Diagnosi psichiatrica e ipotesi sistemica. Quali possibilità di cambiamento per la famiglia?

Diagnosi psichiatrica e ipotesi sistemica. Quali possibilità di cambiamento per la famiglia?

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di Alessandro Mantovani * e Alessia Marconato **

*Psicologo Psicoterapeuta, Mediatore Famigliare, Didatta del Centro Milanese di Terapia della Famiglia, Docente del Centro Padovano di Terapia Familiare, Dirigente Psicologo Dipartimento per le Dipendenze Azienza Ulss 5 – Rovigo Veneto. alex.man74@gmail.com

** Psicologa Psicoterapeuta, ex allieva del Centro Padovano di Terapia Familiare, Psicologa Comunità Terapeutica Pubblica Azienda Ulss 2 – distretto di Asolo – Treviso Veneto. alessiamarconato@hotmail.it

Introduzione

Per il terapeuta sistemico l’aspetto principale, in un processo di cura, non risulta essere la diagnosi, ma fare una buona ipotesi che riesca a connettere tutti i fattori relazionali che hanno costruito la designazione del paziente, ossia che riesca a dare un senso a tutti gli attori che si trovano connessi al problema.

Nelle problematiche di dipendenza, generalmente, l’ipotesi si costruisce su due livelli di complessità: il primo è costituito dal comportamento di addiction(ossia la dipendenza in sé: l’uso alcolico, le sostanze psicoattive e il gioco patologico) e dagli effetti di esso sul sistema, il secondo è relativo al contesto relazionale del sistema e agli effetti di quest’ultimo sul comportamento di addiction.

In una tale complessità, la diagnosi, molto spesso, diventa il primo passo per dare un nome ai problemi: la famiglia stessa è la prima a fare una auto-diagnosi. Successivamente è il sistema curante che conferma o disconferma le diagnosi famigliari attraverso processi di etichettamento o di categorizzazione che contribuiscono a stabilizzare la designazione. A questo punto le conseguenze nel processo di cura sono già definite ed agiscono solitamente nel cronicizzare la durata della situazione e nell’aumentare l’inflessibilità del funzionamento familiare.

In questo articolo ci proponiamo di indagare gli effetti dell’intervento terapeutico sistemico relazionale sulla convinzione diagnostica e sul funzionamento familiare sia nei familiari sia nei pazienti con problemi alcol/droga correlati e di doppia diagnosi.

La Diagnosi e l’ottica sistemica

A nostro avviso la diagnosi può essere considerata un “linguaggio comune” usato dai professionisti come:

  • modo di riunire un insieme di comportamenti in un quadro riconoscibile;
  • metodo per spiegare le cause di un insieme di comportamenti;
  • norma per stabilire le premesse della terapia.

Per tali motivi, il fare diagnosi può avere alcuni vantaggi poiché permette la definizione del problema, il potersi parlare tra professionisti e definire percorsi specifici. Dall’altra parte, ci possono essere gli aspetti negativi di attribuire alla persona un’etichetta, rendere il medico/terapeuta troppo sicuro con la possibile conseguenza di ridurre l’interesse verso il paziente.

Il concetto di diagnosi, nell’approccio sistemico, si è andato a modificare nel tempo. Negli anni Settanta, con il passaggio dal modello psicoanalitico a quello sistemico, si accompagnava con il termine di “transazione”: “famiglia a transazione anoressica”, “famiglia a transazione schizofrenica” (Selvini Palazzoli M. et al., 1975). In tale modo si sottolineava che il sintomo era parte integrante di uno schema specifico della famiglia. Ciò era dovuto anche ai concetti della prima cibernetica: fondamentale era capire come si muoveva la famiglia e come funzionava attraverso un processo di causalità circolare. Con l’introduzione della seconda cibernetica e quindi dell’influenza dell’osservatore, il concetto di diagnosi è stato sostituito da quello di ipotesi; ipotesi che si co-costruisce assieme alla famiglia. L’ipotesi, a differenza della diagnosi, non risulta totalizzante e senza tempo (Boscolo, Cecchin, 1988); l’interesse si sposta dal quale èla diagnosi al comesi è arrivati a costruirla. Nel processo di co-costruzione dell’ipotesi tutti i membri della famiglia sono connessi partecipando così, attivamente alla rilettura della propria storia e alla costruzione di nuovi significati. Secondo il modello sistemico, il sintomo è la comunicazione, l’espressione di un disagio che investe la totalità della famiglia di cui l’individuo fa parte. La persona che manifesta un disagio diventa il “paziente designato”, portatore della rigidità del sistema e dei modelli relazionali abituali. Nell’approccio sistemico l’idea è che il sintomo sia strettamente correlato alla posizione occupata dal paziente nel sistema di appartenenza e alla funzione che egli svolge all’interno della famiglia (Boscolo et al., 1983, Peruzzi, 1999, Selvini, 2013).

