“In questa terra piatta e bassa”: riflettere su un romanzo, leggere una terapia, raccontare la cura

“In questa terra piatta e bassa”: riflettere su un romanzo, leggere una terapia, raccontare la cura

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di Walter Troielli

In questi anni di lavoro come terapeuta mi ha sempre accompagnato in sottofondo l’idea che curare (la cui etimologia richiama la curiosità, concetto che risuona potente nelle parole di Cecchin) e narrare siano parole gemelle, che sottendono concetti differenti ma vicini, contigui e se ben usati, intercambiabili; qualche giorno fa una persona, nella stanza di terapia (privata…) mi dice: “sa, ho capito che noi qui ci raccontiamo storie”. Spesso mi chiedo “ho fatto bene a portare questa persona (paziente) a raccontare una storia diversa da quella che si è portata dietro finora?” oppure, quando io propongo una storia differente, dico sempre “mi dica cosa ne pensa, le suona? Le sembra accettabile come storia o ne raccontiamo un’altra?”

La lettura del romanzo “In questa terra piatta e bassa” edito da Morellini nell’ormai quasi lontano novembre 2019 e scritto da Elena Uber, amica e collega, medico Serd AUSL Piacenza, mi ha colpito quindi profondamente per la spiccata capacità narrativa e terapeutica insita nel testo; dalle parole di Elena prendono forma e vita le vicende di personaggi immaginari che sono in realtà una traduzione (e non si usa la parola casualmente) romanzesca delle storie delle persone (diciamo per brevità “pazienti”) incontrate dall’autrice in anni di attività presso il servizio per le dipendenze nel quale lavora. E questo interroga profondamente sulla potenzialità terapeutica dell’incontro con le storie degli altri e sulla responsabilità di scegliere una via “narrativa” alla cura.

Questo incrocio letterario e terapeutico ha risvegliato in me, per riflesso, l’interesse per quell’idea folle, ma ahimè terribilmente affascinante della “deletteralizzazione” dell’arte psicoterapeutica, intesa come la intende Massimo Giuliani negli articoli pubblicati su Connessioni numero 3, giugno 2018 e sul suo blog, in un articolo del maggio 2016 (okay, in quest’ultimo parla soprattutto di metafore, ma non senza passare appunto dal concetto di “deletteralizzazione”).

Deletteralizzare nelle parole del collega assume una moltitudine di significati francamente non riducibili ad uno solo ed univoco, quanto piuttosto a un universo di senso che sottende l’idea di andare oltre il significato letterale che potrebbe avere un determinato concetto. In questo caso si parla nello specifico di una ri-lettura di Paradosso e Controparadosso che una volta deletteralizzato e spogliato dagli aspetti più tecnici e “scientifici” diventa metafora e collegamento tra la terapia e l’arte, in particolare l’arte narrativa, superando la sua dimensione primaria di testo “scientifico” che “insegna”, per diventare un testo che racconta attraverso racconti (che poi, nelle varie letture negli anni, è sempre stato da me percepito in primis come un “romanzo”; ma questa rimane un’altra storia…).

Compiuto questo irriverente passo, ecco allora, per dirla sempre con le parole di Giuliani, che si entra pienamente nella dimensione narrativa della terapia e nella dimensione artistica sottesa allo stesso processo terapeutico; arte e improvvisazione però non si possono fare sul nulla ma devono basarsi su una solida struttura che regga tutto l’impianto sovrastante. Sarà che di fondo mi sono sempre considerato un terapeuta approssimativo ma un discreto lettore, ma l’idea della terapia come narrazione è un concetto che mi ha sempre affascinato terribilmente; e non è un caso che quando mi capiti l’opportunità di scrivere relazioni per committenti istituzionali, il mio sforzo sia sempre scrivere “storie” dalle quali far emergere in modo vivo e umano le vicende esistenziali delle persone coinvolte (gli altrimenti detti “pazienti”, “periziandi”, “clienti”), proprio per ribadire dochisciottescamente l’idea che le persone sono fatte di storie vive e in evoluzione, non diagnosi, etichette o nomi di psicopatologie più o meno altisonanti.

