonisti hanno sperimentato. Infatti, lo spettatore che piange al lieto fine non è più teso e angosciato, ma si sente libero di manifestare appieno le proprie emozioni, con quello che spesso viene chiamato pianto liberatorio, una teoria ben diversa dall’abreazione. In questo modo, l’espressione piena dei sentimenti è possibile solo se si creano delle specifiche condizioni, se si crea cioè una relazione calda e sicura, ma soprattutto diversa dalle esperienze traumatiche vissute dal soggetto.
Alla luce di questo, l’idea stessa di terapia viene completamente rivisitata. Secondo Weiss, il paziente sonda continuamente il terapeuta, sottoponendolo a dei veri e propri test, per comprendere se effettivamente ci sono, o meno, le condizioni di sicurezza che gli permettono di esprimere le proprie emozioni e così superare le proprie difficoltà. Come scrive Morris Eagle, a proposito del lavoro di Weiss e Sampson: “I test presentati al terapeuta spesso si incentrano su quegli stessi temi che sono stati traumatici e colmi d’angoscia, non per via della coazione a ripetere pulsionale, ma a scopo di padronanza. Così il paziente che a livello inconscio è convinto che competendo col padre, nell’infanzia, l’abbia ferito, potrà competere con l’analista non perché voglia ferirlo ma per assicurare a se stesso che, competendo con lui, non lo ferisce. Con questo test il paziente spera di superare l’idea costrittiva che, competendo con un’autorità, necessariamente debba danneggiarla” (1984 pagina 108).
La terapia viene così considerata come un’esperienza relazionale significativa, capace di modificare alcuni apprendimenti disadattivi del passato.
Riassumendo, il test viene superato se, invece che ricreare lo schema traumatico del passato, il terapeuta può definire delle condizioni cliniche capaci di far sperimentare in modo diverso quelle stesse situazioni. Ed evocare delle risposte del paziente assolutamente inedite. Tutto questo porta a un cambiamento senza la necessità dell’insight, che, casomai, può seguire l’esperienza stessa, con l’emersione di nuovi ricordi e di nuovi dettagli.
La terapia, così, viene giocata su un piano relazionale, concreto, tra paziente e terapeuta, più che su aspetti simbolici e non si basa su una comprensione astratta e disincarnata di problematiche infantili.
L’aspetto più interessante del lavoro di Weiss e Sampson è che non propone spiegazioni acontestuali, ma, all’opposto, cerca di capire soggettivamente come il soggetto (conoscendo la sua storia evolutiva) possa dare senso a una relazione, ad un particolare contesto interattivo.
Personalmente non so se esista veramente un piano inconscio nella mente del paziente che lo spinga a rituffarsi in situazioni per lui ipoteticamente traumatiche, con la speranza di riuscire a padroneggiare queste relazioni, o se si tratti soltanto di uno schema (cognitivo ed emotivo) che si ripete, o, addirittura, soltanto un preconcetto degli autori, una connotazione positiva di base, simile a quella dei terapeuti sistemici. Di certo, questa concezione incarna un determinato atteggiamento verso il paziente, considerato come un processo in evoluzione, teso a superare alcuni circoli viziosi, che limitano le sue stesse relazioni.
In conclusione, posso affermare che le idee di Weiss e Sampson sono senza dubbio originali e mostrano l’enorme variabilità dell’epistemologia psicoanalitica, che non si è di certo fermata ai concetti di base proposti da Freud, mostrando anche una sintonia con alcuni spunti sistemici successivi.