È evidente che, se si volesse indicare un parametro di riferimento essenziale che il terapeuta sistemico ha in mente nel momento in cui si accinge a fare una ipotesi, questo è il concetto di “contesto” inteso, come “il luogo sociale e relazionale in cui il sintomo del paziente si manifesta, in cui esso prende forma e assume significato” (Bateson, 1977). È attraverso la ricostruzione del contesto che il terapeuta evidenzia le valenze relazionali del comportamento sintomatico, ne esplora la funzione all’interno degli equilibri del sistema di riferimento, ne recupera i significati alla luce delle implicazioni che esso assume nell’ambito di una rete di rapporti interpersonali. Tuttavia, definire il contesto, alla luce degli sviluppi attuali della psicoterapia sistemica, significa, oggi, rilevare e integrare una serie di livelli che rendono il fare diagnosi, come il fare terapia, operazioni complesse.

Boscolo e Bertrando (1996) sottolineano la possibilità di modi diversi di “fare diagnosi” attraverso la descrizione di tre modelli. Il modello medico con il quale si fa prima la diagnosi attraverso i sintomi soggettivi, poi l’anamnesi e gli esami obiettivi e successivamente la terapia; il modello biopsicosociale che considera l’interazione tra aspetti biologici, psicologici e sociali; la terza modalità, portata avanti soprattutto dai terapeuti sistemici, in cui ci si focalizza sul problema e sulla sofferenza esistenziale senza avere alla base una idea indiscussa o un’idea di patologia. Gli autori sostengono l’“importanza di trascendere le dicotomie e rispettare la pluralità dei punti di vista”. Il concetto di diagnosi viene così ad assumere la valenza di un processo in movimento, in continuo cambiamento, modificabile con il processo terapeutico caratterizzato dall’indagine del terapeuta. Tale concetto riprende il pensiero di Selvini Palazzoli et al. (1980): “la diagnosi ha inizio nel momento in cui si entra in contatto con il cliente e non finisce mai. Il modo in cui si discerne la situazione modifica la situazione”.

Peruzzi (1999) scrive che una diagnosi sistemica oltre alla valutazione diagnostica (livello di contenuto) dovrebbe tener conto di tutte le diverse valutazioni del singolo senza tralasciare la valutazione del contesto sociale allargato (livello di relazione). Peruzzi, inoltre, introduce il concetto di compatibilità che consiste “nel ricreare una integrazione tra la molteplicità delle valutazioni di fatto coinvolte in una situazione – il sistema creato dal problema. Idealmente, l’obiettivo di una terapia potrebbe essere identificato proprio con l’aumentare o modificare il grado di compatibilità tra le valutazioni che il paziente dà di sé e del suo comportamento da un lato, e le valutazioni che di lui e del suo comportamento danno dall’altro le persone che costituiscono la rete sociale di appartenenza”. I vari professionisti che si trovano ad operare assieme, ma con premesse differenti, dovranno discutere dei due livelli diversi attuando il concetto di compatibilità, integrando i propri punti di vista senza escluderne nessuno. L’attività del fare diagnosi evidenzia pertanto dei cosiddetti effetti collaterali come ci ricordano le parole di Heiz von Foerster (1987): “una descrizione dice più cose dell’osservatore che dell’osservato” o come scritto da Boscolo e Cecchin (1988): “le diagnosi fatte da diversi operatori dicono più cose dell’operatore che dell’utente”.