È così che quando arriva tra le mani il romanzo scritto da Elena Uber, in qualche modo ci si trova davanti a una perfetta sintesi di questo connubio tra narrazione e terapia che rappresenta un caso esemplificativo di come si possa “narrare una terapia” raccontando una storia che, apparentemente, non ha sbocchi terapeutici o curativi (diciamo, in termini romanzeschi, un “happy ending”) ma che ha nonostante tutto una potente valenza salvifica e curativa e una forte identità narrativa che ne rappresentano la reale anima terapeutica. Il romanzo racconta le vicende di una famiglia emiliana (appunto, la terra piatta e bassa) attraverso un arco di tre generazioni che si dipanano in tre tempi narrativi differenti (Passato remoto, Passato prossimo e Presente), viste in particolare attraverso gli occhi della figlia della terza generazione e di ciò che le accade. Fino a qui, tutto bene, diceva l’incipit di un film degli anni ‘90 che impattò in modo forte nel panorama della narrativa (appunto) cinematografica; il problema è che per scrivere il suo racconto Elena Uber è andata ad attingere a piene mani dalle vicende delle donne con cui ha lavorato negli anni come medico serd, attraverso anche laboratori di scrittura e esperienze teatrali (e scusate se anche qui, di arte ne abbiamo non poca) per arrivare poi a fonderle assieme nelle storie solo apparentemente immaginare dei protagonisti del suo libro. A tal proposito l’autrice usa queste parole: “questo romanzo inevitabilmente prende spunto da tante storie di donne incontrate davvero e che questi personaggi sono frutto delle impressioni ricavate da questi incontri, tanto forti da impormi, come ho scritto nella dedica, di scriverne, per illudermi, appunto, di poterle meglio conoscere usando un altro ingresso, quello della fantasia e della visione poetica. Chi si è cimentato con passaggi aspri, quasi impossibili, mi appare come un pianeta misterioso e affascinante, pieno di zone oscure, anche irraggiungibili, che mi attraggono con una energia potente capace di fare della penna o della tastiera l’astronave per sbarcarvi e della parola scritta la mia personale risposta all’enigma della Sfinge”.

Di fatto per letteralizzare queste storie e metterla in prosa, si è reso necessario doverle in qualche modo deletteralizzarle in origine, spogliandole degli aspetti e dal linguaggio “tecnico” della terapia, per tirarne fuori un racconto che fluisce attraverso gli anni, i tempi, i luoghi, le stagioni e le vicende dei personaggi, in modo da rendere “narrabili” aspetti di vita quotidiana che se letti attraverso le lenti della semantica clinica classica, rischiano di diventare “depressione”, “abuso”, “tratti schizoidi” e chi più ne ha più ne metta. Attraverso le vicende di Luciana e Adriano, genitori, e dei loro figli Emilio ed Ester il romanzo rende impressionantemente vivo il passaggio generazionale di storie, modi di pensare e vivere il mondo che sono quelli che noi chiamiamo miti, script, copioni e vediamo, anche, come si possano trasmettere parallelamente quelle che nella stanza di terapia di ente pubblico o studio privato che sia, possono poi essere chiamate “patologie”. E se qualcuno, per caso, sentisse una sorta di risonanza con il “romanzo breve” dei Casanti all’interno di Paradosso e Controparadosso, ebbene, sappia che non sta delirando, non troppo almeno, perché l’atmosfera del romanzo di Elena Uber richiama fortemente quella del capitolo dei Casanti perché parliamo di una narrazione che in entrambi i casi rende pienamente tridimensionale, reale e vive e vere oltre ogni classificazione tecnica, le vicende vissute dai diversi protagonisti dei due “racconti”.

Certo, nel volume di Boscolo, Cecchin, Prata e Selvini-Palazzoli, l’intento formativo era fondante, così come l’intento di portare un pensiero per un modo differente di fare psicoterapia, ma anche la “terra piatta bassa” fa vedere per sottrazione dove può risiedere ed essere trovato l’elemento terapeutico delle vicende dei personaggi di Elena Uber.

Leggendo il romanzo sembra di assistere, da dietro uno specchio, a una lunga seduta di terapia, con la classica scansione in fasi, alcune solo più marcate delle altre forse per esigenze narrative o forse no e altre maggiormente lasciate all’immaginazione del lettore al quale, come può accadere al paziente, rimane da fare quel lavoro di “completamento” di quanto emerge nel racconto (terapeutico in seduta), in omaggio all’epistemologia del Milan Approach che, di natura, procede per sottrazione il più possibile.

Vediamo allora nelle vicende dei protagonisti del romanzo come si tramandano le trame familiari, come si ereditano mandati e ruoli e come, drammaticamente, si trasmettano generazionalmente anche sofferenze, drammi che poi si solidificano fino a prendere la forma di quelle che sembrano, a volte, fortunatamente non sempre, “patologie”. E non è quello che accade in una terapia dove le persone incrociano e ri-raccontano storie forse scritte male per loro da chi li ha preceduti e accompagnati nella loro vita?