Conclusioni: la rivoluzione continua

Perché gli psicoanalisti e i sistemici non conoscono la loro storia reciproca? Perché perpetuare ancora oggi questa insensata forma d’ignoranza? E cosa possiamo trarre da una storia di cambiamenti e di vere e proprie rivoluzioni paradigmatiche?
Se ci avviciniamo, con uno sguardo binoculare, alla storia di queste due discipline troviamo, oltre alle consuete differenze, anche una consonanza di intenti, temi comuni e problematiche del tutto simili, oltre a qualche aspetto curioso. Deutch, per esempio, negli anni ‘50 usò le parole chiave come tecnica attiva per le sue psicoterapie psicoanalitiche brevi (Haynal, 2007), proprio come fecero i sistemici circa quarant’anni dopo, ignorando però completamente il suo lavoro.
Anche il gruppo di Milano, negli anni ’70, si trovò a definire in anticipo il numero delle sedute da effettuare (anche se poi abbandonarono questo protocollo), 10 per la precisione, esattamente come prescriveva il modello psicoanalitico di Malan. Allora, come dobbiamo considerare queste coincidenze? E come dobbiamo pensare le diverse forme di psicoterapia? Come dei saperi a sé stanti, separati e indipendenti? Come una serie di norme teoriche da applicare? O piuttosto come un sapere (sempre e comunque) provvisorio che deve essere modificato, emendato, ritarato, sulle esigenze del clinico e dei suoi pazienti?
L’aspetto più interessante di tutta questa storia sta nel comprendere il valore positivo dei diversi accomodamenti epistemologici che si sono susseguiti col tempo. Questi non portano mai a una fase finale di scienza normale, dove una terapia perfetta e inattaccabile possa essere soltanto applicata. Non è un caso che l’approccio sistemico abbia attraversato negli anni (vedi Hoffman 1987) tante trasformazioni teoriche e pratiche, dei veri e propri cambi di paradigma, che hanno arricchito e trasformato i primi spunti degli anni ’60 e la teoria dei sistemi pensata da un biologo multidisciplinare come Ludwig von Bertalanffy (1969).
Anche la psicoanalisi, dal canto suo – a dispetto della versione ufficiale, che vuole questa disciplina come una struttura ancora fedele ai primi dettami di Freud – ha attraversato diverse rivoluzioni epistemologiche, la più importante proprio in ottica relazionale (Mitchell, 1988; Greemberg, Mitchell, 1983), che ha prodotto diversi modelli attuali; uno spettro complesso di idee dal grande valore euristico.
Tutto questo ci porta a una considerazione finale: è del tutto fuorviante proporre un modello clinico come statico, immutabile, fedele alle sue premesse di base (anche se ciò porta un indubbio appeal sociale). Questa descrizione non è mai veritiera, perché la psicoterapia, di qualunque tipo si tratti, è, come sosteneva Ferenczi (1932), un fatto sociale. Un’interazione multipersonale che muta al mutare delle relazioni tra i soggetti. Un sistema che cambia quando cambia l’idea di famiglia, e la sua struttura sociale di base, o quando si trasformano gli usi e i costumi di un gruppo sociale, così come le modalità di descriversi dei soggetti, di comporsi l’uno con gli altri, di raccontarsi, o quando variano le modalità di affrontare i problemi e i momenti di crisi.
Se tutto questo è plausibile, non si può più concepire la psicoterapia come un sapere puro, a radice unica, come direbbe lo scrittore Edouard Glissant (2005), e neanche come il lavoro di una singola persona, per quanto geniale possa essere. Si tratta piuttosto di un sapere molteplice, un mix di diverse idee e di diverse epistemologie contrapposte. Un sapere non sempre coerente e in continua evoluzione, che necessita, per essere efficace, di nuovi accomodamenti, se non di vere e proprie rivoluzioni. Per l’appunto, di una rivoluzione continua.
Ai giorni d’oggi, la psicoterapia deve tornare ad essere un’esperienza significativa per il paziente, o per la sua famiglia, un’esperienza emotiva, cognitiva, relazionale, alla luce della quale fornire un nuovo senso alla propria vita. Un’esperienza capace di aggiornare e dare un nuovo significato alle mappe stesse dei pazienti, ai loro principi organizzatori. Mappe costruite con l’esperienza, col tempo, nell’arco di una vita intera, o di quella più generale (almeno trigenerazionale) della famiglia di origine. Ma i cambiamenti non si possono fermare a questi, ma devono coinvolgere anche chi si occupa di clinica, ai modi di guardare alle relazioni, la patologia e la terapia stessa. Tutto questo ha un ricasco immediato sulla formazione, su come viene insegnata la psicoterapia, in Italia e nel mondo, e ci permette anche dare uno sguardo sul futuro della psicoterapia stessa.
Per rispondere a quest’ordine di problemi serve un esperto che sappia modulare, se non trasformare, la propria epistemologia di base. Un esperto che abbia radici mobili, capace di deuteroapprendere (Bateson, 1972), proprio perché ciò che devono conquistare i pazienti, è figlio del cambiamento del terapeuta stesso, del suo stesso deuteroapprendimento, che, così, diverrebbe un concetto perfettamente relazionale.
Si delinea allora la figura di un professionista attrezzato a ripensare da capo i propri riferimenti, senza scadere in un atteggiamento qualunquista, per cui ogni teoria equivale a qualunque altra. Una figura flessibile, creativa, in evoluzione; un professionista irriverente, come suggeriva Gianfranco Cecchin (Cecchin, 1992; Cecchin, Lane, Ray, 1992), che non si fidi troppo delle sue stesse verità, ma che consideri, al pari di Wittgenstein, le teorie come delle scale, su cui salire (magari per godere di un panorama nuovo), ma che poi devono essere buttate giù, per non reificare un sapere assiomatico. Per non creare quelle che Wilfred Bion chiamava calcificazione del pensiero (Casadio, 2010), ostacolo al cambiamento stesso.
A questo proposito, ricordiamo che Sandor Ferenczi era un terapeuta irriverente, il primo della storia, per quanto ne possiamo sapere, in quanto affermava, e annotava sul suo Diario clinico, che le teorie di riferimento degli analisti sono spesso dei veri e propri deliri a cui i clinici si aggrappano solo per avere delle comode certezze (Haynal, 2008; Ferenczi, 1932). E bisogna ricordare ancora la sua sensibilità, il suo tatto (che aveva per lui un valore clinico), la curiosità che esprimeva per le storie dei suoi pazienti e per le loro condizioni esistenziali. In questo panorama, c’è lo spazio forse cercare una nuova alleanza tra sistemica e psicoanalisi, anche perché negli ultimi anni è sorta quella che io stesso ho definito psicoanalisi sistemica (Casadio, 2012), una psicoanalisi relazionale, contestuale, che ha saputo abbandonare i concetti classici di pulsione, di energia psichica di rimozione (cercando nelle relazioni madre-bambino la propria metapsicologia), e superando un modello unipersonale – quello freudiano – per guardare all’uomo e alle relazioni sociali in modo complesso e attuale.
La sfida è rilevante e le evoluzioni future non ancora prevedibili, ma sono sicuro che queste si possono affrontare meglio mettendo insieme i problemi, le riflessioni e anche la possibilità di costruire uno sguardo multidisciplinare sulla cura, il cambiamento, la patologia e la complessità di quella che ancora chiamiamo vita.

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