Pietro Barbetta (2003), a proposito del fare diagnosi, scrive: “L’attività definita come psicodiagnostica, tuttavia, rende le cose maledettamente complicate. La psicodiagnostica è in effetti un campo di competenze che fornisce un giudizio sulle condotte umane in relazione ad una distinzione semantica del tipo normale/patologico che si va almeno parzialmente a sovrapporre alla semantica del giudizio morale”. L’autore evidenzia cosi l’importanza dell’analisi del contesto e della storia culturale per il discorso diagnostico sottolineando il rapporto tra società/circostanze culturali/storiche e salute mentale.

Intervento sistemico relazionale e convinzione diagnostica: la ricerca

Con l’obiettivo di registrare e di cogliere gli effetti di un intervento sistemico relazionale sulle convinzioni diagnostiche e sul funzionamento famigliare è stata avviata la presente indagine in gruppi di famiglie che svolgono un percorso comunitario presso la Comunità Terapeutica Pubblica Ulss 2 – distretto di Asolo (Regione del Veneto). Riteniamo importante riassumere brevemente i punti cardini del lavoro svolto presso questa struttura. Alla base vi sono l’approccio sistemico relazionale e l’approccio ecologico sociale (metodo Hudolin) che osserva la famiglia e la persona, e non solo il paziente e la sua patologia. Tale approccio, rispetto alle teorie precedenti sul trattamento dell’alcolismo, opera un cambiamento di prospettiva, considerando la “dipendenza alcolica” come un problema multifattoriale, psico-fisico-sociale, che coinvolge l’intera famiglia e gli altri sistemi di vita della persona (comunità, società). I concetti fondamentali di tale approccio sono sostanzialmente tre:

  • il concetto che il “bere moderato” non è definibile;
  • il concetto di alcolismo come stile di vita;
  • il pensiero ecologico.

Un altro aspetto centrale della struttura è la Comunità multifamiliare. Secondo Canevaro e Bonifazi (2011) i gruppi multifamiliari sono uno strumento terapeutico per due principali motivi: permettono il massimo raggio di azione terapeutico in una condizione faccia a faccia tra terapeuta e pazienti e sono uno strumento psico-sociale che fa risparmiare all’istituzione tempo, energie e soldi. Gli autori definiscono i gruppi multifamiliari “un incontro di gruppi di persone unite da vincoli familiari (di sangue o di alleanza) e legate a un membro sintomatico, intente esplicitamente o implicitamente a stabilire una rete sociale che fornisca coesione e reciproco supporto”. Inoltre, Canevaro e Bonifazi scrivono: “mentre si lavora con una famiglia, le altre partecipano emozionalmente in modo anche molto intenso, con la possibilità di avere meno ansia che se fossero al centro dell’attenzione, così molte famiglie apprendono anche se non parlano, incorporando le esperienze degli altri, è un apprendimento per imitazione”. Secondo Laqueur (1972) uno degli obiettivi terapeutici principali dei gruppi multifamiliari è quello di eliminare o variare l’invischiamento familiare.

Nella terapia multifamiliare cruciale è il concetto di mentalizzazione definito da Allen et al. (2010) come “processo mentale con cui un individuo implicitamente ed esplicitamente interpreta le proprie azioni personali e quelle degli altri come significative sulla base di stati mentali intenzionali, quali desideri personali, bisogni, emozioni, credenze e ragioni”. Secondo gli autori si possono riscontrare quattro aspetti fondamentali:

  1. il fenomeno meta cognitivo, cioè la capacità di considerare sé stessi e gli altri esseri dotati di mente;
  2. il secondo aspetto riguarda il significato che si dà alle proprie azioni e a quelle degli altri;
  3. l’intenzione e la capacità di avere desideri, aspirazioni progetti;
  4. il processo e la capacità della mente di compiere azioni mentali che possono svilupparsi a diversi livelli.