E se, per dirla ancora con Giuliani (2018) “la tecnica del colloquio che hanno inventato (Boscolo, Cecchin, Prata, Selvini Palazzoli, NdA), era una vera e propria tecnica narrativa […] muoveva, cioè, dalle stesse preoccupazioni che animano i narratori nello scrivere una storia”, allora camminando per la Terra piatta e bassa di Elena Uber, abbiamo davvero un bell’esempio di questo scolorire della terapia in narrazione e viceversa. Luciano, Adriana, Emilio ed Ester sono i protagonisti narrati e involontariamente narranti una storia che definiscono e da cui sono definiti ricorsivamente in un crescendo drammatico che si stempera parzialmente nel finale, come ci si augura capiti in terapia, dove le chiusure sono a loro volta aperture verso possibili altre strade tutte da scrivere (e vivere, per le persone, come per i terapeuti). Il romanzo di Elena lascia una porta aperta per i personaggi, il cui futuro è tutto da scrivere nel prosieguo del loro cammino di vita, reale ed immaginario ma è lasciato anche al lettore il compito di pensare a un evolversi delle loro vicende.

E se una storia si basa sulla sospensione dell’incredulità e una terapia sulla sospensione dell’oggettività, allora il libro/terapia di Elena funziona benissimo proprio perché è credibile e oggettivo nel gioco di soggettività di narrazione delle vicende familiari che altre persone/personaggi avrebbero potuto raccontare in modo diverso e altri narratori/terapeuti avrebbero rinarrato in modo differente, così come ogni vicenda narrata in terapia è una vicenda ogni volta nuova e diversa.

E questa riflessione è quella che emerge in modo forte e chiaro dalla lettura di questo romanzo e che porta a interrogarsi sul processo terapeutico come atto “curativo”, e creativo: come si può fare tutto questo, senza scadere nei tecnicismi e soffocare così la parte più viva e “romanzesca” che è insita in ogni storia umana che arriva a noi?

Cosa spinge un terapeuta ad ascoltare e a narrare resta spesso un mistero; sappiamo però cosa ha spinto l’autrice a prendere in mano la penna e a scegliere determinate storie tra quelle delle sue pazienti: “ io prendo in mano la penna solo per addentrarmi in vicende dolorose e tristi, quasi fossero le uniche che valga la pena raccontare o forse le uniche che da me pretendano di essere raccontate per essere appieno accolte, non dico comprese poiché nemmeno scriverne me le rende completamente chiare, ma perlomeno digerite, metabolizzate. Solo dopo che ne ho scritto, sento completata una mia personale forma di conoscenza, che mi consente di sentirmi “a posto” con quanto ho potuto addentrarmi nella umana vicenda”.

E ancora “Dove si debbano setacciare vite farraginose e contorte facilmente mi perdo e soprattutto si perde la penna, che non sa più discernere tra eventi cruciali e contingenze banali. Per questo descrivo fatti e percorsi comuni, apparentemente insignificanti, comunque semplici, per aiutarmi a dare risalto a momenti cruciali, a passaggi, e per questo, come già detto, le vite difficili mi sembrano le uniche adatte, poiché in esse si deve necessariamente condensare e sostanziare questa energia, non essendocene da dedicare al superfluo.

Solo lì dentro riesco a dare risalto alla natura “epica” di alcuni fatti, cioè alla narrazione poetica di gesta eroiche, come la definisce l’enciclopedia Treccani”. E se il bene si fa nei momenti particolari, così la narrazione terapeutica va a cercare i particolari nei momenti particolari da cui si possa staccare quella differenza che la differenza che improvvisamente può aprire una narrazione diversa. Come nella vicenda di Ester, quando incrocia finalmente personaggi particolari che rappresentano per lei la possibilità di aprire una storia altra. E chissà cosa è capitato alle Ester reali incontrate dall’autrice del romanzo.

E questo è forse lo spunto che più risuona dall’incrocio della lettura del libro con una riflessione sulla funzione terapeutica: avere una competenza, forse una tecnica (parola etimologicamente legata al significato di arte…) narrativa o terapeutica e usarla in modo deletteralizzato, cioè spogliata delle implicazioni lineari insite in ogni tecnica per natura, permette di raggiungere la dimensione più propriamente narrativa e romanzesca, etimologicamente intesa, dell’incontro con l’altro fino a risvegliare l’aspetto curativo e curioso di ogni incontro e come tale, terapeutico.

Bibliografia

Giuliani M. (2016), “Deletteralizzare Paradosso e controparadosso (il terapeuta all’incrocio)”. Corpi che parlano (blog).

Giuliani M. (2018), “La tecnica, cioè l’arte”. Connessioni Nuova Serie, n. 3.

Selvini Palazzoli Mara, Boscolo, Luigi, Cecchin Gianfranco, Prata, Giuliana, Paradosso e controparadosso, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2003.

Uber E. (2019), In questa terra piatta e bassa, Morellini, Milano, 2019.