Strumenti

L’indagine è stata condotta attraverso la somministrazione di un questionario composto essenzialmente da tre parti: la prima raccoglie le informazioni anagrafiche, la seconda indaga la rigidità diagnostica, la terza è composta dalla prima sezione dello Score15 (in Appendice). Il questionario è fondamentalmente uguale per pazienti e familiari, si diversifica solo nella prima sezione nella quale è chiesto ai pazienti se usano farmaci e ai familiari il loro ruolo. Inoltre, la parte anagrafica raccoglie informazioni inerenti: l’abitazione, la professione, i servizi di afferenza e da quanti anni sono in carico ai servizi. Nella seconda parte viene indagata, attraverso una scala Likert, la convinzione diagnostica, declinata nei seguenti item:

  • la definizione del problema;
  • la spiegazione del problema, ovvero i motivi che sono ritenuti all’origine della problematica;
  • l’effetto generato dal problema, ovvero le conseguenze percepite ed osservate;
  • il cambiamento evidenziato attraverso il percorso terapeutico.

Lo Score 15 (Stratton et al., 2014), inserito nella terza ed ultima sezione del questionario, è uno strumento di misura del cambiamento terapeutico e valuta il funzionamento della famiglia durante il percorso. È un questionario autosomministrato composto, nella versione originale, da quaranta item e ridotto a quindici item nella versione recente che utilizza una scala Likert a cinque punti. Lo scoringsi esprime in un punteggio totale e un punteggio per ognuna delle seguenti scale: adattabilità, ipercoinvolgimento e disturbi della comunicazione.

Soggetti

Il campione totale è composto da 60 persone ed è diviso in due diversi gruppi:

  1. Il primo è composto da 30 persone, di cui 11 pazienti e 19 familiari, che svolgono il programma terapeutico in una delle due sezioni della comunità, sezione “Alcologica” o di “Doppia Diagnosi”. Il campione è stato sottoposto al medesimo questionario al momento dell’ingresso (T0) e al quarantacinquesimo giorno di trattamento residenziale (T1). Si sono scelti questi due diversi momenti (T0 e T1) per verificare le variabili indagate nella seconda sezione del questionario e per avere una fotografia del processo terapeutico. Si è selezionato, come T1 il quarantacinquesimo giorno di trattamento, in quanto nella sezione “Alcologica”, coincide generalmente con la conclusione del percorso e la dimissione, mentre nella sezione “Doppia Diagnosi” corrisponde ad una fase in cui le famiglie si sono già presentate (attraverso una lettera scritta a ciascun membro) alla Comunità Multifamiliare, hanno già svolto colloqui familiari con il terapeuta e hanno avviato la ricostruzione della storia trigenerazionale.
  2. Il secondo campione è costituito da 30 persone di cui 14 pazienti e 16 familiari. Caratteristica comune di tutto il secondo campione è l’aver iniziato il trattamento terapeutico da almeno sei mesi (T2). Di questi 14 pazienti, 6, al momento della somministrazione, stavano svolgendo il percorso nella sezione “Doppia Diagnosi” e 9 avevano concluso il trattamento residenziale e frequentavano un Club Alcologico Territoriale.

Le 30 persone a cui è stato somministrato il questionario in T0 e T1 sono le stesse. Inizialmente il campione in T0 era di 36 persone, 6 in più rispetto al campione finale (3 pazienti e 3 familiari); a queste non è stato possibile somministrare il questionario in T1 poiché hanno abbandonato il trattamento prima del quarantacinquesimo giorno. Questi 3 pazienti avevano due caratteristiche specifiche comuni: vivevano da soli ed erano seguiti oltre che dal Servizio di Alcologia e Tabagismo (SerAT) o dal Servizio per le Dipendenze (SerD), anche dalla Psichiatria.

Il campione a cui è stato somministrato il questionario dopo sei mesi dall’inizio del trattamento (T2) è completamente diverso dal campione in T0 e T1. In totale sono 30 persone: 5 pazienti svolgevano al momento della somministrazione il trattamento, 9 soggetti avevano concluso il trattamento comunitario, erano seguite a livello ambulatoriale dai Servizi e frequentavano un Club Alcologico Territoriali (CAT).

Di seguito verranno riassunte brevemente le caratteristiche anagrafiche dei due diversi campioni, secondo le maggiori evidenze riscontrate:

  • fascia di età: nel primo campione la fascia di età prevalente dei pazienti e dei familiari è quella che va dai 31 ai 40 anni; il secondo campione è rappresentato da una fascia di età prevalente che si colloca tra i 51 e i 60 anni, sia nei pazienti sia nei familiari;
  • ruolo dei familiari: nel primo campione la figura più presente è quella della madre mentre nel secondo campione si evidenzia un aumento della presenza dei figli;
  • abitazione: i pazienti, nel primo campione, vivono prevalentemente con la famiglia acquisita(46%) mentre, nel secondo campione il 29% vive con il partner e il 29% in altre soluzioni abitative (senza fissa dimora o casa famiglia);
  • condizione professionale: l’attività lavorativa non evidenzia grandi differenze in entrambi i campioni; la maggior parte dei pazienti è disoccupata mentre la maggior parte dei familiari ha una professione;
  • amministratore di sostegno: figura che emerge nel secondo campione e non presente nel primo campione. Questo può esser dovuto al fatto che durante il trattamento, per alcuni pazienti, si avvia la pratica per tale istituto.

Risultati

Convinzione diagnostica in T0 e T1

Di seguito viene analizzata la convinzione diagnostica nei pazienti e familiari al momento dell’ingresso (T0) e al quarantacinquesimo giorno di trattamento (T1) presso la Comunità Terapeutica (CT).

La definizioneche i pazienti danno del proprio problema al T0 e al T1: non si evidenzia una netta definizione del problema. Il 36% lo descrive prevalentemente come un problema legato all’uso di sostanze e una difficoltà nella gestione delle emozioni, questo sia all’ingresso in CT che dopo quarantacinque giorni. Diversamente, per i familiari in T0 (grafico 1), c’è una chiara definizione del problema: il 74% lo descrive come un problema legato all’uso di sostanze e il 47% come una difficoltà nella gestione delle emozioni. Anche i familiari in T1 (grafico 2), lo descrivono prevalentemente come un problema legato all’uso di sostanze (79%). Nei due sottogruppi ed in entrambi i tempi, le categorie scelte maggiormente sono le stesse ma, per i familiari, vi è una decisa e comune predominanza.

Come per la definizione del problema, anche per la sua spiegazione, cioè il significato che si danno, i pazienti in T0 evidenziano una maggiore indefinizione. In T1, diversamente, i pazienti spiegano prevalentemente il loro problema con le categorie: difficoltà relazionali (45%) problemi familiari (36%) e problemi di carattere (36%). Per i familiari in T0 la spiegazione prevalente è traumi passati (53%); seguita da avvenimenti recenti, stress (42%); in T1 anche per i famigliari la spiegazione del problema è data da difficoltà relazionali (53%) e traumi passati in egual misura (53%).

Per quanto riguarda gli effetti del problema, per i pazienti al momento dell’ingresso T0 sono: familiari e lavorativi (assenze, lettere di richiamo, perdita del lavoro), in entrambi 36%. Anche dopo quarantacinque giorni di trattamento gli effetti del problemamaggiori risultano essere quelli familiari (45%). Per i familiari in T0 gli effetti del problemasono: psicologici 58% e familiari 58% ed anche in T1 gli effetti percepiti del problema sono psicologici e familiari, per entrambi (47%).

I cambiamenti che si riscontrano maggiormente dopo quarantacinque giorni (T1) nel campione sono: familiari (64%), relazionali (55%) psicologici (55%). Per i familiari in T1 tutte le categorie che rappresentano i cambiamenti (fisico, psicologico, relazionale, familiare, lavorativo) hanno un forte aumento tranne quella riguardante la sfera lavorativa.

Convinzione diagnostica in T2

In questo paragrafo viene analizzata la convinzione diagnostica nei pazienti e familiari dopo sei mesi dall’inizio del trattamento (T2) presso la Comunità Terapeutica. Nel grafico 3 viene rappresentata la definizioneche i pazienti danno del proprio problema: il 50% lo descrive come un problema legato all’uso di sostanze e come difficoltà nella gestione delle emozioni; il 29% lo delinea come un problema relazionale. Il 56% dei familiari (grafico 4) lo descrive come un problema legato all’uso di sostanze e il 38% come una difficoltà nella gestione delle emozioni. Si riscontra come, nei due sottogruppi, pazienti e familiari, le categorie scelte con un’incidenza maggiore sono le stesse.

Nei due grafici successivi vengono rappresentate le spiegazionidel problema per i pazienti (grafico 5) e per i familiari (grafico 6). Le spiegazioni per i pazienti sono trauma passati e problemi familiari per il 64%. in entrambe le categorie. Per i familiari la spiegazione principale è traumi passati (50%), seguita da difficoltà relazionali (44%) e problemi familiari (37,5%).

Nei grafici 7 e 8 sono descritti gli effetti del problema, prima per i pazienti e poi per i familiari. Gli effetti prevalenti per il primo sottogruppo sono familiari (50%). Anche le categorie problemi fisici, psicologici e relazionali vengono considerate dai pazienti come importanti effetti. In tutte le categorie, si delinea il 36%. Per i familiari si riscontrano alte percentuali per ciascun effetto: il 44% rileva un effetto fisico e relazionale, il 37,5% un effetto psicologico e familiare.

I cambiamentiche i pazienti evidenziano prevalentemente dopo sei mesi dall’ingresso in struttura sono: psicologico (79%), familiare (79%) e fisico (64%). Per i familiari l’effetto più evidente è quello familiare (50%).

Di seguito sono riportate le principali differenze che si riscontrano nei due campioni nei tre momenti presi in considerazione rispetto alla convinzione diagnostica.

  • In riferimento alla domanda “Come definisco il mio problema”, confrontando le risposte nei tre tempi considerati, si riscontra un cambiamento nella enunciazione del problema. Per i pazienti non c’è una variazione nella definizione del problema, che viene riconfermata come problema da uso di sostanze, ma c’è un incremento nel definirlo come difficoltà nella gestione delle emozioni, dunque una descrizione più “interna”. Rispetto ai familiari, non si riscontrano grandi modificazioni se non per una diminuzione nella definizione del problema come uso di sostanze.
  • Rispetto a “Quale spiegazione dò del mio problema”, per i pazienti si osserva un forte aumento nelle seguenti categorie (elencate in ordine di maggior cambiamento): avvenimenti recenti-stress, difficoltà relazionali, traumi passati e problema familiari. Come per la definizione, anche per la spiegazione, nei familiari, non si osservano grandi movimenti.
  • In relazione a “Che tipo di effetto mi ha creato il problema”, nei pazienti si notano leggeri aumenti per tutte le categorie tranne che per quella lavorativa. Nei familiari si riscontra una diminuzione per le categorie psicologico e familiare.
  • Rispetto alla domanda “In seguito al percorso terapeutico, quale cambiamento ho evidenziato in me”, si osserva nei pazienti un grande aumento in tutte le categorie, soprattutto in relazione all’item psicologico e relazionale. Per i familiari il principale incremento si osserva al T1 per diminuire al T2, l’aumento del cambiamento familiare rimane, comunque, abbastanza costante.

Per concludere, dai dati emerge un’intensificazione nel tempo della convinzione diagnostica in senso relazionale/familiare sia per i pazienti sia per i familiari, da sottolineare che questo accrescimento avviene prevalentemente per i pazienti.

Funzionamento familiare

Di seguito verranno analizzati i risultati finali dello Score15 nel primo campione nei due tempi (T0 e T1). Il grafico 9 descrive il punteggio finale del questionario somministrato alle famiglie ed evidenzia i cambiamenti per ogni paziente, per ogni familiare e per ogni famiglia nei due momenti di somministrazione.

Nel grafico 10 sono rappresentati graficamente i risultati dello Score15 per il primo campione in cui il 63% risulta migliorato, il 33% peggiorato e il 3% stabile. Nello specifico per quanto riguarda i pazienti: il 55% risulta migliorato e il 45% peggiorato dopo quarantacinque giorni dall’inizio del trattamento. Per i familiari si osserva un miglioramento per il 68%, un peggioramento per il 26 % mentre il 5% rimane stabile.

Per quanto riguarda la somministrazione dello Score 15 nel secondo campione al T2 (grafico 11), diversamente dal primo campione non può essere fatto un paragone con un secondo tempo.

Creando una media tra tutti i punteggi nei tre tempi (grafico 12) non si notano modificazioni rilevanti.

Conclusioni

Dall’analisi dei dati raccolti si può giungere alle seguenti conclusioni:

  • rispetto alla convinzione diagnostica si nota un cambiamento in termini di incremento in senso relazionale/familiare principalmente per i pazienti;
  • rispetto al funzionamento della famiglia, si evidenzia un miglioramento soprattutto per i familiari.

Risulta così che le due “variabili” indagate non sono correlate tra loro se prendiamo in considerazione solo il sottocampione “individuo paziente”, come abbiamo visto, il paziente migliora la propria percezione di diagnosi senza portare un miglioramento nella percezione del funzionamento familiare.

La correlazione tra le due “variabili” possiamo vederla se esaminiamo i due sottocampioni “pazienti” e “familiari” in rapporto tra loro. Potremmo a questo punto fare due possibili ipotesi. La prima, il miglioramento della percezione della diagnosi da parte del paziente permette ai familiari di migliorare la percezione del funzionamento familiare. La seconda, la percezione del miglioramento delle relazioni da parte dei familiari conduce ad un cambiamento della percezione diagnostica nei pazienti.

Possiamo meglio comprendere i risultati ottenuti anche attraverso la mappa del “quadrilatero sistemico” di Mosconi et al. (2013) che si configura come uno strumento utile per la costruzione dell’ipotesi. Tale schema si fonda su quattro livelli logici interconnessi: il problema vissuto, il conflitto intrapsichico, l’incongruenza comunicativa e il conflitto relazionale. Nello specifico, tale modello indaga le seguenti dimensioni: individuale/relazionale; fenomenologica descrittiva/generativa. Si hanno così quattro livelli descrittivi: fenomenologico individuale (la narrazione del problema), generatore individuale (il funzionamento individuale) fenomenologico relazionale (le modalità comunicative del sistema) e generatore relazionale (storia ed evoluzioni del sistema).

Leggendo i dati attraverso il quadrilatero sistemico si può affermare che i pazienti evidenziano un maggior cambiamento nell’area individuale e intrapersonale, mentre i familiari entrano nel processo di cambiamento attraverso l’angolo della dimensione relazionale. Nei pazienti si evidenzia un cambiamento nel livello fenomenologico individuale (narrazione del problema) e generatore individuale (funzionamento individuale). Nei familiari i livelli che si modificano maggiormente sono: fenomenologico relazionale (modalità comunicative del sistema) e generatore relazionale (storia e le evoluzioni del sistema).

Dai risultati emersi, diventa importante per il lavoro terapeutico, mettere in connessione il miglioramento della percezione diagnostica del paziente con il miglioramento del funzionamento familiare nei familiari per analizzare ed ampliarne il riconoscimento di tale cambiamento da parte sia dei pazienti sia dei familiari, così da generare la curiosità sul “come mai” il sistema famiglia abbia sviluppato un problema di questo tipo. In questo modo, tutto il nucleo familiare ha la possibilità di ri-narrare in maniera condivisa la storia di quanto avvenuto. Il lavoro sulla costruzione dell’ipotesi sistemica diventa, così, fondamentale in particolar modo per la possibilità di riconnettere le difficoltà portate dal paziente con la posizione occupata all’interno del sistema e alla funzione che è venuto a svolgere in esso.

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